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Meglio cuoco che operaio, dicono i giovani. Come rilanciare le nostre fabbriche?

Meglio fare il cuoco che non l’operaio specializzato, l’impiegato in un albergo che non il tecnico di una macchina utensile. Sarà per il fascino Tv di “Masterchef”, “Cuochi e fiamme” o “La prova del cuoco” (senza guardare, paraltro, alla banalità dei giochi di parole), ma la maggior parte dei ragazzi italiani che si iscrivono alle scuole superiori mostrano di preferire la cucina alla fabbrica. Una ricerca della Coldiretti mostra come nell’anno scolastico 2013-2014 gli iscritti alle scuole professionali per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera sono stati 46.600, e 13.400 agli istituti e professionli e tecnici di agraria, mentre sono solo 21.500 quelli che hanno scelto gli istituti professionali per le produzioni industriali, la manutenzione e l’assistenza tecnica. Più di due cuochi per un operaio, insomma.

La notizia si può leggere in positivo: i ragazzi hanno cominciato a imparare a legare meglio formazione e prospettive di lavoro, puntando su un settore in cui la tradizione italiana è ancora quanto mai vitale: la cucina, il buon cibo, una robusta struttura agro-alimentare, ma anche il turismo, da vivere con robusta professionalità. Ma a leggere i dati, non mancano alcune riflessioni inquietanti: le giovani generazioni continuano a guardare in modo critico, se non addirittura ostile, al mondo industriale, all’artigianato tecnico, a quell’universo della manifattura da cui dipende non solo una buona parte del Pil italiano (il 17% circa) ma soprattutto la scommessa per il futuro, proprio nel momento in cui la Ue rilancia la centralità dell’industria manifatturiera come cardine di crescita (piani e misure per portare l’incidenza della manifattura sul Pil, entro il 2020, al 20%, contro la media attuale del 15%), gli Usa insistono sulla “manifacturing reinassance” e Gran Bretagna e Francia investono per rilanciare la loro industria, per non dire della Germania, primo paese manifatturiero d’Europa. L’Italia, nella classifica della manifattura, è seconda, grazie soprattutto alle medie imprese che innovano ed esportano. Ma ai giovani questa dimensione continua a interessare poco. Purtroppo.

La tendenza non è nuova. In una indagine condotta dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli nel 2009, in occasione del libro “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) i focus group sul giudizio dei giovani sull’industria rivelava che la maggior parte degli intervistati affermava di preferire il lavoro in un call center invece che in una fabbrica, fare la commessa in un negozio di Armani invece che la segretario negli uffici di una piccola impresa metalmeccanica. Analogo il risultato della stessa indagine aggiornata, l’anno successivo, per l’Assolombarda. Adesso i dati della Coldiretti riconfermano una tendenza d’attenzione verso i servizi dell’ospitalità, ma anche (un dato recente da non sottovalutare) verso l’agricoltura, da gestire con competenze tecniche e professionali che aggiornino l’antica cultura contadina. Ne è conferma il boom degli agriturismo e delle cascine che, anche in nome del “biologico”, stanno rilanciando la campagna italiana (le possibilità di vendita dei prodotti grazie a internet aiuta).

Fenomeno complesso, dunque. Da considerare con attenzione. Buona cucina e nuova ospitalità alberghiera si legano bene con la rivalutazione dell’agricoltura moderna, ma anche e soprattutto con il rilancio dell’agro-industria, della buona industria alimentare italiana. Una scelta che chiama in causa le politiche agricole e industriali, nazionali e Ue (la protezione delle produzioni di qualità e dei marchi ne sono un capitolo fondamentale). E deve avere tratti di buona cultura d’impresa, in nome della qualità.

L’industria non va però dimenticata, anche se non appare di moda. Perché sta lì, il cuore della nostra crescita e del peso del sistema Paese sui mercati internazionali. Va dunque potenziato, anche in termini culturali, l’investimento (materiale e ideale) sulla centralità dell’industria, diffondendo una cultura che parli di intraprendenza, importanza del “fare, e fare bene”, di “civiltà delle macchine” e di “umanesimo industriale”, di fabbrica e modernità. Se i cuochi spopolano contagiosamente in Tv, tocca all’industria costruire un convincente raccolto di sè, tra Tv, internet, media diffusi. Lo sceneggiato dedicato da Rai1 a un grande imprenditore come Adriano Olivetti e alle sue idee di fabbriche con comunità di produzione, civiltà e cultura (una bella idea di Luca Barbareschi) è una iniziativa interessante. Da non lasciare isolata. L’Italia delle fabbriche, integrata a quella dell’artigianato di qualità, della buona cucina e dell’agricoltura sostenibile, ha ancora molto da dire e deve farsi capire e amare di più. Proprio dai nostri giovani.

Meglio fare il cuoco che non l’operaio specializzato, l’impiegato in un albergo che non il tecnico di una macchina utensile. Sarà per il fascino Tv di “Masterchef”, “Cuochi e fiamme” o “La prova del cuoco” (senza guardare, paraltro, alla banalità dei giochi di parole), ma la maggior parte dei ragazzi italiani che si iscrivono alle scuole superiori mostrano di preferire la cucina alla fabbrica. Una ricerca della Coldiretti mostra come nell’anno scolastico 2013-2014 gli iscritti alle scuole professionali per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera sono stati 46.600, e 13.400 agli istituti e professionli e tecnici di agraria, mentre sono solo 21.500 quelli che hanno scelto gli istituti professionali per le produzioni industriali, la manutenzione e l’assistenza tecnica. Più di due cuochi per un operaio, insomma.

La notizia si può leggere in positivo: i ragazzi hanno cominciato a imparare a legare meglio formazione e prospettive di lavoro, puntando su un settore in cui la tradizione italiana è ancora quanto mai vitale: la cucina, il buon cibo, una robusta struttura agro-alimentare, ma anche il turismo, da vivere con robusta professionalità. Ma a leggere i dati, non mancano alcune riflessioni inquietanti: le giovani generazioni continuano a guardare in modo critico, se non addirittura ostile, al mondo industriale, all’artigianato tecnico, a quell’universo della manifattura da cui dipende non solo una buona parte del Pil italiano (il 17% circa) ma soprattutto la scommessa per il futuro, proprio nel momento in cui la Ue rilancia la centralità dell’industria manifatturiera come cardine di crescita (piani e misure per portare l’incidenza della manifattura sul Pil, entro il 2020, al 20%, contro la media attuale del 15%), gli Usa insistono sulla “manifacturing reinassance” e Gran Bretagna e Francia investono per rilanciare la loro industria, per non dire della Germania, primo paese manifatturiero d’Europa. L’Italia, nella classifica della manifattura, è seconda, grazie soprattutto alle medie imprese che innovano ed esportano. Ma ai giovani questa dimensione continua a interessare poco. Purtroppo.

La tendenza non è nuova. In una indagine condotta dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli nel 2009, in occasione del libro “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) i focus group sul giudizio dei giovani sull’industria rivelava che la maggior parte degli intervistati affermava di preferire il lavoro in un call center invece che in una fabbrica, fare la commessa in un negozio di Armani invece che la segretario negli uffici di una piccola impresa metalmeccanica. Analogo il risultato della stessa indagine aggiornata, l’anno successivo, per l’Assolombarda. Adesso i dati della Coldiretti riconfermano una tendenza d’attenzione verso i servizi dell’ospitalità, ma anche (un dato recente da non sottovalutare) verso l’agricoltura, da gestire con competenze tecniche e professionali che aggiornino l’antica cultura contadina. Ne è conferma il boom degli agriturismo e delle cascine che, anche in nome del “biologico”, stanno rilanciando la campagna italiana (le possibilità di vendita dei prodotti grazie a internet aiuta).

Fenomeno complesso, dunque. Da considerare con attenzione. Buona cucina e nuova ospitalità alberghiera si legano bene con la rivalutazione dell’agricoltura moderna, ma anche e soprattutto con il rilancio dell’agro-industria, della buona industria alimentare italiana. Una scelta che chiama in causa le politiche agricole e industriali, nazionali e Ue (la protezione delle produzioni di qualità e dei marchi ne sono un capitolo fondamentale). E deve avere tratti di buona cultura d’impresa, in nome della qualità.

L’industria non va però dimenticata, anche se non appare di moda. Perché sta lì, il cuore della nostra crescita e del peso del sistema Paese sui mercati internazionali. Va dunque potenziato, anche in termini culturali, l’investimento (materiale e ideale) sulla centralità dell’industria, diffondendo una cultura che parli di intraprendenza, importanza del “fare, e fare bene”, di “civiltà delle macchine” e di “umanesimo industriale”, di fabbrica e modernità. Se i cuochi spopolano contagiosamente in Tv, tocca all’industria costruire un convincente raccolto di sè, tra Tv, internet, media diffusi. Lo sceneggiato dedicato da Rai1 a un grande imprenditore come Adriano Olivetti e alle sue idee di fabbriche con comunità di produzione, civiltà e cultura (una bella idea di Luca Barbareschi) è una iniziativa interessante. Da non lasciare isolata. L’Italia delle fabbriche, integrata a quella dell’artigianato di qualità, della buona cucina e dell’agricoltura sostenibile, ha ancora molto da dire e deve farsi capire e amare di più. Proprio dai nostri giovani.

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