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Mercati preoccupati per l’economia italiana. La crisi di fiducia colpisce imprese e ceti deboli

“Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”. Sono parole di Martin Wolf, autorevole editorialista del “Financial Times”. E sono state al centro di uno del passaggi fondamentali del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a metà settembre, all’assemblea annuale di Confindustria (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), dedicato a chiarire, alla luce della Costituzione, i valori e le responsabilità dell’impresa nel promuovere lavoro e benessere e nell’essere parte essenziale di un capitale sociale in cui la competitività si lega con la solidarietà, la produttività con la promozione e l’inclusione sociale.

Mercato. E fiducia. Relazioni di lungo periodo. E istituzioni in grado di garantire quella fiducia e di promuovere scambi senza eccessivi squilibri né asimmetrie informative, diseguaglianze forti tra chi conosce le condizioni della situazione economica e chi invece le subisce. Né dirigismo né sovranismo economico, dunque. Né “finanza di rapina” né corsa al profitto a discapito della sicurezza sul lavoro.

C’è infatti un filo robusto che lega l’intraprendenza individuale alla consapevolezza d’essere parte di una comunità. E, come insegna la migliore letteratura economica del Novecento (i cui riflessi animano la nostra Costituzione), sviluppo economico, welfare e democrazia sono reciprocamente legati. Una frattura tra loro blocca la crescita, altera negativamente gli equilibri sociali e, in fin dei conti, manda in frantumi il patto sociale su cui si regge, appunto, la democrazia liberale, con il suo intreccio virtuoso di diritti e doveri.

L’economia civile (che comprende impresa, mercato e spirito di comunità e cittadinanza) è l’orizzonte indicato da Mattarella, ricordando la sapiente e lungimirante lezione dell’illuminismo napoletano. Che vale la pena leggere anche come economia “circolare”, “giusta”, “sostenibile”, con sintesi in cui si ritrovano i valori liberali, il pensiero sociale cattolico e il riformismo socialista, le grandi correnti ideali e politiche che stanno alla base della Costituzione.

Mercato, dunque. Da fare funzionare bene, come spazio fisico e virtuale aperto e ben regolato, trasparente e accessibile, controllato e garantito da sanzioni che colpiscono chi infrange le regole. È costituito su un valore che non si può tradire, pena la crisi del mercato stesso: la fiducia. La fiducia degli investitori e dei risparmiatori. La fiducia reciproca tra gli attori economici. La fiducia tra gli operatori e le autorità pubbliche che stabiliscono le condizioni e le norme per gli investimenti e i controlli correlati. La fiducia nelle informazioni secondo cui si fanno le scelte.

Le nostre imprese, di tutto ciò, sono fortemente consapevoli. Vivono sui mercati, europei e internazionali. Dai mercati aperti ed efficienti dipendono per le loro merci, nelle nicchie a maggior valore aggiunto (proprio dove, cioè, la fiducia è un valore ancora più essenziale). Sui mercati recuperano capitali e sui mercati investono in altre imprese all’estero. E sanno bene che mettere in crisi la fiducia sui mercati significa ritrovarsi fortemente indebolite di fronte a una concorrenza sempre più dura, selettiva, severa.

Purtroppo, c’è aria di crisi di fiducia, in queste settimane, in Italia. Il “Financial Times”, a metà della scorsa settimana, dando voce alle preoccupazioni degli investitori internazionali, ha criticato gli emendamenti del disegno di legge Capitali che potrebbero alterare la dialettica tra maggioranze e minoranze azionarie delle società, mettendone in crisi la governabilità. Altre critiche si sono levate contro le norme preparate in ambienti di governo sui crediti deteriorati, considerate “distorsive del mercato dei capitali” (secondo il Center of European Law and Finance). E le severe contestazioni delle banche contro le tasse sui cosiddetti “extraprofitti” hanno costretto il governo a una chiara marcia indietro sul provvedimento, lasciando comunque una scia di perplessità che non fa affatto bene al mercato.

L’andamento dello spread tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi (ma anche rispetto a quelli della Grecia, più apprezzati dei nostri e dunque meno costosi) è testimone di questo stato di cose. “Sfiducia Italia”, titola “La Stampa” (21 settembre). Polemiche giornalistiche a parte, è evidente, proprio sui mercati finanziari, l’aumento delle perplessità sulle scelte di un governo che alza il tono delle polemiche con la Ue, continua a non sottoscrivere il Mes, parla di rinvio della riforma del Patto di Stabilità e si muove su partite economiche delicate (Ita, Tim, etc.) sollevando più critiche e timori di quanto non alimenti certezze di lungo periodo. E l’incertezza del decisore politico è tra le preoccupazioni più diffuse sui mercati, allontanando gli investitori che potrebbero guardare con interesse al nostro Paese.

Vale la pena, per avere un’autorevole evidenza degli umori, leggere le parole di Robert Shiller, professore a Yale, premio Nobel per l’economia 2013: “Gli investitori internazionali sono delusi. Troppa improvvisazione” (“la Repubblica”, 24 settembre). E ancora, con un giudizio politicamente trasversale: “Il populismo, di destra e di sinistra, rappresenta l’esatto contrario di quello che la fonetica sembra indicare: è il male di un popolo che non crede in se stesso: e di una classe politica che rinuncia a governarlo secondo una linea precisa, bensì con misure estemporanee o prive di logica. Il risultato è una narrazione erratica, che non aiuta la crescita”.

Vanno ascoltati, insomma, i mercati internazionali. Soprattutto in un paese, come l’Italia, che ha bisogno di riscuotere solida fiducia all’estero per vendere i suoi prodotti (la nostra crescita dipende fortemente dall’export) ma anche per raccogliere risorse per finanziare il proprio altissimo debito pubblico. E, naturalmente, per attrarre investimenti qualificati per imprese che creino sviluppo, lavoro e benessere.

Parlando di mercati, c’è un’altra tendenza da cui guardarsi: quella di chi gioca a contrapporre i mercati finanziari internazionali con i “mercati rionali” ovvero gli “speculatori” rappresentati da banche e Borse e il popolo. Se n’era fatto interprete, molti anni fa, un politico abitualmente dotato di verve polemica, Clemente Mastella, che nel 1994, da ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi, aveva proclamato: “C’è chi voleva guardare solo ai mercati internazionali, questa cosa che tutti richiamano ma nessuno sa dove sta. Io ho guardato anche a quelli rionali, dove alla vecchina posso dire che ho salvaguardato le pensioni”.

Nel tempo, Mastella era stato emulato da parlamentari ed esponenti di governo sia di centro-destra che di centro-sinistra.

Ma la frase “Noi stiamo con i mercati rionali e non con quelli finanziari” fa effetto, va benissimo nella retorica della polemica sui social media o in Tv. Non risponde, però, alla realtà. E dunque contribuisce a fare danno proprio a chi frequenta “i mercati rionali”.

L’andamento del potere d’acquisto di salari e pensioni, infatti, dipende anche dal costo del denaro (influenzato dalla spread), dall’andamento dell’inflazione, dai livelli di crescita economica fortemente sensibile anche agli investimenti internazionali che influenzano il benessere diffuso. In poche parole, dal clima di fiducia che orienta i mercati. Tutti. Da quelli internazionali a quelli rionali, un passo dopo l’altro.

Mercati da capire e rispettare, dunque. Perché ne va dello stato di salute della nostra economia. E della qualità di vita della comunità.

(Foto: Getty Images)

“Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”. Sono parole di Martin Wolf, autorevole editorialista del “Financial Times”. E sono state al centro di uno del passaggi fondamentali del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a metà settembre, all’assemblea annuale di Confindustria (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), dedicato a chiarire, alla luce della Costituzione, i valori e le responsabilità dell’impresa nel promuovere lavoro e benessere e nell’essere parte essenziale di un capitale sociale in cui la competitività si lega con la solidarietà, la produttività con la promozione e l’inclusione sociale.

Mercato. E fiducia. Relazioni di lungo periodo. E istituzioni in grado di garantire quella fiducia e di promuovere scambi senza eccessivi squilibri né asimmetrie informative, diseguaglianze forti tra chi conosce le condizioni della situazione economica e chi invece le subisce. Né dirigismo né sovranismo economico, dunque. Né “finanza di rapina” né corsa al profitto a discapito della sicurezza sul lavoro.

C’è infatti un filo robusto che lega l’intraprendenza individuale alla consapevolezza d’essere parte di una comunità. E, come insegna la migliore letteratura economica del Novecento (i cui riflessi animano la nostra Costituzione), sviluppo economico, welfare e democrazia sono reciprocamente legati. Una frattura tra loro blocca la crescita, altera negativamente gli equilibri sociali e, in fin dei conti, manda in frantumi il patto sociale su cui si regge, appunto, la democrazia liberale, con il suo intreccio virtuoso di diritti e doveri.

L’economia civile (che comprende impresa, mercato e spirito di comunità e cittadinanza) è l’orizzonte indicato da Mattarella, ricordando la sapiente e lungimirante lezione dell’illuminismo napoletano. Che vale la pena leggere anche come economia “circolare”, “giusta”, “sostenibile”, con sintesi in cui si ritrovano i valori liberali, il pensiero sociale cattolico e il riformismo socialista, le grandi correnti ideali e politiche che stanno alla base della Costituzione.

Mercato, dunque. Da fare funzionare bene, come spazio fisico e virtuale aperto e ben regolato, trasparente e accessibile, controllato e garantito da sanzioni che colpiscono chi infrange le regole. È costituito su un valore che non si può tradire, pena la crisi del mercato stesso: la fiducia. La fiducia degli investitori e dei risparmiatori. La fiducia reciproca tra gli attori economici. La fiducia tra gli operatori e le autorità pubbliche che stabiliscono le condizioni e le norme per gli investimenti e i controlli correlati. La fiducia nelle informazioni secondo cui si fanno le scelte.

Le nostre imprese, di tutto ciò, sono fortemente consapevoli. Vivono sui mercati, europei e internazionali. Dai mercati aperti ed efficienti dipendono per le loro merci, nelle nicchie a maggior valore aggiunto (proprio dove, cioè, la fiducia è un valore ancora più essenziale). Sui mercati recuperano capitali e sui mercati investono in altre imprese all’estero. E sanno bene che mettere in crisi la fiducia sui mercati significa ritrovarsi fortemente indebolite di fronte a una concorrenza sempre più dura, selettiva, severa.

Purtroppo, c’è aria di crisi di fiducia, in queste settimane, in Italia. Il “Financial Times”, a metà della scorsa settimana, dando voce alle preoccupazioni degli investitori internazionali, ha criticato gli emendamenti del disegno di legge Capitali che potrebbero alterare la dialettica tra maggioranze e minoranze azionarie delle società, mettendone in crisi la governabilità. Altre critiche si sono levate contro le norme preparate in ambienti di governo sui crediti deteriorati, considerate “distorsive del mercato dei capitali” (secondo il Center of European Law and Finance). E le severe contestazioni delle banche contro le tasse sui cosiddetti “extraprofitti” hanno costretto il governo a una chiara marcia indietro sul provvedimento, lasciando comunque una scia di perplessità che non fa affatto bene al mercato.

L’andamento dello spread tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi (ma anche rispetto a quelli della Grecia, più apprezzati dei nostri e dunque meno costosi) è testimone di questo stato di cose. “Sfiducia Italia”, titola “La Stampa” (21 settembre). Polemiche giornalistiche a parte, è evidente, proprio sui mercati finanziari, l’aumento delle perplessità sulle scelte di un governo che alza il tono delle polemiche con la Ue, continua a non sottoscrivere il Mes, parla di rinvio della riforma del Patto di Stabilità e si muove su partite economiche delicate (Ita, Tim, etc.) sollevando più critiche e timori di quanto non alimenti certezze di lungo periodo. E l’incertezza del decisore politico è tra le preoccupazioni più diffuse sui mercati, allontanando gli investitori che potrebbero guardare con interesse al nostro Paese.

Vale la pena, per avere un’autorevole evidenza degli umori, leggere le parole di Robert Shiller, professore a Yale, premio Nobel per l’economia 2013: “Gli investitori internazionali sono delusi. Troppa improvvisazione” (“la Repubblica”, 24 settembre). E ancora, con un giudizio politicamente trasversale: “Il populismo, di destra e di sinistra, rappresenta l’esatto contrario di quello che la fonetica sembra indicare: è il male di un popolo che non crede in se stesso: e di una classe politica che rinuncia a governarlo secondo una linea precisa, bensì con misure estemporanee o prive di logica. Il risultato è una narrazione erratica, che non aiuta la crescita”.

Vanno ascoltati, insomma, i mercati internazionali. Soprattutto in un paese, come l’Italia, che ha bisogno di riscuotere solida fiducia all’estero per vendere i suoi prodotti (la nostra crescita dipende fortemente dall’export) ma anche per raccogliere risorse per finanziare il proprio altissimo debito pubblico. E, naturalmente, per attrarre investimenti qualificati per imprese che creino sviluppo, lavoro e benessere.

Parlando di mercati, c’è un’altra tendenza da cui guardarsi: quella di chi gioca a contrapporre i mercati finanziari internazionali con i “mercati rionali” ovvero gli “speculatori” rappresentati da banche e Borse e il popolo. Se n’era fatto interprete, molti anni fa, un politico abitualmente dotato di verve polemica, Clemente Mastella, che nel 1994, da ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi, aveva proclamato: “C’è chi voleva guardare solo ai mercati internazionali, questa cosa che tutti richiamano ma nessuno sa dove sta. Io ho guardato anche a quelli rionali, dove alla vecchina posso dire che ho salvaguardato le pensioni”.

Nel tempo, Mastella era stato emulato da parlamentari ed esponenti di governo sia di centro-destra che di centro-sinistra.

Ma la frase “Noi stiamo con i mercati rionali e non con quelli finanziari” fa effetto, va benissimo nella retorica della polemica sui social media o in Tv. Non risponde, però, alla realtà. E dunque contribuisce a fare danno proprio a chi frequenta “i mercati rionali”.

L’andamento del potere d’acquisto di salari e pensioni, infatti, dipende anche dal costo del denaro (influenzato dalla spread), dall’andamento dell’inflazione, dai livelli di crescita economica fortemente sensibile anche agli investimenti internazionali che influenzano il benessere diffuso. In poche parole, dal clima di fiducia che orienta i mercati. Tutti. Da quelli internazionali a quelli rionali, un passo dopo l’altro.

Mercati da capire e rispettare, dunque. Perché ne va dello stato di salute della nostra economia. E della qualità di vita della comunità.

(Foto: Getty Images)

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