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Migliora il giudizio internazionale sulle università italiane e la “cultura politecnica” rafforza economia e vita civile

Le migliori università italiane crescono nelle classifiche internazionali, per la didattica, la ricerca, i master. E confermano come, nella stagione dell’economia della conoscenza, così densa di cambiamenti radicali, la cultura e l’istruzione del nostro Paese possano essere leve formidabili di sviluppo, di inclusione sociale, di rafforzamento della coscienza civile e, naturalmente, anche di competitività.
L’ultima notizia di grande rilievo viene dalla classifica del “Financial Times” sui cento migliori master in management al mondo nel ‘23. Al primo posto c’è Hec Paris, seguita dalla svizzera University of St. Gallen e dalla London Business School. All’ottavo posto, ecco la Sda Bocconi, che migliora parecchie posizioni rispetto al ‘22 (era ventesima) ed è alla pari con la spagnola Esade. E la seconda delle italiane, in questo elenco dei “Top 100 Masters in Management programs” è la Luiss di Roma, con uno straordinario balzo in avanti che la porta al 30° posto, migliorando moltissimo i ranking precedenti (era 53° nel ‘22 e 90° nel ‘19). La terza delle italiane in classifica è la Scuola di Management del Politecnico di Milano, al 70° posto (anche qui con un miglioramento rispetto all’anno precedente, di sette posizioni).

In altre classifiche internazionali, posizioni di prestigio sono occupate dalla Sapienza di Roma (prima delle italiane nell’ “Academic Ranking of World Universities” della Shanghai Ranking Consultancy: ai primi tre posti ci sono Harvard, Stanford e Mit di Boston, l’università romana è tra le prime 150, seguita a distanza dalle università di Milano, Padova, Pisa, Bologna e e Federico II di Napoli), dalla Cattolica e dalla Bicocca di Milano, dal Politecnico di Torino, etc. Secondo QS World Ranking, invece, la prima delle italiane è il Politecnico di Milano (123° posto al mondo, con un miglioramento di 16 posizioni), seguita dalla Sapienza.
Fermiamoci un momento alla scalata più evidente nel ranking del “Financial Times”, quello della Luiss (l’università di Confindustria): “Ci siamo distinti non solo per il miglioramento della didattica e della ricerca, ma anche nei parametri che riguardano l’internazionalizzazione, l’innovazione, l’interdisciplinarità, il supporto alle carriere degli alunni e l’attenzione alla sostenibilità”, sostiene il Rettore Andrea Prencipe. Aggiungendo che il 96% dei laureati trova un posto di lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo universitario.

Ecco il punto su cui riflettere: il sistema universitario rafforza il suo peso nella formazione del capitale sociale e culturale italiano. Restano evidenti, naturalmente, tutte le criticità ben note, dagli insufficienti investimenti pubblici nell’istruzione (il 4,1% del Pil, contro il 4,8% della media Ue) alle carenze di fondi per la ricerca (appena l’1,5% del Pil, metà dei quali stanziati da privati, mentre la Germania investe il triplo e le indicazioni Ue parlano di oltre il 2%), dall’edilizia (comprese le gravi carenze degli alloggi per gli studenti) alle dotazioni tecniche-scientifiche dei centri di ricerca, dal provincialismo di alcune sedi al clientelismo di vecchi e nuovi baronati (per averne idea, con un sapido romanzo, vale la pena leggere “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari, edito da Sellerio, una delle migliori opere di questa stagione letteraria). Ma, nonostante tutto, la nostra università migliora. E può avere un ruolo sempre più determinante sullo sviluppo, nella stagione in cui la cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, chiede nuove conoscenze e migliori competenze non solo per tutti i processi economici e produttivi, ma anche per la vivibilità delle città, per la salute, per la stessa qualità della convivenza civile e politica. Ben sapendo che c’è un nesso molto stretto tra conoscenza e libertà, formazione critica e cittadinanza responsabile, economia di mercato, welfare e democrazia. Sapere, insomma, non vuol dire solo benessere, ma anche e soprattutto libertà.
Fermandoci sul terreno economico, sappiamo bene che l’impetuosa ripresa economica post Covid, la migliore nell’area europea, è fondata appunto sulle relazioni positive tra università e imprese in chiave di innovazione, trasferimento tecnologico, conquiste di nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali.

Abbiamo, come sistema Italia, un punto di forza su cui fare leva: la straordinaria capacità di sintesi tra le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche, tra il senso della bellezza e l’originale flessibilità nell’impiego delle nuove tecnologie, tra la consapevolezza storica critica delle nostre radici e un sofisticato gusto per l’invenzione del futuro. Tra la creatività e il rigore dei metodi e contenuti. E’ la “cultura politecnica”, il nostro nuovo “umanesimo” negli anni Duemila, che decliniamo in “umanesimo digitale” o, pensando alla qualità competitiva delle nostre manifatture d’eccellenza, in “umanesimo industriale”. E che oggi può aiutarci a dare un contributo fondamentale all’umanizzazione dei processi determinati dall’espansione dell’Intelligenza Artificiale.

Competenze multidisciplinari e integrate. Formazione culturale che supera il tradizionale schematismo delle “due culture” e guarda a un insieme dialettico di saperi che rinnova e ripropone lo spirito di quella straordinaria stagione della storia che è stato il Rinascimento, così ricco di artisti-scienziati il cui insegnamento ha ancora sapore di attualità
L’apprezzamento dei manager italiani, forti d’una formazione multidisciplinare, sui mercati del lavoro globali conferma la rilevanza di questa tendenza.
Le indicazioni del Pnrr, da attuare presto e bene, guardano proprio all’istruzione come cardine di ulteriore sviluppo, non solo in termini di Pil ma soprattutto, in termini di Bes, l’indice che misura il “benessere equo e sostenibile”.
Abbiamo, è vero, pochi laureati, circa 200mila all’anno, appena il 20% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto a più del 40% in Francia e Spagna, al 31% in Germania e al 33,4% della media Ue. E in una condizione di vero e proprio “inverno demografico” (nel ‘22 sono nati appena 392mila bambini e l’indice di fertilità è tra i più bassi al mondo), è facile prevedere che nell’arco dei prossimi vent’anni avremo un vero e proprio crollo nelle frequentazioni scolastiche e nelle lauree. Anche perché, già adesso, un gran numero di giovani laureati abbandona l’Italia in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro (i loro stipendi sono tra i più bassi rispetto ai competitor internazionali). I dati ISTAT documentano che nel ‘21 il 40% dei giovani emigrati aveva una laurea e comunque, dal 2012 al 2022, sono stati 337mila i laureati che hanno lasciato il nostro paese.

E’ un fenomeno grave, che incide sullo sviluppo economico, ma anche sulla tenuta del tessuto sociale e politico. Un fenomeno da affrontare e correggere.
Come? Al di là delle indispensabili scelte demografiche di lungo periodo, proprio guardando alle università si possono ricavare alcune indicazioni.
La stragrande maggioranza degli studenti dei nostri studenti sono italiani. E le università competono per attrarre a sé i migliori. Ma è una competizione su un piccolo mercato interno, peraltro sempre più asfittico, non solo a causa della decrescita demografica, ma anche per l’aumento del numero dei ragazzi che scelgono di andare a fare l’università all’estero (molti di quelli che si laureano qui, come abbiamo appena visto, poi vanno via).
Vale la pena, allora, fare leva proprio sul miglioramento di qualità delle nostre università e dei nostri master, di cui abbiamo parlato, per allargare il mercato di riferimento. All’area del Mediterraneo, innanzitutto. E a tutti quei paesi (l’Africa può essere considerata in primo piano) che possono mandare le loro ragazze e i loro ragazzi a studiare da noi. La nostra “cultura politecnica” e il “genio italiano” creativo, adattativo, flessibile, sono dimensioni specifiche su cui puntare.
Corsi di respiro internazionale, dunque. Tenuti in lingue internazionali. Con una robusta modernizzazione di didattica, ricerca, infrastrutture. E con uno sguardo accogliente aperto al mondo, com’è d’altronde abitudine delle accoglienti culture mediterranee.

Ponti, non muri. Dialoghi critici e inclusivi. Attenzione culturale. E cura per un’identità non radicata in pregiudizi razziali e culturali, ma forte delle capacità di confronto. Come la nostra stessa storia culturale e civile insegna.
Anche grazie a questo spirito, i nostri ranking internazionali sull’università possono continuare a migliorare e dare all’Italia quella centralità, tra Europa e Mediterraneo, su cui costruire il nostro migliore futuro.

(foto Getty Images)

Le migliori università italiane crescono nelle classifiche internazionali, per la didattica, la ricerca, i master. E confermano come, nella stagione dell’economia della conoscenza, così densa di cambiamenti radicali, la cultura e l’istruzione del nostro Paese possano essere leve formidabili di sviluppo, di inclusione sociale, di rafforzamento della coscienza civile e, naturalmente, anche di competitività.
L’ultima notizia di grande rilievo viene dalla classifica del “Financial Times” sui cento migliori master in management al mondo nel ‘23. Al primo posto c’è Hec Paris, seguita dalla svizzera University of St. Gallen e dalla London Business School. All’ottavo posto, ecco la Sda Bocconi, che migliora parecchie posizioni rispetto al ‘22 (era ventesima) ed è alla pari con la spagnola Esade. E la seconda delle italiane, in questo elenco dei “Top 100 Masters in Management programs” è la Luiss di Roma, con uno straordinario balzo in avanti che la porta al 30° posto, migliorando moltissimo i ranking precedenti (era 53° nel ‘22 e 90° nel ‘19). La terza delle italiane in classifica è la Scuola di Management del Politecnico di Milano, al 70° posto (anche qui con un miglioramento rispetto all’anno precedente, di sette posizioni).

In altre classifiche internazionali, posizioni di prestigio sono occupate dalla Sapienza di Roma (prima delle italiane nell’ “Academic Ranking of World Universities” della Shanghai Ranking Consultancy: ai primi tre posti ci sono Harvard, Stanford e Mit di Boston, l’università romana è tra le prime 150, seguita a distanza dalle università di Milano, Padova, Pisa, Bologna e e Federico II di Napoli), dalla Cattolica e dalla Bicocca di Milano, dal Politecnico di Torino, etc. Secondo QS World Ranking, invece, la prima delle italiane è il Politecnico di Milano (123° posto al mondo, con un miglioramento di 16 posizioni), seguita dalla Sapienza.
Fermiamoci un momento alla scalata più evidente nel ranking del “Financial Times”, quello della Luiss (l’università di Confindustria): “Ci siamo distinti non solo per il miglioramento della didattica e della ricerca, ma anche nei parametri che riguardano l’internazionalizzazione, l’innovazione, l’interdisciplinarità, il supporto alle carriere degli alunni e l’attenzione alla sostenibilità”, sostiene il Rettore Andrea Prencipe. Aggiungendo che il 96% dei laureati trova un posto di lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo universitario.

Ecco il punto su cui riflettere: il sistema universitario rafforza il suo peso nella formazione del capitale sociale e culturale italiano. Restano evidenti, naturalmente, tutte le criticità ben note, dagli insufficienti investimenti pubblici nell’istruzione (il 4,1% del Pil, contro il 4,8% della media Ue) alle carenze di fondi per la ricerca (appena l’1,5% del Pil, metà dei quali stanziati da privati, mentre la Germania investe il triplo e le indicazioni Ue parlano di oltre il 2%), dall’edilizia (comprese le gravi carenze degli alloggi per gli studenti) alle dotazioni tecniche-scientifiche dei centri di ricerca, dal provincialismo di alcune sedi al clientelismo di vecchi e nuovi baronati (per averne idea, con un sapido romanzo, vale la pena leggere “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari, edito da Sellerio, una delle migliori opere di questa stagione letteraria). Ma, nonostante tutto, la nostra università migliora. E può avere un ruolo sempre più determinante sullo sviluppo, nella stagione in cui la cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, chiede nuove conoscenze e migliori competenze non solo per tutti i processi economici e produttivi, ma anche per la vivibilità delle città, per la salute, per la stessa qualità della convivenza civile e politica. Ben sapendo che c’è un nesso molto stretto tra conoscenza e libertà, formazione critica e cittadinanza responsabile, economia di mercato, welfare e democrazia. Sapere, insomma, non vuol dire solo benessere, ma anche e soprattutto libertà.
Fermandoci sul terreno economico, sappiamo bene che l’impetuosa ripresa economica post Covid, la migliore nell’area europea, è fondata appunto sulle relazioni positive tra università e imprese in chiave di innovazione, trasferimento tecnologico, conquiste di nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali.

Abbiamo, come sistema Italia, un punto di forza su cui fare leva: la straordinaria capacità di sintesi tra le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche, tra il senso della bellezza e l’originale flessibilità nell’impiego delle nuove tecnologie, tra la consapevolezza storica critica delle nostre radici e un sofisticato gusto per l’invenzione del futuro. Tra la creatività e il rigore dei metodi e contenuti. E’ la “cultura politecnica”, il nostro nuovo “umanesimo” negli anni Duemila, che decliniamo in “umanesimo digitale” o, pensando alla qualità competitiva delle nostre manifatture d’eccellenza, in “umanesimo industriale”. E che oggi può aiutarci a dare un contributo fondamentale all’umanizzazione dei processi determinati dall’espansione dell’Intelligenza Artificiale.

Competenze multidisciplinari e integrate. Formazione culturale che supera il tradizionale schematismo delle “due culture” e guarda a un insieme dialettico di saperi che rinnova e ripropone lo spirito di quella straordinaria stagione della storia che è stato il Rinascimento, così ricco di artisti-scienziati il cui insegnamento ha ancora sapore di attualità
L’apprezzamento dei manager italiani, forti d’una formazione multidisciplinare, sui mercati del lavoro globali conferma la rilevanza di questa tendenza.
Le indicazioni del Pnrr, da attuare presto e bene, guardano proprio all’istruzione come cardine di ulteriore sviluppo, non solo in termini di Pil ma soprattutto, in termini di Bes, l’indice che misura il “benessere equo e sostenibile”.
Abbiamo, è vero, pochi laureati, circa 200mila all’anno, appena il 20% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto a più del 40% in Francia e Spagna, al 31% in Germania e al 33,4% della media Ue. E in una condizione di vero e proprio “inverno demografico” (nel ‘22 sono nati appena 392mila bambini e l’indice di fertilità è tra i più bassi al mondo), è facile prevedere che nell’arco dei prossimi vent’anni avremo un vero e proprio crollo nelle frequentazioni scolastiche e nelle lauree. Anche perché, già adesso, un gran numero di giovani laureati abbandona l’Italia in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro (i loro stipendi sono tra i più bassi rispetto ai competitor internazionali). I dati ISTAT documentano che nel ‘21 il 40% dei giovani emigrati aveva una laurea e comunque, dal 2012 al 2022, sono stati 337mila i laureati che hanno lasciato il nostro paese.

E’ un fenomeno grave, che incide sullo sviluppo economico, ma anche sulla tenuta del tessuto sociale e politico. Un fenomeno da affrontare e correggere.
Come? Al di là delle indispensabili scelte demografiche di lungo periodo, proprio guardando alle università si possono ricavare alcune indicazioni.
La stragrande maggioranza degli studenti dei nostri studenti sono italiani. E le università competono per attrarre a sé i migliori. Ma è una competizione su un piccolo mercato interno, peraltro sempre più asfittico, non solo a causa della decrescita demografica, ma anche per l’aumento del numero dei ragazzi che scelgono di andare a fare l’università all’estero (molti di quelli che si laureano qui, come abbiamo appena visto, poi vanno via).
Vale la pena, allora, fare leva proprio sul miglioramento di qualità delle nostre università e dei nostri master, di cui abbiamo parlato, per allargare il mercato di riferimento. All’area del Mediterraneo, innanzitutto. E a tutti quei paesi (l’Africa può essere considerata in primo piano) che possono mandare le loro ragazze e i loro ragazzi a studiare da noi. La nostra “cultura politecnica” e il “genio italiano” creativo, adattativo, flessibile, sono dimensioni specifiche su cui puntare.
Corsi di respiro internazionale, dunque. Tenuti in lingue internazionali. Con una robusta modernizzazione di didattica, ricerca, infrastrutture. E con uno sguardo accogliente aperto al mondo, com’è d’altronde abitudine delle accoglienti culture mediterranee.

Ponti, non muri. Dialoghi critici e inclusivi. Attenzione culturale. E cura per un’identità non radicata in pregiudizi razziali e culturali, ma forte delle capacità di confronto. Come la nostra stessa storia culturale e civile insegna.
Anche grazie a questo spirito, i nostri ranking internazionali sull’università possono continuare a migliorare e dare all’Italia quella centralità, tra Europa e Mediterraneo, su cui costruire il nostro migliore futuro.

(foto Getty Images)

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