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Mattarella e gli illuministi napoletani: alle radici dell’economia civile che piace alle imprese

“Economia civile”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando all’Assemblea di Confindustria, caratterizzata da un titolo esemplare: “Impresa, lavoro e democrazia: la strada della Costituzione” e convocata in una data simbolica, il 15 settembre, “giornata internazionale della democrazia”. E ne ha indicato l’origine negli scritti di Antonio Genovesi, illuminista napoletano, il primo in Europa ad avere una cattedra di economia, nel 1754.

Economia civile, e cioè fondata sull’idea che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più libero ed egualitario (Adam Smith considerava, appunto, Genovesi un maestro e un ispiratore) ma anche sulla valorizzazione della persona, come “realtà relazionale fatta per la reciprocità”, ispirata cioè sia dall’interesse individuale sia dalla solidarietà sociale. Il mercato come spazio centrale. E il bene comune e le virtù civili come riferimenti essenziali.

Eccolo, il senso della citazione di Mattarella, accanto ad altri riferimenti a intellettuali ed economisti rilevanti nella nostra storia (Carlo Cattaneo, Luigi Einaudi). Legandola alla consapevolezza che “il mercato, l’impresa, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità” e che dunque “l’economia è civile, il mercato è vita in comune, e condividono la stessa legge fondamentale: la mutua assistenza”.

Nella sua relazione introduttiva, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, aveva definito l’impresa come “lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia” e aveva proposto un mercato del lavoro “inclusivo”, specialmente per giovani e donne, rendendo così effettivo il diritto al lavoro. I riferimenti sono stati ripresi dal presidente della Repubblica: “Tutto ciò induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, di libertà, di diritti e di democrazia della Repubblica”.

C’è evidente, insomma, nelle parole del presidente Mattarella agli imprenditori, nel segno della Costituzione, il riferimento all’utilità e alla responsabilità sociale dell’impresa. E al nesso essenziale tra libertà, democrazia, sviluppo economico e inclusione sociale. Un riferimento rinforzato dal richiamo a un altro illuminista napoletano, l’abate Ferdinando Galiani, ammirato nei salotti degli enciclopedisti francesi frequentati da Diderot, Montesquieu e Voltaire: “La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

La parola “felicità” usata dal presidente Mattarella con gli imprenditori rinvia a un altro suo intervento recente, il 25 agosto, al “Meeting per l’amicizia tra i popoli” di Rimini. Eccolo: “Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il ‘diritto alla felicità’ elencata – come da perseguire – assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti. È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione ‘diritto alla proprietà’ quella relativa alla felicità”.

Ha insistito Mattarella: “Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale. Eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso”.

Genovesi, Galiani, Filangieri. Perché tanta attenzione? L’illuminismo napoletano della metà del Settecento è una delle stagioni più fertili del pensiero economico e civile della storia italiana. Ha un’eco internazionale. Trova sintonie con le riflessioni degli illuministi milanesi riuniti attorno alla rivista “Il Caffè” dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e alle lezioni di Cesare Beccaria contro la pena di morte e sulle relazioni tra diritti, doveri, libertà e responsabilità. E costituisce un punto alto del pensiero che lega il riformismo politico e sociale con le esigenze di sviluppo economico e sociale. Il buon governo con leggi e regole. E la costruzione di un robusto “capitale sociale” che stimoli il progresso, più equo ed equilibrato.

Rileggere oggi quelle riflessioni e riproporle nel discorso pubblico significa insistere per un salto di qualità sia dell’impegno politico sia dell’orizzonte di valori e culture in cui iscrivere l’impegno degli attori economici e sociali. Valorizzare una tradizione di pensiero civile ed economico che affonda le sue radici nel tardo Medio Evo e nell’Umanesimo (fra il Costituto di Siena del 1309 con l’elogio della bellezza come strumento di buon governo e le lezioni morali de “L’arte di mercatura” di Benedetto Cotrugli), si ripropone tra Ottocento e Novecento con Cavour e Cattaneo, la dottrina sociale della Chiesa e il riformismo socialista di Turati e Treves e trova ampi spazi anche nella storia d’impresa, con il mecenatismo e la filantropia dei Crespi, di Alessandro Rossi e dei Marzotto e degli Zegna e la contemporanea attenzione alle responsabilità dell’imprenditore di Adriano Olivetti e di Alberto e Leopoldo Pirelli, per fare solo alcuni nomi possibili.

Sono tutti temi che risuonano negli interventi di Papa Francesco sull’economia “giusta” e “circolare” e trovano spazio in un’ampia letteratura economica che, archiviata la stagione del liberismo d’assalto e della finanza globale da greed is good ( il motto dello spregiudicato interprete di “Wall Street” diretto da Oliver Stone), rilegge in modo contemporaneo il liberalismo con robuste venature sociali di John Maynard Keynes (di cui Federico Caffè è stato tra gli interpreti più fertili) ma anche il Codice di Camaldoli ispirato dal pensiero cattolico (“L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”, commentato così dal presidente Mattarella: “E’ il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà”).

In questo contesto, ecco, appunto, l’economia civile, riletta e aggiornata dalle riflessioni di Stefano Zamagni e Luigino Bruni. E l’insieme delle scelte delle imprese italiane che fanno della sostenibilità, della green economy, della cultura e della solidarietà sociale non etichette di facile comunicazione ma dei veri e propri asset di crescita e di competitività.  

Il riferimento di fondo è la Costituzione. Perché, per usare le parole del presidente di Confindustria Bonomi. “esprime anche l’animo delle imprese italiane”. E perché, appunto, “non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco. Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione”, per riprendere il discorso in Confindustria del presidente della Repubblica.

Né dirigismo né protezionismo, tipici di un percorso di involuzione che – la Storia insegna – portano all’autoritarismo. E nessuna tentazione di alimentare la paura del futuro. Semmai, la consapevolezza che “le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power. E sono, anche, agenti di libertà”. Infatti, “generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive”. Ancora un riferimento, all’ultimo libro di Martin Wolf: “Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”.

Funzione sociale del fare impresa. Responsabilità. L’economia civile, appunto.

(foto: Getty Images)

“Economia civile”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando all’Assemblea di Confindustria, caratterizzata da un titolo esemplare: “Impresa, lavoro e democrazia: la strada della Costituzione” e convocata in una data simbolica, il 15 settembre, “giornata internazionale della democrazia”. E ne ha indicato l’origine negli scritti di Antonio Genovesi, illuminista napoletano, il primo in Europa ad avere una cattedra di economia, nel 1754.

Economia civile, e cioè fondata sull’idea che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più libero ed egualitario (Adam Smith considerava, appunto, Genovesi un maestro e un ispiratore) ma anche sulla valorizzazione della persona, come “realtà relazionale fatta per la reciprocità”, ispirata cioè sia dall’interesse individuale sia dalla solidarietà sociale. Il mercato come spazio centrale. E il bene comune e le virtù civili come riferimenti essenziali.

Eccolo, il senso della citazione di Mattarella, accanto ad altri riferimenti a intellettuali ed economisti rilevanti nella nostra storia (Carlo Cattaneo, Luigi Einaudi). Legandola alla consapevolezza che “il mercato, l’impresa, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità” e che dunque “l’economia è civile, il mercato è vita in comune, e condividono la stessa legge fondamentale: la mutua assistenza”.

Nella sua relazione introduttiva, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, aveva definito l’impresa come “lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia” e aveva proposto un mercato del lavoro “inclusivo”, specialmente per giovani e donne, rendendo così effettivo il diritto al lavoro. I riferimenti sono stati ripresi dal presidente della Repubblica: “Tutto ciò induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, di libertà, di diritti e di democrazia della Repubblica”.

C’è evidente, insomma, nelle parole del presidente Mattarella agli imprenditori, nel segno della Costituzione, il riferimento all’utilità e alla responsabilità sociale dell’impresa. E al nesso essenziale tra libertà, democrazia, sviluppo economico e inclusione sociale. Un riferimento rinforzato dal richiamo a un altro illuminista napoletano, l’abate Ferdinando Galiani, ammirato nei salotti degli enciclopedisti francesi frequentati da Diderot, Montesquieu e Voltaire: “La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

La parola “felicità” usata dal presidente Mattarella con gli imprenditori rinvia a un altro suo intervento recente, il 25 agosto, al “Meeting per l’amicizia tra i popoli” di Rimini. Eccolo: “Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il ‘diritto alla felicità’ elencata – come da perseguire – assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti. È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione ‘diritto alla proprietà’ quella relativa alla felicità”.

Ha insistito Mattarella: “Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale. Eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso”.

Genovesi, Galiani, Filangieri. Perché tanta attenzione? L’illuminismo napoletano della metà del Settecento è una delle stagioni più fertili del pensiero economico e civile della storia italiana. Ha un’eco internazionale. Trova sintonie con le riflessioni degli illuministi milanesi riuniti attorno alla rivista “Il Caffè” dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e alle lezioni di Cesare Beccaria contro la pena di morte e sulle relazioni tra diritti, doveri, libertà e responsabilità. E costituisce un punto alto del pensiero che lega il riformismo politico e sociale con le esigenze di sviluppo economico e sociale. Il buon governo con leggi e regole. E la costruzione di un robusto “capitale sociale” che stimoli il progresso, più equo ed equilibrato.

Rileggere oggi quelle riflessioni e riproporle nel discorso pubblico significa insistere per un salto di qualità sia dell’impegno politico sia dell’orizzonte di valori e culture in cui iscrivere l’impegno degli attori economici e sociali. Valorizzare una tradizione di pensiero civile ed economico che affonda le sue radici nel tardo Medio Evo e nell’Umanesimo (fra il Costituto di Siena del 1309 con l’elogio della bellezza come strumento di buon governo e le lezioni morali de “L’arte di mercatura” di Benedetto Cotrugli), si ripropone tra Ottocento e Novecento con Cavour e Cattaneo, la dottrina sociale della Chiesa e il riformismo socialista di Turati e Treves e trova ampi spazi anche nella storia d’impresa, con il mecenatismo e la filantropia dei Crespi, di Alessandro Rossi e dei Marzotto e degli Zegna e la contemporanea attenzione alle responsabilità dell’imprenditore di Adriano Olivetti e di Alberto e Leopoldo Pirelli, per fare solo alcuni nomi possibili.

Sono tutti temi che risuonano negli interventi di Papa Francesco sull’economia “giusta” e “circolare” e trovano spazio in un’ampia letteratura economica che, archiviata la stagione del liberismo d’assalto e della finanza globale da greed is good ( il motto dello spregiudicato interprete di “Wall Street” diretto da Oliver Stone), rilegge in modo contemporaneo il liberalismo con robuste venature sociali di John Maynard Keynes (di cui Federico Caffè è stato tra gli interpreti più fertili) ma anche il Codice di Camaldoli ispirato dal pensiero cattolico (“L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”, commentato così dal presidente Mattarella: “E’ il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà”).

In questo contesto, ecco, appunto, l’economia civile, riletta e aggiornata dalle riflessioni di Stefano Zamagni e Luigino Bruni. E l’insieme delle scelte delle imprese italiane che fanno della sostenibilità, della green economy, della cultura e della solidarietà sociale non etichette di facile comunicazione ma dei veri e propri asset di crescita e di competitività.  

Il riferimento di fondo è la Costituzione. Perché, per usare le parole del presidente di Confindustria Bonomi. “esprime anche l’animo delle imprese italiane”. E perché, appunto, “non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco. Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione”, per riprendere il discorso in Confindustria del presidente della Repubblica.

Né dirigismo né protezionismo, tipici di un percorso di involuzione che – la Storia insegna – portano all’autoritarismo. E nessuna tentazione di alimentare la paura del futuro. Semmai, la consapevolezza che “le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power. E sono, anche, agenti di libertà”. Infatti, “generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive”. Ancora un riferimento, all’ultimo libro di Martin Wolf: “Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”.

Funzione sociale del fare impresa. Responsabilità. L’economia civile, appunto.

(foto: Getty Images)

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