Metamorfosi necessaria del capitalismo familiare
Famiglia. E impresa. Un connubio che connota l’economia italiana. E regge, anche nella stagione in cui le nuove ragioni della competitività internazionale chiedono radicali trasformazioni produttive, organizzative, gestionali. Delle 7 mila aziende italiane che superano i 50 milioni di fatturato, 4mila sono di proprietà familiare. E alle famiglie dei fondatori e ai loro eredi fanno capo anche parecchie delle 4.600 imprese manifatturiere medie e medio-grandi censite ogni anno da Mediobanca e Unioncamere e che rappresentano il punto di forza del sistema produttivo italiano: le “multinazionali tascabili”, quelle che innovano di più, esportano e investono all’estero, garantiscono all’Italia il peso del “secondo paese manifatturiero europeo dopo la Germania”, sono il cuore del “quarto capitalismo” (dopo le grandi industrie storiche della prima industrializzazione, le imprese pubbliche dell’Iri e dell’Eni, la miriade di fabbrichette del “piccolo e bello” per fortuna evolute in distretti e filiere produttive).
La sfida, adesso, per le aziende familiari, è quella del cambiamento. Legando in modo originale proprietà degli eredi del fondatore (molte imprese sono alla terza generazione) e gestione da parte di un management spesso esterno, controllo azionario e apertura a nuovi azionisti (quotazione in Borsa o ingresso nel capitale di banche d’affari e fondi, per finanziare lo sviluppo), radici nei territori di nascita dell’azienda (l’Italia, soprattutto nel Nord e in molte aree del Centro, è una straordinaria provincia produttiva diffusa) ed espansione internazionale), continuità di valori e mutamento secondo gli stimoli di nuove culture. Questioni complesse, che chiedono una nuova e flessibile cultura d’impresa, che abbia al suo centro il legame tra memoria e futuro, sia forte di un’identità mobile e aperta, si riveli capace di reggere le necessarie contaminazioni senza perdere di vista i valori d’origine.
Come fare? Se ne è discusso a lungo, alla fine di settembre, nel corso di una conferenza dell’Aspen Institute Italia dedicato appunto alle “Imprese familiari per lo sviluppo responsabile” e ospitato, a Vicenza, nella sede della Zambon, multinazionale farmaceutica d’avanguardia (eccellenza hi tech, in una “fabbrica bella” disegnata da Michele De Lucchi) guidata da Elena Zambon, nipote del fondatore Gaetano, legatissima a una delle sue idee di fondo, vissuta da tutti come principio aziendale e sociale: “Una società economicamente libera (quella capitalista) può essere moralmente accettabile soltanto a patto che la ricchezza privata diventi benessere collettivo attraverso la creazione di mezzi di produzione, di fatti, di lavoro e di possibilità di vita per altri uomini. Ogni onesto imprenditore si comporta così”.
Famiglia come luogo dei valori dell’impresa, dunque, di un’etica del lavoro che diventa motore di sviluppo e si muove secondo criteri di responsabilità. Un “capitalismo multiforme”, secondo l’Aspen. Capace di dimostrare con i fatti la sua attitudine particolare a reggere la crisi: “Le imprese familiari, dal 2008 a oggi, sono cresciute a tassi più alti di quelli delle imprese non familiari sia per ricavi che per dipendenti, dando così prova di vitalità e di capacità di adattamento”.
E per il futuro? L’idea di fondo è quella di un percorso aperto. Alle collaborazioni con altre imprese (con forme originali di filiera produttiva, di speciali supply chain, di associazioni e consorzi per trovare spazio su mercati internazionali in cui le dimensioni sono essenziali). Alla costruzione di una nuova governance che selezioni e premi i manager, sino al livello del Ceo, del capo azienda, per merito (i risultati) e non per appartenenza familiare. All’ingresso di nuovi azionisti, per avere le risorse necessarie alla crescita, alle acquisizioni, all’espansione sui mercati più dinamici.
Il percorso, naturalmente, non è semplice, denso com’è di implicazioni non puramente economiche, ma anche psicologiche, affettive, storiche, di contrasti, di contraddizioni. Ma va compiuto, come proprio le aziende migliori sanno e fanno. Per restare vitale, il capitalismo familiare italiano deve infatti evitare le secche del familismo. E continuare a dimostrare che “la prima preoccupazione della famiglia è lo sviluppo dell’impresa”.
Famiglia. E impresa. Un connubio che connota l’economia italiana. E regge, anche nella stagione in cui le nuove ragioni della competitività internazionale chiedono radicali trasformazioni produttive, organizzative, gestionali. Delle 7 mila aziende italiane che superano i 50 milioni di fatturato, 4mila sono di proprietà familiare. E alle famiglie dei fondatori e ai loro eredi fanno capo anche parecchie delle 4.600 imprese manifatturiere medie e medio-grandi censite ogni anno da Mediobanca e Unioncamere e che rappresentano il punto di forza del sistema produttivo italiano: le “multinazionali tascabili”, quelle che innovano di più, esportano e investono all’estero, garantiscono all’Italia il peso del “secondo paese manifatturiero europeo dopo la Germania”, sono il cuore del “quarto capitalismo” (dopo le grandi industrie storiche della prima industrializzazione, le imprese pubbliche dell’Iri e dell’Eni, la miriade di fabbrichette del “piccolo e bello” per fortuna evolute in distretti e filiere produttive).
La sfida, adesso, per le aziende familiari, è quella del cambiamento. Legando in modo originale proprietà degli eredi del fondatore (molte imprese sono alla terza generazione) e gestione da parte di un management spesso esterno, controllo azionario e apertura a nuovi azionisti (quotazione in Borsa o ingresso nel capitale di banche d’affari e fondi, per finanziare lo sviluppo), radici nei territori di nascita dell’azienda (l’Italia, soprattutto nel Nord e in molte aree del Centro, è una straordinaria provincia produttiva diffusa) ed espansione internazionale), continuità di valori e mutamento secondo gli stimoli di nuove culture. Questioni complesse, che chiedono una nuova e flessibile cultura d’impresa, che abbia al suo centro il legame tra memoria e futuro, sia forte di un’identità mobile e aperta, si riveli capace di reggere le necessarie contaminazioni senza perdere di vista i valori d’origine.
Come fare? Se ne è discusso a lungo, alla fine di settembre, nel corso di una conferenza dell’Aspen Institute Italia dedicato appunto alle “Imprese familiari per lo sviluppo responsabile” e ospitato, a Vicenza, nella sede della Zambon, multinazionale farmaceutica d’avanguardia (eccellenza hi tech, in una “fabbrica bella” disegnata da Michele De Lucchi) guidata da Elena Zambon, nipote del fondatore Gaetano, legatissima a una delle sue idee di fondo, vissuta da tutti come principio aziendale e sociale: “Una società economicamente libera (quella capitalista) può essere moralmente accettabile soltanto a patto che la ricchezza privata diventi benessere collettivo attraverso la creazione di mezzi di produzione, di fatti, di lavoro e di possibilità di vita per altri uomini. Ogni onesto imprenditore si comporta così”.
Famiglia come luogo dei valori dell’impresa, dunque, di un’etica del lavoro che diventa motore di sviluppo e si muove secondo criteri di responsabilità. Un “capitalismo multiforme”, secondo l’Aspen. Capace di dimostrare con i fatti la sua attitudine particolare a reggere la crisi: “Le imprese familiari, dal 2008 a oggi, sono cresciute a tassi più alti di quelli delle imprese non familiari sia per ricavi che per dipendenti, dando così prova di vitalità e di capacità di adattamento”.
E per il futuro? L’idea di fondo è quella di un percorso aperto. Alle collaborazioni con altre imprese (con forme originali di filiera produttiva, di speciali supply chain, di associazioni e consorzi per trovare spazio su mercati internazionali in cui le dimensioni sono essenziali). Alla costruzione di una nuova governance che selezioni e premi i manager, sino al livello del Ceo, del capo azienda, per merito (i risultati) e non per appartenenza familiare. All’ingresso di nuovi azionisti, per avere le risorse necessarie alla crescita, alle acquisizioni, all’espansione sui mercati più dinamici.
Il percorso, naturalmente, non è semplice, denso com’è di implicazioni non puramente economiche, ma anche psicologiche, affettive, storiche, di contrasti, di contraddizioni. Ma va compiuto, come proprio le aziende migliori sanno e fanno. Per restare vitale, il capitalismo familiare italiano deve infatti evitare le secche del familismo. E continuare a dimostrare che “la prima preoccupazione della famiglia è lo sviluppo dell’impresa”.