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Milano è la principale città universitaria italiana: un primato che chiede case, servizi e buona politica

Milano, ai tanti primati (l’economia, il lavoro, la cultura dei grandi teatri e musei, l’editoria, la sanità efficiente, la moda e il design) ne aggiunge un altro: è la principale città universitaria italiana, con i 211mila studenti iscritti, un terzo dei quali arriva dalle altre regioni italiane e l’11% è straniero. Città attrattiva, dunque. Non solo per capitali, imprese e idee. Ma anche per ragazze e ragazzi intraprendenti, in cerca di migliori occasioni di conoscenza, professione e vita.
Vita? Ecco, qui si svela un primo nodo critico. Ci sono ancora migliori occasioni di vita a Milano? E la città attrattiva è davvero anche inclusiva?
Lo è sempre stata, accogliente e solidale, partendo dall’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano nel 1018 (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”) e arrivando agli anni Ottanta del Novecento con l’epopea positiva della “Milano da bere” (parafrasando una straordinaria campagna pubblicitaria di Marco Mignani per l’Amaro Ramazzotti, vitalità frenetica e sofisticata eleganza, con buon senso civile). Ma adesso, come testimoniano le riflessioni critiche e autocritiche in corso sui giornali di carta (compreso l’ultimo, bellissimo numero di “Città”, appena pubblicato e presentato al Teatro Franco Parenti) e sui media digitali, cresce un disagio diffuso per l’amplificarsi dei divari sociali, per il contrasto tra le tendenze al lusso più clamoroso (i valori immobiliari in impetuosa crescita, il costo della vita, i consumi vistosi) e le difficoltà che colpiscono non solo gli strati sociali più popolari ma anche i ceti medi.

“Qui Milano, la città del lusso: studenti in tenda e le suite nell’ex seminario. E i nuovi poveri fuggono”, titola il “Corriere della Sera” (26 maggio), raccontando prezzi e vezzi di un super hotel in corso Venezia, sorto là dove c’era un austero luogo di studio dell’Arcivescovado.
Ecco, “gli studenti in tenda”, per tornare ai primati e alle contraddizioni della città universitaria da cui siamo partiti. In tenda, davanti al Politecnico, per protestare contro il caro-affitti e le faticose condizioni di vita di chi viene a Milano per studiare e dunque, nella relazione tra Milano, l’Italia e il mondo, può fare da motore di sviluppo. Sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, se oltre alla cultura universitaria di qualità, gli studenti potranno fare tesoro della tradizione milanese che ha sempre saputo tenere insieme produttività e responsabilità civile, competitività e solidarietà. Un processo oggi in crisi.
C’è un problema di orizzonti e contenuti formativi (opportunamente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando la figura di don Milani nel centesimo anniversario della sua nascita, ha insistito sui temi della qualità della scuola, come strumento di conoscenza e formazione al bene comune e alla responsabilità della cittadinanza). E c’è un problema di numeri: troppo pochi laureati in Italia, troppi “neet” (ragazzi che non studiano e non lavorano) molti analfabeti di ritorno e diplomati incapaci, appena usciti dalla scuola superiore, di comprendere un testo e fare operazioni matematiche di medio livello (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E dunque, in questo contesto, la protesta degli studenti di Milano e le voci critiche sul futuro della formazione, proprio nella città capitale per gli studi universitari, impongono una riflessione che non ha affatto dimensioni locali ma investe tutti il sistema Paese.

Ma guardiamo meglio i dati sulla Milano universitaria, raccolti ed elaborati dal Mheo (Milan Higher Education Observatory), nato all’Università Statale in collaborazione con il Consorzio Universitario Cineca e la Deloitte e fa parte di Musa, l’ecosistema dell’Innovazione all’interno della Missione Istruzione e Ricerca del Pnrr (che proprio sulla scuola dovrebbe fare raggiungere all’Italia obiettivi ambiziosi di riforma ed efficacia della formazione).
Con l’autorevolezza di una banca dati ben aggiornata (gli ultimi dati fanno riferimento al 2022), il Mheo documenta come in Lombardia ci siano 65 istituzioni di formazione terziaria (come in tutto il Portogallo), con 15 università (8 a Milano), 15 Agam (gli Istituti di alta formazione artistica e musicale, come l’Accademia di Brera e il Conservatorio) e 24 Its Academy (gli Istituti Tecnici Superiori, in grande espansione, anche per iniziativa di Fondazioni nate dal mondo delle imprese, in cerca di persone di qualità e robusta formazione tecnico-scientifica).
Sempre i dati del Mheo dicono che i 211mila studenti “milanesi” sono il 12,1% di tutti gli universitari italiani del triennio (cui c’è da aggiungere il 6,8% degli altri lombardi) e il 14,7% degli iscritti alle lauree magistrali. Le prime quattro università per immatricolati sono Statale, Politecnico e Cattolica. E la quarta è telematica, eCampus, rivelando una tendenza alla crescita della “formazione a distanza di cui bisognerà tenere sempre più conto (il lock down durante l’epidemia da Covid19 ha fatto da acceleratore).

C’è ancora un dato su cui riflettere: solo un corso di studi su quattro, a Milano, è ad accesso libero. Gli altri sono tutti a numero chiuso. Segno di una difficoltà degli atenei e delle altre accademie di rispondere positivamente alle tante domande di formazione che arrivano sia dall’Italia che dal resto del mondo (le università più ricercate sono il Politecnico e la Bocconi).
Ecco dunque il tema posto dai dati e dalle proteste studentesche: come e con quali servizi fare fronte a un’attrattività che è fonte di ricchezza sociale, culturale e civile ma che nel tempo può diventare un boomerang, caratterizzando Milano come spazio da city users, in cui formarsi ma da cui fuggire.
L’obiettivo, dunque, è ridarle solidità, radici robuste e profonde di cultura riformista e industriale, seguendo la lezione, cara alle imprese migliori e alle tradizioni di una borghesia produttiva con forte spirito civico, d’un “umanesimo industriale” che oggi si declina anche in “umanesimo digitale”. Fermando o limitando, per come si può, la deriva dell’esasperazione degli “eventi” che trasformano Milano in “una grande vetrina, una gigantesca performance” (la critica è del sociologo Giampaolo Nuvolati, “la Repubblica”, 28 maggio).

La sfida è dunque culturale, politica e sociale. Di riqualificazione urbanistica (usando bene le opportunità offerte dalle grandi aree un tempo industriali e in via di riqualificazione e dal ridisegno e dal rilancio dei sette grandi ex scali ferroviari). Di politiche abitative (contrastando o comunque limitando gli “affitti brevi” per il turismo “mordi e fuggi”, come peraltro già succede positivamente a Parigi e Berlino). Di strutture per la mobilità. E di servizi. Rendendo Milano, anche per i suoi studenti, vivibile, accessibile, stimolante. Accogliente. Attrattiva e inclusiva, appunto.
Il futuro, come ben sappiamo, sta nelle prospettive dell’economia della conoscenza. E tutta l’industria italiana è ben orientata in questa direzione. Milano prima città universitaria del Paese non può sprecare l’occasione di esserne un buon motore, in un virtuoso sistema di relazioni con altri atenei, italiani ed europei.

(foto Getty Images)

Milano, ai tanti primati (l’economia, il lavoro, la cultura dei grandi teatri e musei, l’editoria, la sanità efficiente, la moda e il design) ne aggiunge un altro: è la principale città universitaria italiana, con i 211mila studenti iscritti, un terzo dei quali arriva dalle altre regioni italiane e l’11% è straniero. Città attrattiva, dunque. Non solo per capitali, imprese e idee. Ma anche per ragazze e ragazzi intraprendenti, in cerca di migliori occasioni di conoscenza, professione e vita.
Vita? Ecco, qui si svela un primo nodo critico. Ci sono ancora migliori occasioni di vita a Milano? E la città attrattiva è davvero anche inclusiva?
Lo è sempre stata, accogliente e solidale, partendo dall’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano nel 1018 (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”) e arrivando agli anni Ottanta del Novecento con l’epopea positiva della “Milano da bere” (parafrasando una straordinaria campagna pubblicitaria di Marco Mignani per l’Amaro Ramazzotti, vitalità frenetica e sofisticata eleganza, con buon senso civile). Ma adesso, come testimoniano le riflessioni critiche e autocritiche in corso sui giornali di carta (compreso l’ultimo, bellissimo numero di “Città”, appena pubblicato e presentato al Teatro Franco Parenti) e sui media digitali, cresce un disagio diffuso per l’amplificarsi dei divari sociali, per il contrasto tra le tendenze al lusso più clamoroso (i valori immobiliari in impetuosa crescita, il costo della vita, i consumi vistosi) e le difficoltà che colpiscono non solo gli strati sociali più popolari ma anche i ceti medi.

“Qui Milano, la città del lusso: studenti in tenda e le suite nell’ex seminario. E i nuovi poveri fuggono”, titola il “Corriere della Sera” (26 maggio), raccontando prezzi e vezzi di un super hotel in corso Venezia, sorto là dove c’era un austero luogo di studio dell’Arcivescovado.
Ecco, “gli studenti in tenda”, per tornare ai primati e alle contraddizioni della città universitaria da cui siamo partiti. In tenda, davanti al Politecnico, per protestare contro il caro-affitti e le faticose condizioni di vita di chi viene a Milano per studiare e dunque, nella relazione tra Milano, l’Italia e il mondo, può fare da motore di sviluppo. Sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, se oltre alla cultura universitaria di qualità, gli studenti potranno fare tesoro della tradizione milanese che ha sempre saputo tenere insieme produttività e responsabilità civile, competitività e solidarietà. Un processo oggi in crisi.
C’è un problema di orizzonti e contenuti formativi (opportunamente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando la figura di don Milani nel centesimo anniversario della sua nascita, ha insistito sui temi della qualità della scuola, come strumento di conoscenza e formazione al bene comune e alla responsabilità della cittadinanza). E c’è un problema di numeri: troppo pochi laureati in Italia, troppi “neet” (ragazzi che non studiano e non lavorano) molti analfabeti di ritorno e diplomati incapaci, appena usciti dalla scuola superiore, di comprendere un testo e fare operazioni matematiche di medio livello (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E dunque, in questo contesto, la protesta degli studenti di Milano e le voci critiche sul futuro della formazione, proprio nella città capitale per gli studi universitari, impongono una riflessione che non ha affatto dimensioni locali ma investe tutti il sistema Paese.

Ma guardiamo meglio i dati sulla Milano universitaria, raccolti ed elaborati dal Mheo (Milan Higher Education Observatory), nato all’Università Statale in collaborazione con il Consorzio Universitario Cineca e la Deloitte e fa parte di Musa, l’ecosistema dell’Innovazione all’interno della Missione Istruzione e Ricerca del Pnrr (che proprio sulla scuola dovrebbe fare raggiungere all’Italia obiettivi ambiziosi di riforma ed efficacia della formazione).
Con l’autorevolezza di una banca dati ben aggiornata (gli ultimi dati fanno riferimento al 2022), il Mheo documenta come in Lombardia ci siano 65 istituzioni di formazione terziaria (come in tutto il Portogallo), con 15 università (8 a Milano), 15 Agam (gli Istituti di alta formazione artistica e musicale, come l’Accademia di Brera e il Conservatorio) e 24 Its Academy (gli Istituti Tecnici Superiori, in grande espansione, anche per iniziativa di Fondazioni nate dal mondo delle imprese, in cerca di persone di qualità e robusta formazione tecnico-scientifica).
Sempre i dati del Mheo dicono che i 211mila studenti “milanesi” sono il 12,1% di tutti gli universitari italiani del triennio (cui c’è da aggiungere il 6,8% degli altri lombardi) e il 14,7% degli iscritti alle lauree magistrali. Le prime quattro università per immatricolati sono Statale, Politecnico e Cattolica. E la quarta è telematica, eCampus, rivelando una tendenza alla crescita della “formazione a distanza di cui bisognerà tenere sempre più conto (il lock down durante l’epidemia da Covid19 ha fatto da acceleratore).

C’è ancora un dato su cui riflettere: solo un corso di studi su quattro, a Milano, è ad accesso libero. Gli altri sono tutti a numero chiuso. Segno di una difficoltà degli atenei e delle altre accademie di rispondere positivamente alle tante domande di formazione che arrivano sia dall’Italia che dal resto del mondo (le università più ricercate sono il Politecnico e la Bocconi).
Ecco dunque il tema posto dai dati e dalle proteste studentesche: come e con quali servizi fare fronte a un’attrattività che è fonte di ricchezza sociale, culturale e civile ma che nel tempo può diventare un boomerang, caratterizzando Milano come spazio da city users, in cui formarsi ma da cui fuggire.
L’obiettivo, dunque, è ridarle solidità, radici robuste e profonde di cultura riformista e industriale, seguendo la lezione, cara alle imprese migliori e alle tradizioni di una borghesia produttiva con forte spirito civico, d’un “umanesimo industriale” che oggi si declina anche in “umanesimo digitale”. Fermando o limitando, per come si può, la deriva dell’esasperazione degli “eventi” che trasformano Milano in “una grande vetrina, una gigantesca performance” (la critica è del sociologo Giampaolo Nuvolati, “la Repubblica”, 28 maggio).

La sfida è dunque culturale, politica e sociale. Di riqualificazione urbanistica (usando bene le opportunità offerte dalle grandi aree un tempo industriali e in via di riqualificazione e dal ridisegno e dal rilancio dei sette grandi ex scali ferroviari). Di politiche abitative (contrastando o comunque limitando gli “affitti brevi” per il turismo “mordi e fuggi”, come peraltro già succede positivamente a Parigi e Berlino). Di strutture per la mobilità. E di servizi. Rendendo Milano, anche per i suoi studenti, vivibile, accessibile, stimolante. Accogliente. Attrattiva e inclusiva, appunto.
Il futuro, come ben sappiamo, sta nelle prospettive dell’economia della conoscenza. E tutta l’industria italiana è ben orientata in questa direzione. Milano prima città universitaria del Paese non può sprecare l’occasione di esserne un buon motore, in un virtuoso sistema di relazioni con altri atenei, italiani ed europei.

(foto Getty Images)

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