Milano e le architetture: storia e futuro di cultura politecnica e buone imprese
Il cemento. L’acciaio. E il vetro. La città contemporanea è tutta un fiorire di palazzi di vetro e cemento. “Là dove c’era l’erba ora c’è una città”, cantava giusto mezzo secolo fa Adriano Celentano, rimpiangendo e celebrando “il ragazzo della via Gluck”, nord milanese allora di fabbriche, magazzini e nuovi condomini popolari (e ci si va in pellegrinaggio, adesso, sui luoghi “dove nacque il rock a Milano”, nostalgia canaglia). Ma a guardare bene le cose, il racconto dell’equivalenza tra crescita urbana e cemento è sbagliato o quanto meno parziale. La città è vita, incontri, conflitto, trasformazione. Innovazione. E pur in stagioni di critica alla “ideologia del Progresso” centrale nella filosofia della storia di Ottocento e Novecento, proprio sulle città si giocano le sfide d’un futuro migliore. Sulle città e le loro architetture. Grattacieli compresi. Come a Milano.
Le costruzioni, dunque, vanno realizzate in sintonia con l’ambiente (era una delle idee civili e morali più sentite da Claudio De Albertis, imprenditore e uomo di sofisticata cultura, presidente dei costruttori ma anche della Triennale, di recente scomparso e di cui conservare memoria grata).
L’ambiente, dunque. Ecco, proprio qui, a Milano, al Parco delle Cave (tra i palazzi di viale delle Forze Armate), sono ricomparse le lucciole, considerate in via di estinzione per colpa dell’inquinamento e alcune migliaia di persone, ragazzi, soprattutto, fanno la fila in silenzio per andare a vederle (“la Repubblica”, 10 giugno). E così, messe da parte le memorie delle malinconie pasoliniane sulla “scomparsa delle lucciole” denunciata sulla prima pagina del Corriere della Sera di decenni fa (ma resta comunque vivo il senso di quelle polemiche, sui limiti dell’inciviltà d’una urbanizzazione schiacciata solo sui consumi), si può provare a riflettere sulla forma che man mano vanno assumendo le nostre città e sulle responsabilità, nella loro crescita, di urbanisti e architetti ma anche di personalità d’una “cultura politecnica” che proprio a Milano vanta eccellenze storiche e contemporanee, di politici e di donne e uomini d’impresa. Una Milano in cerca attiva di nuovi e migliori equilibri, tra simboli di solida cultura (La Scala, dove l’Assolombarda ha deciso di celebrare la sua assemblea annuale, lunedì scorso, dopo anni di celebrazioni in fabbriche trasformate) e aree, appunto, d’innovazione, spazi che diventano luoghi, quartieri che cambiano forme e funzioni.
“Milano e l’architettura, una macchina del tempo contemporaneo e futuro”, sostiene Stefano Boeri, architetto milanese di respiro internazionale, presentando la “Milano ArchWeek” che Politecnico, Comune e Triennale hanno organizzato, da lunedì 12 a domenica 18 (“Il Foglio”, 8 giugno), con la partecipazione (progetti e parole) di molti dei più importanti nomi dell’architettura del mondo. E insiste: “Milano può rilanciare di continuo la sua sfida: quella di una piccola metropoli di rara intensità che ha trovato e trova ancora oggi, nell’architettura, una sua straordinaria rappresentazione”.
Il “Bosco verticale” di Boeri, nell’area di Porta Nuova, accanto alla Torre Unicredit di César Pelli e alle altre costruzioni che hanno rilanciato una delle zone più critiche di Milano, ne è testimonianza. Così come “Lo Storto” di Zaha Hadid e le opere di Arata Isozaki e Daniel Libeskind a City Life o la Fondazione Prada progettata da Rem Koolhaas, per stare solo alle realizzazioni più recenti. O il grande edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen, un progetto degli irlandesi Grafton Architets (Shelley McNamara e Yvonne Farrell, le principali esponenti dello studio, sono state chiamate a fare da responsabili della prossima Biennale Architettura di Venezia, da maggio a novembre 2018). Milano architettura di valore internazionale, appunto.
C’è sempre stato, nella storia della città, un segno di grande respiro architettonico, la “città che sale” raffigurata da Umberto Boccioni (uno del quadri più belli e intensi del Novecento europeo) aveva messo anima in ambiziose costruzioni, in grandi progetti urbanistici. Muzio e Portaluppi, Stacchini e Caccia Dominioni, il Grattacielo Pirelli di Giò Ponti e la Torre Velasca di BBPR per dare corpo al dinamismo ottimista del boom economico anni Sessanta. E via via continuando, sino alle trasformazioni della Bicocca da area industriale Pirelli a quartiere post-industriale di servizi, ricerca, formazione universitaria di qualità, su progetto di Vittorio Gregotti. Tempo in movimento che lascia tracce di sé.
E’ una relazione, tra crescita economica e architettura, che si ripete ancora adesso, mentre Milano si pensa e si costruisce metropoli di ambizioni internazionali e cerca identità originali tra manifatture, servizi, qualità della vita, creatività, nuove e migliori equilibri tra centri e periferie (anche nel senso di un’accoglienza e di una inclusione sociale che ha storia e forza d’attualità). L’area ex Expo, destinata a diventare luogo in cui si incrociano università, imprese innovative, centri di ricerca delle “life sciences“. L’Ortomercato da rinnovare radicalmente. Gli ex scali ferroviari da riqualificare, tanto per citare solo le principali tra le aree urbanizzate su cui si discute. E tutto un disegno da “smart city” da mettere a punto e realizzare, in una idea di Milano “città infinita” che, cuore di un grande Nord di respiro europeo e mediterraneo, sappia coniugare creatività e solidarietà, legalità (le mafie guardano voracemente a tutti i processi di costruzione e agli affari collegate e vanno mantenute alla larga, respinte) e competitività.
È un cantiere ambizioso, Milano. Un gran bel progetto.
Il cemento. L’acciaio. E il vetro. La città contemporanea è tutta un fiorire di palazzi di vetro e cemento. “Là dove c’era l’erba ora c’è una città”, cantava giusto mezzo secolo fa Adriano Celentano, rimpiangendo e celebrando “il ragazzo della via Gluck”, nord milanese allora di fabbriche, magazzini e nuovi condomini popolari (e ci si va in pellegrinaggio, adesso, sui luoghi “dove nacque il rock a Milano”, nostalgia canaglia). Ma a guardare bene le cose, il racconto dell’equivalenza tra crescita urbana e cemento è sbagliato o quanto meno parziale. La città è vita, incontri, conflitto, trasformazione. Innovazione. E pur in stagioni di critica alla “ideologia del Progresso” centrale nella filosofia della storia di Ottocento e Novecento, proprio sulle città si giocano le sfide d’un futuro migliore. Sulle città e le loro architetture. Grattacieli compresi. Come a Milano.
Le costruzioni, dunque, vanno realizzate in sintonia con l’ambiente (era una delle idee civili e morali più sentite da Claudio De Albertis, imprenditore e uomo di sofisticata cultura, presidente dei costruttori ma anche della Triennale, di recente scomparso e di cui conservare memoria grata).
L’ambiente, dunque. Ecco, proprio qui, a Milano, al Parco delle Cave (tra i palazzi di viale delle Forze Armate), sono ricomparse le lucciole, considerate in via di estinzione per colpa dell’inquinamento e alcune migliaia di persone, ragazzi, soprattutto, fanno la fila in silenzio per andare a vederle (“la Repubblica”, 10 giugno). E così, messe da parte le memorie delle malinconie pasoliniane sulla “scomparsa delle lucciole” denunciata sulla prima pagina del Corriere della Sera di decenni fa (ma resta comunque vivo il senso di quelle polemiche, sui limiti dell’inciviltà d’una urbanizzazione schiacciata solo sui consumi), si può provare a riflettere sulla forma che man mano vanno assumendo le nostre città e sulle responsabilità, nella loro crescita, di urbanisti e architetti ma anche di personalità d’una “cultura politecnica” che proprio a Milano vanta eccellenze storiche e contemporanee, di politici e di donne e uomini d’impresa. Una Milano in cerca attiva di nuovi e migliori equilibri, tra simboli di solida cultura (La Scala, dove l’Assolombarda ha deciso di celebrare la sua assemblea annuale, lunedì scorso, dopo anni di celebrazioni in fabbriche trasformate) e aree, appunto, d’innovazione, spazi che diventano luoghi, quartieri che cambiano forme e funzioni.
“Milano e l’architettura, una macchina del tempo contemporaneo e futuro”, sostiene Stefano Boeri, architetto milanese di respiro internazionale, presentando la “Milano ArchWeek” che Politecnico, Comune e Triennale hanno organizzato, da lunedì 12 a domenica 18 (“Il Foglio”, 8 giugno), con la partecipazione (progetti e parole) di molti dei più importanti nomi dell’architettura del mondo. E insiste: “Milano può rilanciare di continuo la sua sfida: quella di una piccola metropoli di rara intensità che ha trovato e trova ancora oggi, nell’architettura, una sua straordinaria rappresentazione”.
Il “Bosco verticale” di Boeri, nell’area di Porta Nuova, accanto alla Torre Unicredit di César Pelli e alle altre costruzioni che hanno rilanciato una delle zone più critiche di Milano, ne è testimonianza. Così come “Lo Storto” di Zaha Hadid e le opere di Arata Isozaki e Daniel Libeskind a City Life o la Fondazione Prada progettata da Rem Koolhaas, per stare solo alle realizzazioni più recenti. O il grande edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen, un progetto degli irlandesi Grafton Architets (Shelley McNamara e Yvonne Farrell, le principali esponenti dello studio, sono state chiamate a fare da responsabili della prossima Biennale Architettura di Venezia, da maggio a novembre 2018). Milano architettura di valore internazionale, appunto.
C’è sempre stato, nella storia della città, un segno di grande respiro architettonico, la “città che sale” raffigurata da Umberto Boccioni (uno del quadri più belli e intensi del Novecento europeo) aveva messo anima in ambiziose costruzioni, in grandi progetti urbanistici. Muzio e Portaluppi, Stacchini e Caccia Dominioni, il Grattacielo Pirelli di Giò Ponti e la Torre Velasca di BBPR per dare corpo al dinamismo ottimista del boom economico anni Sessanta. E via via continuando, sino alle trasformazioni della Bicocca da area industriale Pirelli a quartiere post-industriale di servizi, ricerca, formazione universitaria di qualità, su progetto di Vittorio Gregotti. Tempo in movimento che lascia tracce di sé.
E’ una relazione, tra crescita economica e architettura, che si ripete ancora adesso, mentre Milano si pensa e si costruisce metropoli di ambizioni internazionali e cerca identità originali tra manifatture, servizi, qualità della vita, creatività, nuove e migliori equilibri tra centri e periferie (anche nel senso di un’accoglienza e di una inclusione sociale che ha storia e forza d’attualità). L’area ex Expo, destinata a diventare luogo in cui si incrociano università, imprese innovative, centri di ricerca delle “life sciences“. L’Ortomercato da rinnovare radicalmente. Gli ex scali ferroviari da riqualificare, tanto per citare solo le principali tra le aree urbanizzate su cui si discute. E tutto un disegno da “smart city” da mettere a punto e realizzare, in una idea di Milano “città infinita” che, cuore di un grande Nord di respiro europeo e mediterraneo, sappia coniugare creatività e solidarietà, legalità (le mafie guardano voracemente a tutti i processi di costruzione e agli affari collegate e vanno mantenute alla larga, respinte) e competitività.
È un cantiere ambizioso, Milano. Un gran bel progetto.