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Metropoli in crisi tra pandemia e recessione, ma restano centri di sviluppo, se migliorano qualità di vita e lavoro

Le metropoli o i borghi? Le global cities o la globalizzazione regionale (che suona tanto come un ossimoro)? Nella stagione del Covid19 che ancora imperversa e aggrava le preoccupazioni per la salute fisica e le sorti del lavoro e dei redditi, la questione del futuro delle città, come luoghi sinora preferenziali per le migliori condizioni di crescita, personali e professionali, suscita crescenti attenzioni: analisi, ricerche, dibattiti tra urbanisti ed economisti e tra i politici più avveduti, soprattutto se ricchi di esperienza di governo locale.

In un blog delle scorse settimane (8 settembre) avevamo analizzato le opportunità di valorizzare e fare rivivere i paesi di provincia, i borghi, le aree urbane ai margini delle metropoli, in un’originale combinazione tra smart working, legami digitali, interscambi città-campagna al di fuori dei tradizionali pendolarismi dell’economia “fordista”. Metropoli addio, allora?

La pandemia e la recessione, con i lock down e il tele-lavoro, hanno davvero messo in crisi la citatissima previsione di Parag Khanna, politologo indo-americano, secondo cui il XXI secolo sarebbe stato caratterizzato dall’urbanizzazione crescente e dalle megalopoli asiatiche? La realtà contemporanea, complessa e controversa, sfugge alle semplificazioni schematiche. E probabilmente, varrà la pena immaginare un futuro più articolato, in cui – tanto per restare agli esempi italiani – la ripresa e la crescita di Milano, paradigma metropolitano di creatività e innovazione, convivranno con il rilancio dei paesi sulle colline piacentine, la “città infinita” che si snoda lungo la A4 (l’autostrada da Torino a Trieste) sarà articolata in un tessuto urbano che fa rivivere città medie e paesi, con nuovi sistemi di “mobilità sostenibile” e reti di interconnessione digitale. Una sintesi tutta da costruire tra green economy e digital economy, come peraltro prevede il Recovery Plan della Ue intitolato alla Next Generation: il nuovo modo di vivere, abitare e lavorare che vale la pena cominciare a costruire per i nostri figli e nipoti.

Un paio di contributi, per riflettere meglio. Il primo arriva dal “Financial Times” che, in un articolo di Robin Harding citato anche da “Il Corriere Digital” (30 settembre), prende in prestito la celebre battuta di Mark Twain dopo l’erronea pubblicazione di un suo necrologio, e sostiene che “la notizia della morte delle grandi città sia fortemente esagerata”. Lavorare in una grande città, sostiene Harding, fa crescere la produttività e, di conseguenza, gli stipendi di chi ci lavora (ma anche gli affitti e il costo della vita) e favorisce migliori relazioni fra domanda e offerta di lavoro e fra imprese e clienti.

La produttività cresce perché, scrive Harding, nelle grandi città sia i lavoratori che le imprese sono costretti a imparare: “In una grande città puoi lavorare con i migliori essere sgridato per i tuoi errori e scoprire cosa ci vuole per essere di livello nazionale o mondiale. Provate a farlo con Zoom”. Quanto alle imprese, “un lavoratore assunto strappandolo a un’azienda rivale porta nuove prospettive su come fare le cose. E una cerimonia di premiazione con un vostro concorrente vi motiva a migliorare. Questi sono i motivi per cui, quando una zona si aggiudica un nuovo impianto manifatturiero, la produttività dei rivali locali cresce del 12 per cento, secondo le stime di Michael Greenstone, Richard Hornbeck e Enrico Moretti”(“Journal of Political Economy”, University of Chicago Press, 2010).

La città, inoltre, favorisce l’innovazione: “Un recente studio di David Atkin, Keith Chen e Anton Popov fatto utilizzando i dati di geolocalizzazione dei cellulari mostra come l’incrociarsi casuale dei lavoratori della Silicon Valley porti a un maggior numero di brevetti delle loro aziende”. Non è soltanto una questione di lavoro, aggiunge Harding: “Per l’istruzione, la medicina e persino per le storie d’amore, l’offerta è maggiore in una grande città». Lo stesso vale per l’offerta culturale: cinema, teatri, arte, ristoranti”.

Un’offerta, però, messa a dura prova dalla pandemia di Covid-19. Il che vale per le città nel loro complesso. Perciò, per la riscossa delle città, molto dipenderà dalla durata dal contagio, dall’efficacia di un eventuale vaccino e dal possibile ripetersi di altre pandemie. Harding fa comunque professione di ottimismo: “Tutte le esperienze passate suggeriscono che, alla fine, si troverà una cura, un vaccino o che la pandemia si estinguerà da sé. Quando succederà, i punti di forza delle città si riaffermeranno e tutti arrancheranno di nuovo verso ufficio. Nelle città, si godranno vite produttive e sogneranno, solo di tanto in tanto, quanto piacevole sarebbe lavorare da casa, in campagna”.

“E’ l’ora di rigenerare le città”, si è detto nei giorni scorsi a Milano (“Corriere della Sera”, 4 ottobre), durante un convegno organizzato da Audi, con la partecipazione, tra gli altri di Stefano Boeri e Michele De Lucchi, architetti di respiro internazionale, parlando di lavoro, mobilità, relazioni per un sistema sociale laboratorio di nuovi assetti, in stagioni di pandemia. La presa d’atto della fragilità. La ricerca di una migliore dimensione esistenziale e produttiva, migliorando sia la qualità e la vivibilità di case e uffici, sia la mobilità. Il dibattito è in corso. E le scelte, fatte peraltro da tempo, dalla giunta comunale di Milano guidata dal sindaco Beppe Sala, di rivalutare i quartieri, riqualificare le piazze, fare vivere meglio le periferie e pensare a una “Milano in un quarto d’ora” (i vantaggi della “prossimità”), testimoniano come anche le metropoli potranno essere centro di sviluppo solo se ai criteri di competitività, innovazione, attrattività e creatività si aggiungeranno quelli della qualità della vita, dell’inclusione e della solidarietà. Valori, peraltro, che fanno da tempo parte del capitale sociale milanese.

Un’altra riflessione di grande interesse arriva da Edoardo Campanella, professore all’Università di Madrid e Francesco Profumo, presidente della Compagnia di San Paolo (“Corriere della Sera”, 26 settembre): “Cambiano le gerarchie urbane, ma le città non moriranno”. Si stanno modificando gli equilibri tra centro e periferia, con un processo di cambiamento accelerato da pandemia, lock down e lavoro a distanza, ma “il virtuale non è ancora un perfetto sostituto del reale”.

Per facilitare la transizione, “è necessario costruire infrastrutture digitali adeguate nelle aree periferiche, fornire crediti di imposta per i trasferimenti di residenza e ampliare gli incentivi per lo smart working. L’Europa, dove città con secoli di storia sono spopolate, potrebbe vedere la rinascita di alcune delle sue regioni a più alto potenziale. E in Italia si tornerebbe verso un modello di sviluppo policentrico, più bilanciato di quello attuale”.

Le metropoli o i borghi? Le global cities o la globalizzazione regionale (che suona tanto come un ossimoro)? Nella stagione del Covid19 che ancora imperversa e aggrava le preoccupazioni per la salute fisica e le sorti del lavoro e dei redditi, la questione del futuro delle città, come luoghi sinora preferenziali per le migliori condizioni di crescita, personali e professionali, suscita crescenti attenzioni: analisi, ricerche, dibattiti tra urbanisti ed economisti e tra i politici più avveduti, soprattutto se ricchi di esperienza di governo locale.

In un blog delle scorse settimane (8 settembre) avevamo analizzato le opportunità di valorizzare e fare rivivere i paesi di provincia, i borghi, le aree urbane ai margini delle metropoli, in un’originale combinazione tra smart working, legami digitali, interscambi città-campagna al di fuori dei tradizionali pendolarismi dell’economia “fordista”. Metropoli addio, allora?

La pandemia e la recessione, con i lock down e il tele-lavoro, hanno davvero messo in crisi la citatissima previsione di Parag Khanna, politologo indo-americano, secondo cui il XXI secolo sarebbe stato caratterizzato dall’urbanizzazione crescente e dalle megalopoli asiatiche? La realtà contemporanea, complessa e controversa, sfugge alle semplificazioni schematiche. E probabilmente, varrà la pena immaginare un futuro più articolato, in cui – tanto per restare agli esempi italiani – la ripresa e la crescita di Milano, paradigma metropolitano di creatività e innovazione, convivranno con il rilancio dei paesi sulle colline piacentine, la “città infinita” che si snoda lungo la A4 (l’autostrada da Torino a Trieste) sarà articolata in un tessuto urbano che fa rivivere città medie e paesi, con nuovi sistemi di “mobilità sostenibile” e reti di interconnessione digitale. Una sintesi tutta da costruire tra green economy e digital economy, come peraltro prevede il Recovery Plan della Ue intitolato alla Next Generation: il nuovo modo di vivere, abitare e lavorare che vale la pena cominciare a costruire per i nostri figli e nipoti.

Un paio di contributi, per riflettere meglio. Il primo arriva dal “Financial Times” che, in un articolo di Robin Harding citato anche da “Il Corriere Digital” (30 settembre), prende in prestito la celebre battuta di Mark Twain dopo l’erronea pubblicazione di un suo necrologio, e sostiene che “la notizia della morte delle grandi città sia fortemente esagerata”. Lavorare in una grande città, sostiene Harding, fa crescere la produttività e, di conseguenza, gli stipendi di chi ci lavora (ma anche gli affitti e il costo della vita) e favorisce migliori relazioni fra domanda e offerta di lavoro e fra imprese e clienti.

La produttività cresce perché, scrive Harding, nelle grandi città sia i lavoratori che le imprese sono costretti a imparare: “In una grande città puoi lavorare con i migliori essere sgridato per i tuoi errori e scoprire cosa ci vuole per essere di livello nazionale o mondiale. Provate a farlo con Zoom”. Quanto alle imprese, “un lavoratore assunto strappandolo a un’azienda rivale porta nuove prospettive su come fare le cose. E una cerimonia di premiazione con un vostro concorrente vi motiva a migliorare. Questi sono i motivi per cui, quando una zona si aggiudica un nuovo impianto manifatturiero, la produttività dei rivali locali cresce del 12 per cento, secondo le stime di Michael Greenstone, Richard Hornbeck e Enrico Moretti”(“Journal of Political Economy”, University of Chicago Press, 2010).

La città, inoltre, favorisce l’innovazione: “Un recente studio di David Atkin, Keith Chen e Anton Popov fatto utilizzando i dati di geolocalizzazione dei cellulari mostra come l’incrociarsi casuale dei lavoratori della Silicon Valley porti a un maggior numero di brevetti delle loro aziende”. Non è soltanto una questione di lavoro, aggiunge Harding: “Per l’istruzione, la medicina e persino per le storie d’amore, l’offerta è maggiore in una grande città». Lo stesso vale per l’offerta culturale: cinema, teatri, arte, ristoranti”.

Un’offerta, però, messa a dura prova dalla pandemia di Covid-19. Il che vale per le città nel loro complesso. Perciò, per la riscossa delle città, molto dipenderà dalla durata dal contagio, dall’efficacia di un eventuale vaccino e dal possibile ripetersi di altre pandemie. Harding fa comunque professione di ottimismo: “Tutte le esperienze passate suggeriscono che, alla fine, si troverà una cura, un vaccino o che la pandemia si estinguerà da sé. Quando succederà, i punti di forza delle città si riaffermeranno e tutti arrancheranno di nuovo verso ufficio. Nelle città, si godranno vite produttive e sogneranno, solo di tanto in tanto, quanto piacevole sarebbe lavorare da casa, in campagna”.

“E’ l’ora di rigenerare le città”, si è detto nei giorni scorsi a Milano (“Corriere della Sera”, 4 ottobre), durante un convegno organizzato da Audi, con la partecipazione, tra gli altri di Stefano Boeri e Michele De Lucchi, architetti di respiro internazionale, parlando di lavoro, mobilità, relazioni per un sistema sociale laboratorio di nuovi assetti, in stagioni di pandemia. La presa d’atto della fragilità. La ricerca di una migliore dimensione esistenziale e produttiva, migliorando sia la qualità e la vivibilità di case e uffici, sia la mobilità. Il dibattito è in corso. E le scelte, fatte peraltro da tempo, dalla giunta comunale di Milano guidata dal sindaco Beppe Sala, di rivalutare i quartieri, riqualificare le piazze, fare vivere meglio le periferie e pensare a una “Milano in un quarto d’ora” (i vantaggi della “prossimità”), testimoniano come anche le metropoli potranno essere centro di sviluppo solo se ai criteri di competitività, innovazione, attrattività e creatività si aggiungeranno quelli della qualità della vita, dell’inclusione e della solidarietà. Valori, peraltro, che fanno da tempo parte del capitale sociale milanese.

Un’altra riflessione di grande interesse arriva da Edoardo Campanella, professore all’Università di Madrid e Francesco Profumo, presidente della Compagnia di San Paolo (“Corriere della Sera”, 26 settembre): “Cambiano le gerarchie urbane, ma le città non moriranno”. Si stanno modificando gli equilibri tra centro e periferia, con un processo di cambiamento accelerato da pandemia, lock down e lavoro a distanza, ma “il virtuale non è ancora un perfetto sostituto del reale”.

Per facilitare la transizione, “è necessario costruire infrastrutture digitali adeguate nelle aree periferiche, fornire crediti di imposta per i trasferimenti di residenza e ampliare gli incentivi per lo smart working. L’Europa, dove città con secoli di storia sono spopolate, potrebbe vedere la rinascita di alcune delle sue regioni a più alto potenziale. E in Italia si tornerebbe verso un modello di sviluppo policentrico, più bilanciato di quello attuale”.

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