Milano in immagini,
tra memoria delle macerie e deserto della pandemia
per raccontare che la città sa comunque lavorare
per ricostruzione e ripresa
“Ma noi ricostruiremo”. E’ il maggio del 1945, poche settimane appena dopo la Liberazione. E il sindaco di Milano, Antonio Greppi, socialista, fascia tricolore attorno al corpo e sguardo sorridente e severo, come s’addice a un’autorità popolare nella democrazia appena ritrovata, guarda le macerie della città stravolta dalla guerra e prende un impegno, interpreta l’anima di una città ferita e semidistrutta ma tutt’altro che doma, indica un orizzonte. La ricostruzione, appunto. Appena un anno dopo, l’11 maggio del 1946, quella ricostruzione ha un simbolo: il Teatro alla Scala che riapre, con l’inaugurazione della nuova stagione. Era stato sventrato dal bombardamento nella notte tra il 15 e il 16 agosto del 1943. Adesso è lì, splendente di luci e velluti rossi, con Arturo Toscanini che torna sul podio, dopo l’esilio americano per protesta contro la violenza della dittatura fascista, per dirigere l’orchestra che esegue musiche di Verdi e Rossini. “Ma noi ricostruiremo”, appunto.
Quella frase di Greppi fa da titolo esemplare per una mostra inaugurata la scorsa settimana nella Sala delle Colonne delle Gallerie d’Italia, proprio in piazza della Scala: settanta fotografie, selezionate dall’immenso archivio di Publifoto, per raccontare la Milano distrutta dai bombardamenti anglo-americani del ’43 e, accanto, un’altra serie di scatti, del fotografo Daniele Ratti, che ha ripercorso pochi mesi fa proprio quei luoghi delle foto storiche (il Cenacolo, la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, Brera, Sant’Ambrogio, l’Università Statale, piazza Fontana) e li ha fissati in immagini di un’epoca altrettanto e pur diversamente dolorosa, quella della pandemia da Covid 19. La Milano ferita dalla guerra, dolente ma comunque vitale e la Milano deserta e silenziosa del lock down. Le macerie di monumenti, chiese, case e palazzi. E il vuoto della paura contemporanea. Il filo comune è la ricostruzione, la ripartenza. Dalle rovine della guerra, allora. Dalle fratture della malattia e della recessione oggi.
La mostra è curata da Mario Calabresi, che ha selezionato le foto tra le migliaia di fotogrammi presenti in un archivio che custodisce sette milioni di scatti ed è stato salvato dalla dispersione e dall’oblio da Intesa San Paolo, con una meritoria scelta culturale e civile. Rimarrà aperta al pubblico sino al 22 novembre. Se ne parlerà sicuramente a lungo.
Quella Milano del ’45 e della ricostruzione dà rapidamente prova di vitalità. Si riaprono innanzitutto le fabbriche, i luoghi del lavoro, della costruzione della ricchezza, ma anche del recupero della profonda dignità del “fare, e fare bene” che ha sempre caratterizzato, nel corso della storia, l’identità milanese. E ci si prepara alla ripresa che porterà rapidamente al boom economico, mettendo insieme industria, banche, commerci, università e cultura, proprio quella miscela originale di dinamismo che fa di Milano un “unicum” nel panorama nazionale: molta intraprendenza creativa, uno sguardo internazionale nell’Italia che si apre all’Europa, un’attitudine spiccata alla solidarietà e all’inclusione sociale (“Milanesi si diventa”, per usare l’efficace titolo di un bel romanzo di Carlo Castellaneta, nascita a Milano, famiglia di origini pugliesi) e un gusto speciale per la “cultura politecnica” (“Il Politecnico”, si chiama appunto il settimanale che Elio Vittorini lancia, all’indomani della liberazione, riprendendo il nome della testata cara a Carlo Cattaneo e cercando di tessere le fila di una “cultura utile” a interpretare, guidare e raccontare il cambiamento).
La vitalità di Milano ha rapidamente un simbolo visibile, che s’innalza nella piana della metropoli: il Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato giusto sessant’anni fa, come sede di una multinazionale con robuste radici milanesi e passato, poi, a ospitare gli uffici della Regione Lombardia. E’ un landmark essenziale, per raccontare bellezza architettonica e produttività, industria e cultura, metropoli internazionale e istituzioni locali che, negli anni Settanta dell’esordio delle regioni, aspirano al buon governo della partecipazione e della buona programmazione delle risorse. Un emblema della “città che sale” immaginata e dipinta nei primi anni del Novecento da un artista straordinario, Umberto Boccioni.
Oggi, i grattacieli, da Porta Nuova a City Life e alle altre aree in intensa trasformazione, sono una costante di Milano, metropoli che produce il 13% del Pil nazionale e il 13% dell’export, ospita nelle sue università 200mila studenti che arrivano da tutta Italia e, da tempo, da parecchi altri paesi del mondo e continua a crescere facendo leva sulle sintesi tra industria, finanza, servizi hi tech, ricerca, formazione, cultura e qualità della vita. Una metropoli aperta. E, contemporaneamente, una metropoli fragile: la pandemia ne mette ancora in evidenza problemi, squilibri, limiti.
Ecco perché vale la pena, di questa fragilità, prendere atto, impegnandosi soprattutto su come migliorare governo, equilibri sociali, competitività e sostenibilità. E, anche nel momento cupo e doloroso di una crisi sanitaria ed economica che continua a imperversare, progettare e porre le basi concrete di una ripartenza. Anche ricordando, con una bella mostra fotografica, la ricostruzione dalle macerie. Anche rimemorando il vuoto, il silenzio e la paura dei primi mesi del Covid19. E pensando, comunque, ogni giorno, che, oltre la crisi, oltre la malattia, il dolore, il disagio sociale, c’è qui una grande energia, da continuare a far vivere.
“Ma noi ricostruiremo”. E’ il maggio del 1945, poche settimane appena dopo la Liberazione. E il sindaco di Milano, Antonio Greppi, socialista, fascia tricolore attorno al corpo e sguardo sorridente e severo, come s’addice a un’autorità popolare nella democrazia appena ritrovata, guarda le macerie della città stravolta dalla guerra e prende un impegno, interpreta l’anima di una città ferita e semidistrutta ma tutt’altro che doma, indica un orizzonte. La ricostruzione, appunto. Appena un anno dopo, l’11 maggio del 1946, quella ricostruzione ha un simbolo: il Teatro alla Scala che riapre, con l’inaugurazione della nuova stagione. Era stato sventrato dal bombardamento nella notte tra il 15 e il 16 agosto del 1943. Adesso è lì, splendente di luci e velluti rossi, con Arturo Toscanini che torna sul podio, dopo l’esilio americano per protesta contro la violenza della dittatura fascista, per dirigere l’orchestra che esegue musiche di Verdi e Rossini. “Ma noi ricostruiremo”, appunto.
Quella frase di Greppi fa da titolo esemplare per una mostra inaugurata la scorsa settimana nella Sala delle Colonne delle Gallerie d’Italia, proprio in piazza della Scala: settanta fotografie, selezionate dall’immenso archivio di Publifoto, per raccontare la Milano distrutta dai bombardamenti anglo-americani del ’43 e, accanto, un’altra serie di scatti, del fotografo Daniele Ratti, che ha ripercorso pochi mesi fa proprio quei luoghi delle foto storiche (il Cenacolo, la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, Brera, Sant’Ambrogio, l’Università Statale, piazza Fontana) e li ha fissati in immagini di un’epoca altrettanto e pur diversamente dolorosa, quella della pandemia da Covid 19. La Milano ferita dalla guerra, dolente ma comunque vitale e la Milano deserta e silenziosa del lock down. Le macerie di monumenti, chiese, case e palazzi. E il vuoto della paura contemporanea. Il filo comune è la ricostruzione, la ripartenza. Dalle rovine della guerra, allora. Dalle fratture della malattia e della recessione oggi.
La mostra è curata da Mario Calabresi, che ha selezionato le foto tra le migliaia di fotogrammi presenti in un archivio che custodisce sette milioni di scatti ed è stato salvato dalla dispersione e dall’oblio da Intesa San Paolo, con una meritoria scelta culturale e civile. Rimarrà aperta al pubblico sino al 22 novembre. Se ne parlerà sicuramente a lungo.
Quella Milano del ’45 e della ricostruzione dà rapidamente prova di vitalità. Si riaprono innanzitutto le fabbriche, i luoghi del lavoro, della costruzione della ricchezza, ma anche del recupero della profonda dignità del “fare, e fare bene” che ha sempre caratterizzato, nel corso della storia, l’identità milanese. E ci si prepara alla ripresa che porterà rapidamente al boom economico, mettendo insieme industria, banche, commerci, università e cultura, proprio quella miscela originale di dinamismo che fa di Milano un “unicum” nel panorama nazionale: molta intraprendenza creativa, uno sguardo internazionale nell’Italia che si apre all’Europa, un’attitudine spiccata alla solidarietà e all’inclusione sociale (“Milanesi si diventa”, per usare l’efficace titolo di un bel romanzo di Carlo Castellaneta, nascita a Milano, famiglia di origini pugliesi) e un gusto speciale per la “cultura politecnica” (“Il Politecnico”, si chiama appunto il settimanale che Elio Vittorini lancia, all’indomani della liberazione, riprendendo il nome della testata cara a Carlo Cattaneo e cercando di tessere le fila di una “cultura utile” a interpretare, guidare e raccontare il cambiamento).
La vitalità di Milano ha rapidamente un simbolo visibile, che s’innalza nella piana della metropoli: il Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato giusto sessant’anni fa, come sede di una multinazionale con robuste radici milanesi e passato, poi, a ospitare gli uffici della Regione Lombardia. E’ un landmark essenziale, per raccontare bellezza architettonica e produttività, industria e cultura, metropoli internazionale e istituzioni locali che, negli anni Settanta dell’esordio delle regioni, aspirano al buon governo della partecipazione e della buona programmazione delle risorse. Un emblema della “città che sale” immaginata e dipinta nei primi anni del Novecento da un artista straordinario, Umberto Boccioni.
Oggi, i grattacieli, da Porta Nuova a City Life e alle altre aree in intensa trasformazione, sono una costante di Milano, metropoli che produce il 13% del Pil nazionale e il 13% dell’export, ospita nelle sue università 200mila studenti che arrivano da tutta Italia e, da tempo, da parecchi altri paesi del mondo e continua a crescere facendo leva sulle sintesi tra industria, finanza, servizi hi tech, ricerca, formazione, cultura e qualità della vita. Una metropoli aperta. E, contemporaneamente, una metropoli fragile: la pandemia ne mette ancora in evidenza problemi, squilibri, limiti.
Ecco perché vale la pena, di questa fragilità, prendere atto, impegnandosi soprattutto su come migliorare governo, equilibri sociali, competitività e sostenibilità. E, anche nel momento cupo e doloroso di una crisi sanitaria ed economica che continua a imperversare, progettare e porre le basi concrete di una ripartenza. Anche ricordando, con una bella mostra fotografica, la ricostruzione dalle macerie. Anche rimemorando il vuoto, il silenzio e la paura dei primi mesi del Covid19. E pensando, comunque, ogni giorno, che, oltre la crisi, oltre la malattia, il dolore, il disagio sociale, c’è qui una grande energia, da continuare a far vivere.