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Manager alla Mozart, tutto genio e carisma, o metodico alla Salieri? Meglio pensare al gioco di squadra

Che tipo di manager serve, in tempi di così intensi cambiamenti? “Wall Street stronca Mozart, al comando in azienda meglio Salieri”, scrive Ettore Livini su “la Repubblica” (5 novembre), sintetizzando così una ricerca della Harvard Business Review che sostiene  che sia oramai al tramonto la figura dell’innovatore di genio, leader trascinatore forte di una grande carica di “intelligenza emotiva” (alla Steve Jobs, per capirci), per lasciare invece spazio a gestori di processi complessi, a ingegneri in grado di guidare sistemi aziendali con grande concretezza, determinazione, linearità di sviluppo. E’, appunto, “la vendetta di Salieri”, come nota Herminia Barra, docente all’Insead di Parigi, rivalutando il ruolo d’un musicista abile compositore ed esecutore, grigio ma metodico e rassicurante, messo però in ombra, nella Vienna dei primi dell’Ottocento, dal genio stravolgente di Mozart. In altri termini, adesso serve meno carisma e più metodo. “E non a caso 24 dei 100 manager più redditizi d’America – calcola la Harvard Business Review – sono ingegneri, magari meno spumeggianti dei loro predecessori creatori d’impresa ma capaci di un approccio pragmatico e pratico che determina bilanci in forte utile e piace tanto agli azionisti”.

“Il leader gestisce il potere, il manager l’organizzazione”, ha sempre sostenuto, come regola di guida aziendale, Jack Welch, ex numero uno d’una grande multinazionale Usa come General Electric, a lungo riferimento per ogni buon manager. Conferma James Citrin, ai vertici di Spencer & Stuart, una delle principali società di “cacciatori di teste”: “Il tempo della retorica rivoluzionaria è finito, oggi vanno per la maggiore gli ingegneri capaci di risolvere i problemi con la logica e il ‘pensiero architettonico’”, una costruzione ordinata di processi, relazioni, competenze.

Sarà davvero così, pure in Italia? La cultura manageriale ha sempre risentito, anche in Europa, della forte influenza Usa (in grado di costruire nel tempo, grazie anche a un tipo di capitalismo da “public company”, una sofisticata e ricca teoria della gestione aziendale, ma anche una generica retorica). Quello italiano, però, nel bene e nel male, è un capitalismo ancora con forte impronta familiare. E con un’originale mescolanza di azionisti-gestori eredi della famiglia del fondatore (caratteri eretici, forti, spregiudicatamente innovativi, “mozartiani”) e di manager forti d’una cultura tutta italiana della bellezza, della complessità, della “resilienza” (l’intelligente adattabilità).

Vale forse la pena, dunque, sottrarsi alle formule made in Usa. Ricordarsi che anche nel mondo delle imprese si continua ad avvertire il fascino, tutto euromediterraneo, di Napoleone (“Ei fu, anche un manager: univa alla progettazione la rapidità d’azione, conosceva e motivava le persone, valorizzava la cultura“, nota Ernesto Ferrero su “La Lettura” del Corriere della Sera, del 2 marzo 2014, sottolineandone la doppia qualità di innovatore e legislatore, dunque di costruttore di nuovi processi e di regolatore del loro sviluppo: un creativo e un ingegnere delle istituzioni). E magari leggere con attenzione un’originale lezione che viene proprio dagli Usa, quella di Walter Isaacson (direttore di “Time”, poi presidente e amministratore delegato della Cnn e adesso presidente dell’Aspen Institute).

Sua la firma sotto la biografia di Steve Jobs, un best seller internazionale. E sempre sua la firma per “The Innovators: how a Group of Hackers, Geniuses and Geeks created the Digital Revolution”, edito in ottobre da Simon & Schuster e, per l’Italia, da Mondadori. Cosa si sostiene? Che l’innovazione, nel mondo della tecnologia, non dipende da singoli geni ma è il risultato di un lavoro d’equipe. “Il nuovo Steve Jobs sarà una squadra. Il singolo individuo che produce innovazione è un’illusione, il genio funziona collaborando”, ha sintetizzato Serena Danna su “La Lettura” del Corriere della Sera (12 ottobre 2014). A conferma, ecco il parere di Keith Sawyer, professore d’innovazione e creatività alla North Carolina University. “Quando collaboriamo, la creatività si diffonde tra le persone e funziona meglio: il tutto è molto di più della somma delle singole parti”.

Che tipo di manager serve, in tempi di così intensi cambiamenti? “Wall Street stronca Mozart, al comando in azienda meglio Salieri”, scrive Ettore Livini su “la Repubblica” (5 novembre), sintetizzando così una ricerca della Harvard Business Review che sostiene  che sia oramai al tramonto la figura dell’innovatore di genio, leader trascinatore forte di una grande carica di “intelligenza emotiva” (alla Steve Jobs, per capirci), per lasciare invece spazio a gestori di processi complessi, a ingegneri in grado di guidare sistemi aziendali con grande concretezza, determinazione, linearità di sviluppo. E’, appunto, “la vendetta di Salieri”, come nota Herminia Barra, docente all’Insead di Parigi, rivalutando il ruolo d’un musicista abile compositore ed esecutore, grigio ma metodico e rassicurante, messo però in ombra, nella Vienna dei primi dell’Ottocento, dal genio stravolgente di Mozart. In altri termini, adesso serve meno carisma e più metodo. “E non a caso 24 dei 100 manager più redditizi d’America – calcola la Harvard Business Review – sono ingegneri, magari meno spumeggianti dei loro predecessori creatori d’impresa ma capaci di un approccio pragmatico e pratico che determina bilanci in forte utile e piace tanto agli azionisti”.

“Il leader gestisce il potere, il manager l’organizzazione”, ha sempre sostenuto, come regola di guida aziendale, Jack Welch, ex numero uno d’una grande multinazionale Usa come General Electric, a lungo riferimento per ogni buon manager. Conferma James Citrin, ai vertici di Spencer & Stuart, una delle principali società di “cacciatori di teste”: “Il tempo della retorica rivoluzionaria è finito, oggi vanno per la maggiore gli ingegneri capaci di risolvere i problemi con la logica e il ‘pensiero architettonico’”, una costruzione ordinata di processi, relazioni, competenze.

Sarà davvero così, pure in Italia? La cultura manageriale ha sempre risentito, anche in Europa, della forte influenza Usa (in grado di costruire nel tempo, grazie anche a un tipo di capitalismo da “public company”, una sofisticata e ricca teoria della gestione aziendale, ma anche una generica retorica). Quello italiano, però, nel bene e nel male, è un capitalismo ancora con forte impronta familiare. E con un’originale mescolanza di azionisti-gestori eredi della famiglia del fondatore (caratteri eretici, forti, spregiudicatamente innovativi, “mozartiani”) e di manager forti d’una cultura tutta italiana della bellezza, della complessità, della “resilienza” (l’intelligente adattabilità).

Vale forse la pena, dunque, sottrarsi alle formule made in Usa. Ricordarsi che anche nel mondo delle imprese si continua ad avvertire il fascino, tutto euromediterraneo, di Napoleone (“Ei fu, anche un manager: univa alla progettazione la rapidità d’azione, conosceva e motivava le persone, valorizzava la cultura“, nota Ernesto Ferrero su “La Lettura” del Corriere della Sera, del 2 marzo 2014, sottolineandone la doppia qualità di innovatore e legislatore, dunque di costruttore di nuovi processi e di regolatore del loro sviluppo: un creativo e un ingegnere delle istituzioni). E magari leggere con attenzione un’originale lezione che viene proprio dagli Usa, quella di Walter Isaacson (direttore di “Time”, poi presidente e amministratore delegato della Cnn e adesso presidente dell’Aspen Institute).

Sua la firma sotto la biografia di Steve Jobs, un best seller internazionale. E sempre sua la firma per “The Innovators: how a Group of Hackers, Geniuses and Geeks created the Digital Revolution”, edito in ottobre da Simon & Schuster e, per l’Italia, da Mondadori. Cosa si sostiene? Che l’innovazione, nel mondo della tecnologia, non dipende da singoli geni ma è il risultato di un lavoro d’equipe. “Il nuovo Steve Jobs sarà una squadra. Il singolo individuo che produce innovazione è un’illusione, il genio funziona collaborando”, ha sintetizzato Serena Danna su “La Lettura” del Corriere della Sera (12 ottobre 2014). A conferma, ecco il parere di Keith Sawyer, professore d’innovazione e creatività alla North Carolina University. “Quando collaboriamo, la creatività si diffonde tra le persone e funziona meglio: il tutto è molto di più della somma delle singole parti”.

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