Milano e la sua cultura d’impresa, come definirne e raccontarne l’identità?
Quale cultura d’impresa serve, per Milano? E quali simboli valorizzare, per parlare della città? “Essere stati è una condizione per essere”, ha insegnato Fernand Braudel, storico tra i maggiori del Novecento. Memoria e futuro, dunque, radici e innovazione. “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”, ha scritto Ernesto De Martino, grande etnologo. Le radici, ancora. E lo sguardo aperto verso il mondo. Giocando a sfogliare pagine di buoni libri, ecco un paio di suggerimenti utili per chi, proprio in epoche di grandi trasformazioni, di globalizzazione, di radicali cambiamenti delle categorie di tempo e spazio, si pone la domanda dell’identità.
Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di Milano? Alla Carver, la questione sta al centro del dibattito sollevato da un bel libro, “Citytelling – Raccontare identità urbane. Il caso Milano”. L’ha scritto Stefano Rolando, milanese con lunga esperienza romana, uomo di sofisticata cultura dell’amministrazione pubblica e della comunicazione istituzionale. L’ha pubblicato Egea, la casa editrice dell’università Bocconi. E se ne è discusso a lungo a metà della scorsa settimana, alla Triennale. Aria molto milanese, dunque. E ambizioni generali, nella consapevolezza diffusa che parlare di Milano non significhi affatto coltivare l’amarcord del borgo (della città chiusa, cioè, nella cerchia delle “mura spagnole”) ma trovare chiavi di lettura e, naturalmente, d’azione, con l’occhio attento alla metropoli, al territorio ampio che tocca Torino e Genova, Brescia e Verona, e giù sino a Bologna e che soprattutto guarda a tutto il sistema Paese. “Far volare Milano per far volare l’Italia”, sostiene appunto Assolombarda come slogan di sintesi dei suoi 50 progetti di sviluppo.
Che cultura? Quella del “fare, e fare bene”, sapienza d’una manifattura “medium tech” forte d’una innovazione adattativa che modifica e rende più competitivi processi produttivi e prodotti. Quella della ricerca, con punte d’eccellenza nelle “life sciences”. Quella della formazione, tipica d’una città universitaria con 180mila studenti, 13mila dei quali stranieri, attratti non solo dalla “qualità della vita” ma anche dall’eccellenza dei processi culturali della metropoli più internazionale d’Italia. Milano, insomma, come città d’impresa che costruisce un ruolo e un’identità come “hub della conoscenza”, il vero vantaggio competitivo. Tratti, questi, che non esauriscono, naturalmente, né l’identità né la “narrazione” di Milano. Ma ne sono comunque elementi di forte connotazione.
E i simboli? Il Duomo, innanzitutto, che segna la forza della centralità della piazza, spazio pubblico aperto, ricettivo, accogliente (come Milano è sempre stata, nella sua storia), ma anche l’ambizione dello sguardo verso l’alto, un’altra costante (“la città che sale” cara ai futuristi, segno non provinciale d’avanguardia, d’innovazione di ricerca e linguaggi). Simbolo sacro, d’una religiosità originale. Ma anche emblema laico d’una comunità impegnata, battagliera. Simbolo, ancora, d’attivismo: la “fabbrica del Duomo” in cui non si smette mai di lavorare.
Regge, il Duomo, come simbolo storico. Reggerà, la sfida del futuro? Il dibattito è aperto.
Quale cultura d’impresa serve, per Milano? E quali simboli valorizzare, per parlare della città? “Essere stati è una condizione per essere”, ha insegnato Fernand Braudel, storico tra i maggiori del Novecento. Memoria e futuro, dunque, radici e innovazione. “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”, ha scritto Ernesto De Martino, grande etnologo. Le radici, ancora. E lo sguardo aperto verso il mondo. Giocando a sfogliare pagine di buoni libri, ecco un paio di suggerimenti utili per chi, proprio in epoche di grandi trasformazioni, di globalizzazione, di radicali cambiamenti delle categorie di tempo e spazio, si pone la domanda dell’identità.
Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di Milano? Alla Carver, la questione sta al centro del dibattito sollevato da un bel libro, “Citytelling – Raccontare identità urbane. Il caso Milano”. L’ha scritto Stefano Rolando, milanese con lunga esperienza romana, uomo di sofisticata cultura dell’amministrazione pubblica e della comunicazione istituzionale. L’ha pubblicato Egea, la casa editrice dell’università Bocconi. E se ne è discusso a lungo a metà della scorsa settimana, alla Triennale. Aria molto milanese, dunque. E ambizioni generali, nella consapevolezza diffusa che parlare di Milano non significhi affatto coltivare l’amarcord del borgo (della città chiusa, cioè, nella cerchia delle “mura spagnole”) ma trovare chiavi di lettura e, naturalmente, d’azione, con l’occhio attento alla metropoli, al territorio ampio che tocca Torino e Genova, Brescia e Verona, e giù sino a Bologna e che soprattutto guarda a tutto il sistema Paese. “Far volare Milano per far volare l’Italia”, sostiene appunto Assolombarda come slogan di sintesi dei suoi 50 progetti di sviluppo.
Che cultura? Quella del “fare, e fare bene”, sapienza d’una manifattura “medium tech” forte d’una innovazione adattativa che modifica e rende più competitivi processi produttivi e prodotti. Quella della ricerca, con punte d’eccellenza nelle “life sciences”. Quella della formazione, tipica d’una città universitaria con 180mila studenti, 13mila dei quali stranieri, attratti non solo dalla “qualità della vita” ma anche dall’eccellenza dei processi culturali della metropoli più internazionale d’Italia. Milano, insomma, come città d’impresa che costruisce un ruolo e un’identità come “hub della conoscenza”, il vero vantaggio competitivo. Tratti, questi, che non esauriscono, naturalmente, né l’identità né la “narrazione” di Milano. Ma ne sono comunque elementi di forte connotazione.
E i simboli? Il Duomo, innanzitutto, che segna la forza della centralità della piazza, spazio pubblico aperto, ricettivo, accogliente (come Milano è sempre stata, nella sua storia), ma anche l’ambizione dello sguardo verso l’alto, un’altra costante (“la città che sale” cara ai futuristi, segno non provinciale d’avanguardia, d’innovazione di ricerca e linguaggi). Simbolo sacro, d’una religiosità originale. Ma anche emblema laico d’una comunità impegnata, battagliera. Simbolo, ancora, d’attivismo: la “fabbrica del Duomo” in cui non si smette mai di lavorare.
Regge, il Duomo, come simbolo storico. Reggerà, la sfida del futuro? Il dibattito è aperto.