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“Macchine” di Leonardo e cultura politecnica: lezione utile per un’intelligenza artificiale in mani umanistiche

La scienza, la tecnologia, gli ingranaggi della meccanica, i calcoli dell’idraulica e dell’architettura, i dettagli del volo degli uccelli per costruire macchine a loro imitazione. E la bellezza dei disegni. La precisione dei numeri. E il fascino della raffigurazione, con una qualità artistica raffinatissima. C’è tutto questo, nei 1.119 fogli del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci, custodito nelle stanze della Biblioteca Ambrosiana di Milano. E proprio il grande libro (nel formato degli atlanti geografici) illustra la sintesi delle caratteristiche culturali di una delle stagioni migliori della cultura italiana e dunque internazionale: il Rinascimento. Una sintesi, appunto, tra scienza e creatività artistica. Tra il sapere, il saper fare e il far sapere. Tra il viaggio nella conoscenza e il suo racconto. Una sorprendente “cultura politecnica” che rilancia nel tempo della modernità la saggezza greca del kalos kai agathos, una bellezza non solo estetica ma soprattutto capace di “produrre armonia” (per usare le parole di Papa Francesco all’incontro in Vaticano con gli artisti). Una civiltà delle macchine che si declina in arte. Un umanesimo che apre le porte all’intraprendenza e all’industriosità.

La mostra di dodici di quei disegni del “Codice Atlantico” leonardesco, che è stata inaugurata martedì 20 giugno alla Public Library “Martin Luther King” di Washington (un’architettura esemplare, firmata da Ludwig Mies van der Rohe, per uno spazio “public”, aperto e accessibile a tutti) ha ogni giorno una lunga fila di visitatori, tra cui moltissimi bambini, cui sono dedicati tavoli e installazioni per giocare seguendo i disegni di Leonardo. E il suo titolo, “Immaginare il futuro”, rivela bene il valore di una esposizione, la prima negli Usa, che si muove lungo le strade perennemente incrociate tra conoscenza storica e fantasia progettuale, tra radici dei saperi e impegno a esplorarne nuove dimensioni (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa).
Una mostra da “avvenire della memoria”, insomma. Nella piena consapevolezza della lezione di uno dei maggiori storici del Novecento, Fernand Braudel: “Essere stati è condizione per essere”.

La mostra è stata organizzata dalla Confindustria presieduta da Carlo Bonomi, con il sostegno di grandi aziende italiane (Intesa San Paolo, Ita Airwais, 24Ore Cultura, Dolce&Gabbana, Dompè, Pirelli e Trenitalia) proprio per dare al grande pubblico americano una rappresentazione efficace delle qualità delle nostre imprese su un mercato quanto mai esigente e competitivo. E il suo carattere illustrativo centra una caratteristica di fondo del nostro panorama economico: il nesso strettissimo tra fare impresa e fare cultura, il ruolo di un “umanesimo industriale” che si qualifica come vantaggio produttivo e, appunto, competitivo, l’importanza di insistere sui “valori” (bellezza, qualità, attenzione alle persone, etica d’impresa e dunque sostenibilità ambientale e sociale) anche per produrre “valore” economico.
Le “macchine” raffigurate nei dodici disegni di Leonardo esposti a Washington (escavatrici, strutture idrauliche, congegni per il volo come una prefigurazione di un elicottero o di un’ala d’aereo) dicono tutto questo: creatività e sperimentazione, nuovi equilibri da immaginare e tecniche sofisticare d’ingegneria.
Conoscenza in movimento. Come quella che connota il miglior “made in Italy”, la sua originale “empatia creatrice” (l’espressione è di Franco Ferrarotti) che in molti casi sa tenere insieme mercato e società, produttività e inclusione sociale.

Le conversazioni che si intrecciano a Washington davanti alle opere leonardesche tra persone dell’impresa, della diplomazia, della politica e della cultura testimoniano anche l’importanza di approfondire una discussione che viene avanti, da qualche tempo, sia negli Usa che in Europa, sui rapporti tra conoscenze scientifiche e umanistiche e sulla necessità di insistere su un’articolata multidisciplinarietà dei saperi. Sulla necessità di competenze sempre più approfondite e dunque “verticali” nelle varie discipline. Ma anche e soprattutto sulle relazioni tra mondi culturali diversi. Dando maggiore spazio alla diffusione della cultura scientifica. Ma in relazione con le dimensioni dell’umanesimo. Per una sempre migliore “cultura politecnica”. Leonardo, appunto, ne è efficace testimone.
C’è un allarme, infatti, da tenere in considerazione. Viene proprio dagli Usa. E se ne fa interprete, tra gli altri, Nathan Heller, studioso di tecnologia e scrittore di casa sulle pagine del “New Yorker”: “Crollano ovunque le iscrizioni universitarie agli studi umanistici. E’ un errore che pagheremo” (“La Stampa”, 25 giugno).
Le università, infatti, insistono sulle materie scientifiche, ottenendo, anche dal mondo dell’impresa, finanziamenti crescenti. I giovani si iscrivono in cerca di una formazione tecnologica “utile” per lavoro ben remunerati: “Le facoltà umanistiche rischiano di non attirare gli studenti migliori. E’ un fenomeno reale. Ed è pericoloso”, sostiene Heller.
D’altronde, sono gli sviluppi del mondo digitale e dell’Intelligenza Artificiale a chiedere una formazione complessa, che si ponga non solo il problema del “come fare” ma soprattutto quello del “senso” delle cose che si fanno, degli aspetti etici e sociali dell’evoluzione scientifica, delle regolazioni, delle decisioni politiche e culturali da prendere di fronte alle nuove frontiere tecnologiche. Per capire. Scegliere. Conoscere le conseguenze senza cedere al mito di un “progresso” considerato sempre e comunque positivo e vantaggioso per tutti. Senza, cioè, rischiare di “far oscurare l’umano da ciò che non lo è”, per dirla con Heller. E senza dimenticare le dimensioni della persona, la sua “interiorità”. Con uno sguardo sul mondo, cioè, non semplicemente “economicista”.

Queste considerazioni hanno peso anche nella discussione in corso, proprio in Italia, sulla necessità di dare più peso alle lauree Stem (l’acronimo anglosassone che indica scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) di cui le imprese soffrono la carenza. Discussione essenziale, sul tema delle conoscenze e delle competenze utili allo sviluppo economico. Ma, probabilmente, discussione che ha bisogno di qualche considerazione più approfondita. Insistendo sui saperi umanistici.
Già una decina di anni fa l’Assolombarda, presieduta all’epoca da Gianfelice Rocca, aveva insistito sulla necessità di aggiungere a Stem la lettera “a” di “arts”, le discipline umanistiche: la letteratura, la filosofia, l’estetica, le arti visive. Per arrivare da Stem a Steam. Un radicale miglioramento per la cultura e la formazione.
La questioni è sempre più attuale (come sanno bene, per esempio, pure i Politecnici di Milano e Torino, dove si studia accuratamente filosofia). Proprio di fronte alle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale. E alle considerazioni di chi sostiene che un algoritmo vada scritto non solo da ingegneri e matematici, ma anche da cyberscienziati, neuropsichiatri, filosofi, economisti, sociologici, giuristi e letterati. Un algoritmo che tenga conto di significati molteplici, questioni di senso, temi etici e sociali, regole e intrecci tra diritti e doveri. Intelligenza artificiale in mani umane. Con la consapevolezza umanissima del senso del limite (le storie recenti, dalla crisi finanziaria alla pandemia e alla guerra ce lo hanno ricordato, imponendoci di guardare in faccia alla nostra fragilità).
Riflettere sulla scienza e le conoscenze di Leonardo sulla centralità della persona umana nell’arte e nella scienza, può suggerire, ancora oggi, utili considerazioni.

La scienza, la tecnologia, gli ingranaggi della meccanica, i calcoli dell’idraulica e dell’architettura, i dettagli del volo degli uccelli per costruire macchine a loro imitazione. E la bellezza dei disegni. La precisione dei numeri. E il fascino della raffigurazione, con una qualità artistica raffinatissima. C’è tutto questo, nei 1.119 fogli del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci, custodito nelle stanze della Biblioteca Ambrosiana di Milano. E proprio il grande libro (nel formato degli atlanti geografici) illustra la sintesi delle caratteristiche culturali di una delle stagioni migliori della cultura italiana e dunque internazionale: il Rinascimento. Una sintesi, appunto, tra scienza e creatività artistica. Tra il sapere, il saper fare e il far sapere. Tra il viaggio nella conoscenza e il suo racconto. Una sorprendente “cultura politecnica” che rilancia nel tempo della modernità la saggezza greca del kalos kai agathos, una bellezza non solo estetica ma soprattutto capace di “produrre armonia” (per usare le parole di Papa Francesco all’incontro in Vaticano con gli artisti). Una civiltà delle macchine che si declina in arte. Un umanesimo che apre le porte all’intraprendenza e all’industriosità.

La mostra di dodici di quei disegni del “Codice Atlantico” leonardesco, che è stata inaugurata martedì 20 giugno alla Public Library “Martin Luther King” di Washington (un’architettura esemplare, firmata da Ludwig Mies van der Rohe, per uno spazio “public”, aperto e accessibile a tutti) ha ogni giorno una lunga fila di visitatori, tra cui moltissimi bambini, cui sono dedicati tavoli e installazioni per giocare seguendo i disegni di Leonardo. E il suo titolo, “Immaginare il futuro”, rivela bene il valore di una esposizione, la prima negli Usa, che si muove lungo le strade perennemente incrociate tra conoscenza storica e fantasia progettuale, tra radici dei saperi e impegno a esplorarne nuove dimensioni (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa).
Una mostra da “avvenire della memoria”, insomma. Nella piena consapevolezza della lezione di uno dei maggiori storici del Novecento, Fernand Braudel: “Essere stati è condizione per essere”.

La mostra è stata organizzata dalla Confindustria presieduta da Carlo Bonomi, con il sostegno di grandi aziende italiane (Intesa San Paolo, Ita Airwais, 24Ore Cultura, Dolce&Gabbana, Dompè, Pirelli e Trenitalia) proprio per dare al grande pubblico americano una rappresentazione efficace delle qualità delle nostre imprese su un mercato quanto mai esigente e competitivo. E il suo carattere illustrativo centra una caratteristica di fondo del nostro panorama economico: il nesso strettissimo tra fare impresa e fare cultura, il ruolo di un “umanesimo industriale” che si qualifica come vantaggio produttivo e, appunto, competitivo, l’importanza di insistere sui “valori” (bellezza, qualità, attenzione alle persone, etica d’impresa e dunque sostenibilità ambientale e sociale) anche per produrre “valore” economico.
Le “macchine” raffigurate nei dodici disegni di Leonardo esposti a Washington (escavatrici, strutture idrauliche, congegni per il volo come una prefigurazione di un elicottero o di un’ala d’aereo) dicono tutto questo: creatività e sperimentazione, nuovi equilibri da immaginare e tecniche sofisticare d’ingegneria.
Conoscenza in movimento. Come quella che connota il miglior “made in Italy”, la sua originale “empatia creatrice” (l’espressione è di Franco Ferrarotti) che in molti casi sa tenere insieme mercato e società, produttività e inclusione sociale.

Le conversazioni che si intrecciano a Washington davanti alle opere leonardesche tra persone dell’impresa, della diplomazia, della politica e della cultura testimoniano anche l’importanza di approfondire una discussione che viene avanti, da qualche tempo, sia negli Usa che in Europa, sui rapporti tra conoscenze scientifiche e umanistiche e sulla necessità di insistere su un’articolata multidisciplinarietà dei saperi. Sulla necessità di competenze sempre più approfondite e dunque “verticali” nelle varie discipline. Ma anche e soprattutto sulle relazioni tra mondi culturali diversi. Dando maggiore spazio alla diffusione della cultura scientifica. Ma in relazione con le dimensioni dell’umanesimo. Per una sempre migliore “cultura politecnica”. Leonardo, appunto, ne è efficace testimone.
C’è un allarme, infatti, da tenere in considerazione. Viene proprio dagli Usa. E se ne fa interprete, tra gli altri, Nathan Heller, studioso di tecnologia e scrittore di casa sulle pagine del “New Yorker”: “Crollano ovunque le iscrizioni universitarie agli studi umanistici. E’ un errore che pagheremo” (“La Stampa”, 25 giugno).
Le università, infatti, insistono sulle materie scientifiche, ottenendo, anche dal mondo dell’impresa, finanziamenti crescenti. I giovani si iscrivono in cerca di una formazione tecnologica “utile” per lavoro ben remunerati: “Le facoltà umanistiche rischiano di non attirare gli studenti migliori. E’ un fenomeno reale. Ed è pericoloso”, sostiene Heller.
D’altronde, sono gli sviluppi del mondo digitale e dell’Intelligenza Artificiale a chiedere una formazione complessa, che si ponga non solo il problema del “come fare” ma soprattutto quello del “senso” delle cose che si fanno, degli aspetti etici e sociali dell’evoluzione scientifica, delle regolazioni, delle decisioni politiche e culturali da prendere di fronte alle nuove frontiere tecnologiche. Per capire. Scegliere. Conoscere le conseguenze senza cedere al mito di un “progresso” considerato sempre e comunque positivo e vantaggioso per tutti. Senza, cioè, rischiare di “far oscurare l’umano da ciò che non lo è”, per dirla con Heller. E senza dimenticare le dimensioni della persona, la sua “interiorità”. Con uno sguardo sul mondo, cioè, non semplicemente “economicista”.

Queste considerazioni hanno peso anche nella discussione in corso, proprio in Italia, sulla necessità di dare più peso alle lauree Stem (l’acronimo anglosassone che indica scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) di cui le imprese soffrono la carenza. Discussione essenziale, sul tema delle conoscenze e delle competenze utili allo sviluppo economico. Ma, probabilmente, discussione che ha bisogno di qualche considerazione più approfondita. Insistendo sui saperi umanistici.
Già una decina di anni fa l’Assolombarda, presieduta all’epoca da Gianfelice Rocca, aveva insistito sulla necessità di aggiungere a Stem la lettera “a” di “arts”, le discipline umanistiche: la letteratura, la filosofia, l’estetica, le arti visive. Per arrivare da Stem a Steam. Un radicale miglioramento per la cultura e la formazione.
La questioni è sempre più attuale (come sanno bene, per esempio, pure i Politecnici di Milano e Torino, dove si studia accuratamente filosofia). Proprio di fronte alle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale. E alle considerazioni di chi sostiene che un algoritmo vada scritto non solo da ingegneri e matematici, ma anche da cyberscienziati, neuropsichiatri, filosofi, economisti, sociologici, giuristi e letterati. Un algoritmo che tenga conto di significati molteplici, questioni di senso, temi etici e sociali, regole e intrecci tra diritti e doveri. Intelligenza artificiale in mani umane. Con la consapevolezza umanissima del senso del limite (le storie recenti, dalla crisi finanziaria alla pandemia e alla guerra ce lo hanno ricordato, imponendoci di guardare in faccia alla nostra fragilità).
Riflettere sulla scienza e le conoscenze di Leonardo sulla centralità della persona umana nell’arte e nella scienza, può suggerire, ancora oggi, utili considerazioni.

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