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Milano ovvero la felicità, nella sintesi rilanciata tra intelligenza e ricchezza

Milano, ovvero della felicità? Viene in mente proprio questa parola, che abitualmente si pronuncia con cautela e una sorta di pudore, girando tra le centinaia di migliaia di persone che hanno animato la “Settimana del Mobile” (stranieri, moltissimi) e riempito gli stand del “Salone” alla Fiera di Rho-Pero (oltre 340mila) e il “Fuorisalone” (500mila), nei cortili degli antichi palazzi, nelle ex fabbriche trasformate in luoghi cult di arredi e luce, nei magazzini un tempo deserti sotto i binari della Stazione Centrale e negli spazi di Brera e Lambrate, Tortona e Montenapoleone. “La Woodstock del design”, sintetizza con un’immagine efficace Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, ricordando il luogo simbolo del grande rock mondiale degli ultimi anni Sessanta.

Felicità, in questa folla vivace, curiosa, creativa, internazionale? Ancora una volta Milano, all’inizio di aprile, si ritrova davvero felicemente a essere capitale mondiale d’un settore, l’arredamento di qualità, che sempre più ibrida progetto e prodotto, manifattura e servizi, eleganza artigiana d’antica esperienza e innovative competenze hi tech. E a confermare così l’intreccio originale tra memoria e futuro, radici orgogliose di “città aperta” (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”, secondo l’Editto del vescovo Ariberto nel 1018) e attualità digital. L’intelligenza del “fare, e fare bene”, somiglia dunque alla felicità?

La storia aiuta a capire. Vale la pena rileggere alcune righe di Carlo Cattaneo, intellettuale e politico di grande ingegno, nella Milano di metà Ottocento: “Non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima di ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza” (“Del pensiero come principio d’economia pubblica”, in “Scritti 1852-1864”). Intelligenza e sviluppo economico e civile. Sintesi molto milanese. Che ancora si conferma, come chiave d’un migliore futuro. Cultura, secondo Cattaneo, come “patrimonio attivo in grado di produrre ricchezza”. Cultura d’impresa. Cultura politecnica, appunto.

Si chiamava “Il Politecnico”, la rivista fondata da Cattaneo. E quella testata sarebbe stata ripresa nel settembre 1945, proprio all’indomani della fine della guerra, da Elio Vittorini, scrittore e straordinario organizzatore culturale, per ribadire l’importanza d’una cultura attiva e creativa e dell’autonomia della ricerca artistica e scientifica (gli intellettuali non devono “suonare il piffero per la rivoluzione”).

Sta allora nella cultura, nella libertà, nella creatività, la felicità di Milano? Ancora un passo nella storia. Nelle pagine di Pietro Verri, fondatore con il fratello Alessandro, Cesare Beccaria e altri originali intellettuali, della rivista “Il Caffè”, cardine della civiltà illuminista milanese e del “buon governo” (allora ispirato dal riformismo della corte di Vienna sotto l’imperatrice Maria Teresa e poi via via rilanciato): “Il fine dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società: il che si risolve nella felicità pubblica riportata con maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Dovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i diritti e i doveri d’ogni uomo sono chiari e sicuri”.

E’ il 1763, quando Verri mette in ordine questi concetti, cardini del miglior Illuminismo lombardo. L’ispirazione sta nelle pagine scritte quasi vent’anni prima, nel 1746, dall’abate Ferdinando Galiani, filosofo ed economista, uomo di punta del tentativo di rinnovamento alla corte dei Borbone a Napoli, l’intellettuale italiano più ben accetto nei salotti degli “enciclopedisti” di Parigi: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Il termine “felicità”, meglio declinata come “felicità civile” ricorre nel 1764 negli scritti di Antonio Genovesi, il padre dell’economia politica italiana. Virtù civica, interesse generale. Ci vorranno un paio di decenni perché il termine “felicità” compaia nella Costituzione degli Stati Uniti, nel 1787, declinato però in modo molto più individualista, come “diritto al perseguimento della felicità” e meno sociale, “civile”.

Erano degli straordinari anticipatori, insomma, gli Illuministi meridionali e lombardi. Lungo l’asse Napoli-Milano-Parigi-Vienna. Respiro internazionale.

Non ha mai rinunciato, Milano, a queste caratteristiche. Città innovativa. E inclusiva. Forte di quattro “capitali”: il capitale economico, quello scientifico e tecnologico, quello estetico (l’arte, la bellezza, il design) e il capitale sociale. Capace dunque d’attrarre talenti dal mondo, non solo per un grande evento come il “Salone del Mobile” ma soprattutto per studiare, ricercare, fare impresa, in relazioni reciprocamente feconde tra sfera pubblica e attori privati (se n’è a lungo parlato, giovedì 6 aprile, al Piccolo Teatro, per la rappresentazione organizzata da Assolombarda su “Milano, il Futuro”, con imprenditori e personalità delle istituzioni e della cultura: ne abbiamo scritto sul blog della scorsa settimana). E di pensarsi come metropoli di respiro e ambizione internazionale. Un recente studio della McKinsey sulle “Global cities of the future” mette nel 2015 Milano e Roma, tra le 75 “supercittà” del mondo. E prevede che la “grande Milano” (8 milioni di persone, una straordinaria capacità di produrre innovazione e lavoro qualificato, sostenibilità ambientale e sociale, qualità di vita e accoglienza) ci sarà anche nel 2025. Grazie al suo “brain power”. Proprio come diceva Cattaneo: intelligenza e ricchezza.

Milano, ovvero della felicità? Viene in mente proprio questa parola, che abitualmente si pronuncia con cautela e una sorta di pudore, girando tra le centinaia di migliaia di persone che hanno animato la “Settimana del Mobile” (stranieri, moltissimi) e riempito gli stand del “Salone” alla Fiera di Rho-Pero (oltre 340mila) e il “Fuorisalone” (500mila), nei cortili degli antichi palazzi, nelle ex fabbriche trasformate in luoghi cult di arredi e luce, nei magazzini un tempo deserti sotto i binari della Stazione Centrale e negli spazi di Brera e Lambrate, Tortona e Montenapoleone. “La Woodstock del design”, sintetizza con un’immagine efficace Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, ricordando il luogo simbolo del grande rock mondiale degli ultimi anni Sessanta.

Felicità, in questa folla vivace, curiosa, creativa, internazionale? Ancora una volta Milano, all’inizio di aprile, si ritrova davvero felicemente a essere capitale mondiale d’un settore, l’arredamento di qualità, che sempre più ibrida progetto e prodotto, manifattura e servizi, eleganza artigiana d’antica esperienza e innovative competenze hi tech. E a confermare così l’intreccio originale tra memoria e futuro, radici orgogliose di “città aperta” (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”, secondo l’Editto del vescovo Ariberto nel 1018) e attualità digital. L’intelligenza del “fare, e fare bene”, somiglia dunque alla felicità?

La storia aiuta a capire. Vale la pena rileggere alcune righe di Carlo Cattaneo, intellettuale e politico di grande ingegno, nella Milano di metà Ottocento: “Non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima di ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza” (“Del pensiero come principio d’economia pubblica”, in “Scritti 1852-1864”). Intelligenza e sviluppo economico e civile. Sintesi molto milanese. Che ancora si conferma, come chiave d’un migliore futuro. Cultura, secondo Cattaneo, come “patrimonio attivo in grado di produrre ricchezza”. Cultura d’impresa. Cultura politecnica, appunto.

Si chiamava “Il Politecnico”, la rivista fondata da Cattaneo. E quella testata sarebbe stata ripresa nel settembre 1945, proprio all’indomani della fine della guerra, da Elio Vittorini, scrittore e straordinario organizzatore culturale, per ribadire l’importanza d’una cultura attiva e creativa e dell’autonomia della ricerca artistica e scientifica (gli intellettuali non devono “suonare il piffero per la rivoluzione”).

Sta allora nella cultura, nella libertà, nella creatività, la felicità di Milano? Ancora un passo nella storia. Nelle pagine di Pietro Verri, fondatore con il fratello Alessandro, Cesare Beccaria e altri originali intellettuali, della rivista “Il Caffè”, cardine della civiltà illuminista milanese e del “buon governo” (allora ispirato dal riformismo della corte di Vienna sotto l’imperatrice Maria Teresa e poi via via rilanciato): “Il fine dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società: il che si risolve nella felicità pubblica riportata con maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Dovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i diritti e i doveri d’ogni uomo sono chiari e sicuri”.

E’ il 1763, quando Verri mette in ordine questi concetti, cardini del miglior Illuminismo lombardo. L’ispirazione sta nelle pagine scritte quasi vent’anni prima, nel 1746, dall’abate Ferdinando Galiani, filosofo ed economista, uomo di punta del tentativo di rinnovamento alla corte dei Borbone a Napoli, l’intellettuale italiano più ben accetto nei salotti degli “enciclopedisti” di Parigi: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Il termine “felicità”, meglio declinata come “felicità civile” ricorre nel 1764 negli scritti di Antonio Genovesi, il padre dell’economia politica italiana. Virtù civica, interesse generale. Ci vorranno un paio di decenni perché il termine “felicità” compaia nella Costituzione degli Stati Uniti, nel 1787, declinato però in modo molto più individualista, come “diritto al perseguimento della felicità” e meno sociale, “civile”.

Erano degli straordinari anticipatori, insomma, gli Illuministi meridionali e lombardi. Lungo l’asse Napoli-Milano-Parigi-Vienna. Respiro internazionale.

Non ha mai rinunciato, Milano, a queste caratteristiche. Città innovativa. E inclusiva. Forte di quattro “capitali”: il capitale economico, quello scientifico e tecnologico, quello estetico (l’arte, la bellezza, il design) e il capitale sociale. Capace dunque d’attrarre talenti dal mondo, non solo per un grande evento come il “Salone del Mobile” ma soprattutto per studiare, ricercare, fare impresa, in relazioni reciprocamente feconde tra sfera pubblica e attori privati (se n’è a lungo parlato, giovedì 6 aprile, al Piccolo Teatro, per la rappresentazione organizzata da Assolombarda su “Milano, il Futuro”, con imprenditori e personalità delle istituzioni e della cultura: ne abbiamo scritto sul blog della scorsa settimana). E di pensarsi come metropoli di respiro e ambizione internazionale. Un recente studio della McKinsey sulle “Global cities of the future” mette nel 2015 Milano e Roma, tra le 75 “supercittà” del mondo. E prevede che la “grande Milano” (8 milioni di persone, una straordinaria capacità di produrre innovazione e lavoro qualificato, sostenibilità ambientale e sociale, qualità di vita e accoglienza) ci sarà anche nel 2025. Grazie al suo “brain power”. Proprio come diceva Cattaneo: intelligenza e ricchezza.

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