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Milano deve scommettere su studenti e conoscenza, per una metropoli “aperta”, più equilibrata e inclusiva

Milano pensa e si ripensa. Continua a investire sulle sue università, oramai ben presenti nelle classifiche internazionali sulla qualità della didattica e della ricerca (200mila studenti, un patrimonio straordinario di intelligenze, conoscenze e passioni). E riflette criticamente sulle condizioni generali che determinano la sua “attrattività”, cercando di migliorare vivibilità, qualità dello sviluppo economico, benessere sociale diffuso, cultura e partecipazione, per continuare a essere, nonostante tutti i limiti e le contraddizioni dei nostri tempi difficili, non solo urbs (le strutture, i palazzi, i monumenti, gli edifici pubblici e privati) ma soprattutto civitas, lo spazio attivo di una comunità di cives, di cittadini consapevoli e responsabili.

È una riflessione che oramai investe non solo il mondo della politica e della pubblica amministrazione ma anche e soprattutto le organizzazioni della società civile, le associazioni culturali, le rappresentanze dell’economia e delle imprese, le aziende del “terzo settore”..

Cade il mito della Milano che non si ferma mai, caro a buona parte della città post Expo, tanto che adesso anche il sindaco Beppe Sala dice “No alla metropoli H24: questa idea della città in cui non ci sono orari, che è sempre aperta, non mi convince più tanto… perché credo che le città debbano anche riposare, come gli essere umani e avere orari un po’ più adatti a tutti” (Corriere della Sera, 18 ottobre).

Lo scintillio delle “mille luci” di finanza, moda e smagate creatività da “milanese imbruttito” cede finalmente il passo alla crescente consapevolezza dei divari sociali e delle nuove e vecchie povertà da affrontare e dei problemi da risolvere (traffico, inquinamento, sicurezza, etc.). I guasti del cosiddetto overtourism stravolgono quartieri, abitudini sociali, cibi, culture, nell’omologazione di massa che mette in ombra le qualità urbane.

L’attrattività per capitali e talenti, che ancora per fortuna continua a crescere (“Milano regina degli investimenti”, certifica Il Sole24Ore, 19 ottobre), non può dunque evitare di fare i conti con l’intollerabilità del crescente costo della vita e degli inaccessibili prezzi delle case, respingenti proprio per le nuove generazioni che scelgono Milano per costruire conoscenze e imprese e chiedono scelte accessibili di vita e lavoro.

Si trovano, è vero, prime, significative risposte dal Comune (“Ventimila nuove case low cost in 10 anni: l’agenda Milano contro il caro affitti”, titola la Repubblica, 14 ottobre). E sono proprio le imprese a voler essere tra i “custodi della città”, accogliendo, come fa il presidente di Assolombarda Alessandro Spada (“Corriere della Sera”, 17 ottobre) l’invito dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini e lanciando l’idea di una “alleanza ambrosiana” per qualificarsi come “metropoli accogliente”, sensibile alla richiesta di un miglior futuro delle giovani generazioni.

La cultura dell’accoglienza, d’altronde, è sempre stata una caratteristica di Milano, una sua connotazione positiva. Le radici stanno in un editto medioevale del vescovo Ariberto d’Intimiano, nel 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”: lavoro e intraprendenza come cardine della cittadinanza (i lettori di questo blog hanno più volte letto il riferimento storico).

Nel tempo, Milano città aperta (le porte delle sue mura erano caselli del dazio, strutture commerciali di scambio e non chiusure ostili o difensive) e rotonda, priva anche urbanisticamente di spigoli, ha qualificato la sua natura e la sua funzione nell’essere al centro delle grandi strade di relazione tra il Nord europeo e il Mediterraneo, tra l’Ovest identitario e i percorsi verso l’Oriente. E anche nella stagione delle grandi migrazioni del boom economico, dal Mezzogiorno verso il “triangolo industriale”, è stata meno respingente di altre città caratterizzate dal duro fordismo delle fabbriche. “Milanesi si diventa”, teorizzava un bel romanzo di Carlo Castellaneta.

Anche il razionalismo amato dai suoi più sapienti architetti, tra gli anni Venti del Novecento e il dinamico, intraprendente dopoguerra (ricordati in un recente, appassionante libro di Gianni Biondillo, “Quello che noi non siamo”, Guanda: Giuseppe Terragni, Giuseppe Pogatschnig Pagano, Piero Bottoni, Franco Albini, Luigi Figini, Gino Pollini, Edoardo Persico, oltre ai giovani di BBPR e cioè Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, progettisti della Torre Velasca e tanto stimolanti da contagiare anche i loro maestri Gio Ponti e Piero Portaluppi) ha innestato nell’anima della città l’idea del “potere germinale della bellezza” per “creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, creare un’arte nuova” e dunque per un’idea di bellezza lineare, democratica, tipica di città accoglienti e inclusive. Quell’eredità estetica ed etica, oggi, è da da rivalutare. Anche per evitare il degrado d’una metropoli che si abitua ai ritmi effimeri e fragili dei city users e rilanciare invece qualità e virtù dell’essere cives, il potere futuribile e sostenibile dei cittadini.

Si torna, così, al valore della conoscenza e a quelle strutture, le università, che investono e continuano a dare alla “grande Milano” idee ed energie per fornire strumenti adatti a progettare scelte e riforme utili a quel “cambio di paradigma” economico e sociale adatto alla ricomposizione di equilibri geopolitici europei e mediterranei.

Sono idee che ricorrono nelle scelte formative e civili del Politecnico e della Bocconi, della Cattolica e della Bicocca, dello Iulm e dell’Humanitas, che proprio in queste settimane celebra il decimo anno di attività, ha il 40% di provenienze internazionali tra i suoi 2.700 studenti e nel nuovo Innovantion Building ospita le attività di MedTech, corsi di medicina e ingegneria in collaborazione con il Politecnico, per sperimentare ricerche e scelte di formazione su nanotecnologie, Artificial Intelligence, biomedicina e utilizzo dei big data per tutte le “scienze della vita”.

Notizie rilevanti, proprio in questa direzione, di cultura multidisciplinare e di formazione come leva di sviluppo, arrivano anche dall’Università Statale, con la posa della prima pietra degli edifici che dal 2026 ospiteranno le facoltà scientifiche, nello spazio di Mind (Milano Innovation District) nell’area ex Expo: 120 milioni di investimento, per una popolazione di 23mila persone tra studenti, professori, ricercatori e tecnici e un ambizioso progetto di Campus ricerca di piattaforme tecnologiche d’avanguardia collegate alle attività delle aziende high tech dell’area.

Il nuovo campus dell’Università Statale è stato affidato alla progettazione di Carlo Ratti, architetto e professore al Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, uno dei più autorevoli studiosi internazionali delle smart cities.

Spiega Ratti (Il Sole24Ore, 17 ottobre): “Incontrarsi in un campus è fondamentale per innovare e creare conoscenza. Le grandi scoperte, nel bene e nel male, avvengono quando un gruppo di persone, unite da una vocazione, si ritrovano insieme, nello spazio fisico. È una logica antica, che nei secoli ha ispirato l’acropoli ateniese, i monasteri e le università dell’Europa medioevale o i collegi da Oxford e Cambridge a Pavia. Luoghi e ambienti che favoriscono gli incontri”.

Nel campus dell’Università Statale di Milano a Mind, “la prossimità con il distretto dell’innovazione potrà diventare uno dei motori dell’innovazione urbana nella capitale lombarda”.

Insiste Ratti: “La nostra visione architettonica per il campus cerca di rispondere a questi criteri. Un luogo capace di prediligere la logica dell’incontro, tra persone e persone e tra diverse discipline accademiche. Un campus del learning by doing, per dirla con John Dewey, ovvero dell’ apprendere facendo. Da qui, il principio che in urbanistica chiamiamo Common Ground: uno spazio pubblico ininterrotto, aperto a tutti, che si snoda attraverso il quartiere, tramite passerelle, chiostri e un sistema di corti”.

Rieccola, dunque, Milano città aperta, colta e inclusiva. Non più solo the place to be. Ma una metropoli per lavorare, vivere, intraprendere. Insomma, crescere bene.

(foto Getty Images)

Milano pensa e si ripensa. Continua a investire sulle sue università, oramai ben presenti nelle classifiche internazionali sulla qualità della didattica e della ricerca (200mila studenti, un patrimonio straordinario di intelligenze, conoscenze e passioni). E riflette criticamente sulle condizioni generali che determinano la sua “attrattività”, cercando di migliorare vivibilità, qualità dello sviluppo economico, benessere sociale diffuso, cultura e partecipazione, per continuare a essere, nonostante tutti i limiti e le contraddizioni dei nostri tempi difficili, non solo urbs (le strutture, i palazzi, i monumenti, gli edifici pubblici e privati) ma soprattutto civitas, lo spazio attivo di una comunità di cives, di cittadini consapevoli e responsabili.

È una riflessione che oramai investe non solo il mondo della politica e della pubblica amministrazione ma anche e soprattutto le organizzazioni della società civile, le associazioni culturali, le rappresentanze dell’economia e delle imprese, le aziende del “terzo settore”..

Cade il mito della Milano che non si ferma mai, caro a buona parte della città post Expo, tanto che adesso anche il sindaco Beppe Sala dice “No alla metropoli H24: questa idea della città in cui non ci sono orari, che è sempre aperta, non mi convince più tanto… perché credo che le città debbano anche riposare, come gli essere umani e avere orari un po’ più adatti a tutti” (Corriere della Sera, 18 ottobre).

Lo scintillio delle “mille luci” di finanza, moda e smagate creatività da “milanese imbruttito” cede finalmente il passo alla crescente consapevolezza dei divari sociali e delle nuove e vecchie povertà da affrontare e dei problemi da risolvere (traffico, inquinamento, sicurezza, etc.). I guasti del cosiddetto overtourism stravolgono quartieri, abitudini sociali, cibi, culture, nell’omologazione di massa che mette in ombra le qualità urbane.

L’attrattività per capitali e talenti, che ancora per fortuna continua a crescere (“Milano regina degli investimenti”, certifica Il Sole24Ore, 19 ottobre), non può dunque evitare di fare i conti con l’intollerabilità del crescente costo della vita e degli inaccessibili prezzi delle case, respingenti proprio per le nuove generazioni che scelgono Milano per costruire conoscenze e imprese e chiedono scelte accessibili di vita e lavoro.

Si trovano, è vero, prime, significative risposte dal Comune (“Ventimila nuove case low cost in 10 anni: l’agenda Milano contro il caro affitti”, titola la Repubblica, 14 ottobre). E sono proprio le imprese a voler essere tra i “custodi della città”, accogliendo, come fa il presidente di Assolombarda Alessandro Spada (“Corriere della Sera”, 17 ottobre) l’invito dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini e lanciando l’idea di una “alleanza ambrosiana” per qualificarsi come “metropoli accogliente”, sensibile alla richiesta di un miglior futuro delle giovani generazioni.

La cultura dell’accoglienza, d’altronde, è sempre stata una caratteristica di Milano, una sua connotazione positiva. Le radici stanno in un editto medioevale del vescovo Ariberto d’Intimiano, nel 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”: lavoro e intraprendenza come cardine della cittadinanza (i lettori di questo blog hanno più volte letto il riferimento storico).

Nel tempo, Milano città aperta (le porte delle sue mura erano caselli del dazio, strutture commerciali di scambio e non chiusure ostili o difensive) e rotonda, priva anche urbanisticamente di spigoli, ha qualificato la sua natura e la sua funzione nell’essere al centro delle grandi strade di relazione tra il Nord europeo e il Mediterraneo, tra l’Ovest identitario e i percorsi verso l’Oriente. E anche nella stagione delle grandi migrazioni del boom economico, dal Mezzogiorno verso il “triangolo industriale”, è stata meno respingente di altre città caratterizzate dal duro fordismo delle fabbriche. “Milanesi si diventa”, teorizzava un bel romanzo di Carlo Castellaneta.

Anche il razionalismo amato dai suoi più sapienti architetti, tra gli anni Venti del Novecento e il dinamico, intraprendente dopoguerra (ricordati in un recente, appassionante libro di Gianni Biondillo, “Quello che noi non siamo”, Guanda: Giuseppe Terragni, Giuseppe Pogatschnig Pagano, Piero Bottoni, Franco Albini, Luigi Figini, Gino Pollini, Edoardo Persico, oltre ai giovani di BBPR e cioè Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, progettisti della Torre Velasca e tanto stimolanti da contagiare anche i loro maestri Gio Ponti e Piero Portaluppi) ha innestato nell’anima della città l’idea del “potere germinale della bellezza” per “creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, creare un’arte nuova” e dunque per un’idea di bellezza lineare, democratica, tipica di città accoglienti e inclusive. Quell’eredità estetica ed etica, oggi, è da da rivalutare. Anche per evitare il degrado d’una metropoli che si abitua ai ritmi effimeri e fragili dei city users e rilanciare invece qualità e virtù dell’essere cives, il potere futuribile e sostenibile dei cittadini.

Si torna, così, al valore della conoscenza e a quelle strutture, le università, che investono e continuano a dare alla “grande Milano” idee ed energie per fornire strumenti adatti a progettare scelte e riforme utili a quel “cambio di paradigma” economico e sociale adatto alla ricomposizione di equilibri geopolitici europei e mediterranei.

Sono idee che ricorrono nelle scelte formative e civili del Politecnico e della Bocconi, della Cattolica e della Bicocca, dello Iulm e dell’Humanitas, che proprio in queste settimane celebra il decimo anno di attività, ha il 40% di provenienze internazionali tra i suoi 2.700 studenti e nel nuovo Innovantion Building ospita le attività di MedTech, corsi di medicina e ingegneria in collaborazione con il Politecnico, per sperimentare ricerche e scelte di formazione su nanotecnologie, Artificial Intelligence, biomedicina e utilizzo dei big data per tutte le “scienze della vita”.

Notizie rilevanti, proprio in questa direzione, di cultura multidisciplinare e di formazione come leva di sviluppo, arrivano anche dall’Università Statale, con la posa della prima pietra degli edifici che dal 2026 ospiteranno le facoltà scientifiche, nello spazio di Mind (Milano Innovation District) nell’area ex Expo: 120 milioni di investimento, per una popolazione di 23mila persone tra studenti, professori, ricercatori e tecnici e un ambizioso progetto di Campus ricerca di piattaforme tecnologiche d’avanguardia collegate alle attività delle aziende high tech dell’area.

Il nuovo campus dell’Università Statale è stato affidato alla progettazione di Carlo Ratti, architetto e professore al Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, uno dei più autorevoli studiosi internazionali delle smart cities.

Spiega Ratti (Il Sole24Ore, 17 ottobre): “Incontrarsi in un campus è fondamentale per innovare e creare conoscenza. Le grandi scoperte, nel bene e nel male, avvengono quando un gruppo di persone, unite da una vocazione, si ritrovano insieme, nello spazio fisico. È una logica antica, che nei secoli ha ispirato l’acropoli ateniese, i monasteri e le università dell’Europa medioevale o i collegi da Oxford e Cambridge a Pavia. Luoghi e ambienti che favoriscono gli incontri”.

Nel campus dell’Università Statale di Milano a Mind, “la prossimità con il distretto dell’innovazione potrà diventare uno dei motori dell’innovazione urbana nella capitale lombarda”.

Insiste Ratti: “La nostra visione architettonica per il campus cerca di rispondere a questi criteri. Un luogo capace di prediligere la logica dell’incontro, tra persone e persone e tra diverse discipline accademiche. Un campus del learning by doing, per dirla con John Dewey, ovvero dell’ apprendere facendo. Da qui, il principio che in urbanistica chiamiamo Common Ground: uno spazio pubblico ininterrotto, aperto a tutti, che si snoda attraverso il quartiere, tramite passerelle, chiostri e un sistema di corti”.

Rieccola, dunque, Milano città aperta, colta e inclusiva. Non più solo the place to be. Ma una metropoli per lavorare, vivere, intraprendere. Insomma, crescere bene.

(foto Getty Images)

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