“Moderno è ciò che è degno di diventare antico”, una sfida di sintesi tra cultura classica e scientifica
“Moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica”. Sta in questa bella definizione di Dino Gavina una delle chiavi per riflettere su tradizione e innovazione in Italia e dunque sugli intrecci tra saperi umanistici e cultura scientifica, fuori dalle tradizionali (ed errate) antinomie. Era un designer, Gavina (uno dei “maestri” degli anni 50 e 60, accanto a Munari e Mari, Ponti e Castiglioni). Dunque un uomo abituato a ragionare di cultura e imprese, forme e funzioni, parole e numeri, progetti e prodotti e a trovare, di conseguenza, sintesi originali tra il pensare e il fare, l’idea e la sua realizzazione. La sostanza, appunto, della buona manifattura. E della “cultura politecnica”, potremmo anche dire, con una frase cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. C’è un nesso molto stretto, dunque, tra “moderno” e “classico”, tra l’innovazione e le sue radici nella memoria storica, tra i valori di fondo dell’umanesimo e la scienza, che della modernità stessa è forza creativa. Un nesso da cogliere e alimentare. Il patrimonio storico e culturale è il nostro passato. La scienza e la creatività sono leve innovative per costruire quel che sarà patrimonio domani.
La frase e le sintesi di Gavina vengono in mente leggendo le riflessioni di Carlo Rovelli, fisico teorico, appena insignito del Premio Merck, su “Perché siamo il Paese dell’incultura scientifica” (su “la Repubblica” del 19 luglio). Un’analisi sulla scuola e i saperi e sul deficit culturale che si lega a una sottovalutazione dell’importanza della ricerca, sia quella “pura” sia quella “applicata”, declinata cioè in innovazione utile all’impresa e allo sviluppo dell’economia (una contrapposizione che proprio l’Italia ha talvolta pur saputo evitare, come dimostra la storia di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1954 e “padre” del polipropilene, conquista chiave dell’industria italiana, con il “moplen”). Dice dunque Rovelli di ritenere “che la scuola italiana sia tra le migliori del mondo… paradossalmente soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io… perché i giovani italiani hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole di élite di Parigi”. E ancora: “La capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale”. Quel che manca, invece, è “la scienza”: l’Italia “resta pericolosamente un Paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, sia forse con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo”. Le riprove dell’incultura: “La mancanza di scienza seria a scuola; l’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; la diffusa ignoranza di scienza nelle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora la stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza”.
E invece, “la cultura è la ricchezza e la complessità del sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a se stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra”. Ebbene, “l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato. E l’Italia arretra”.
Non è andata sempre così. Rovelli ricorda Galileo, “il frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano, uomo di musica e lettere, profondo conoscitore dell’antichità classica, di Aristotele e Platone… e l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima saputo immaginare”. Una figura da riprendere in considerazione: “Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello”, dice Rovelli. Che riscoprisse le qualità di matematico di Piero della Francesca e non solo le sue doti di grande pittore, potremmo aggiungere noi. Insomma, per concludere con Rovelli, ”mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica o culto sterile del proprio passato, che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona”.
“Moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica”. Sta in questa bella definizione di Dino Gavina una delle chiavi per riflettere su tradizione e innovazione in Italia e dunque sugli intrecci tra saperi umanistici e cultura scientifica, fuori dalle tradizionali (ed errate) antinomie. Era un designer, Gavina (uno dei “maestri” degli anni 50 e 60, accanto a Munari e Mari, Ponti e Castiglioni). Dunque un uomo abituato a ragionare di cultura e imprese, forme e funzioni, parole e numeri, progetti e prodotti e a trovare, di conseguenza, sintesi originali tra il pensare e il fare, l’idea e la sua realizzazione. La sostanza, appunto, della buona manifattura. E della “cultura politecnica”, potremmo anche dire, con una frase cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. C’è un nesso molto stretto, dunque, tra “moderno” e “classico”, tra l’innovazione e le sue radici nella memoria storica, tra i valori di fondo dell’umanesimo e la scienza, che della modernità stessa è forza creativa. Un nesso da cogliere e alimentare. Il patrimonio storico e culturale è il nostro passato. La scienza e la creatività sono leve innovative per costruire quel che sarà patrimonio domani.
La frase e le sintesi di Gavina vengono in mente leggendo le riflessioni di Carlo Rovelli, fisico teorico, appena insignito del Premio Merck, su “Perché siamo il Paese dell’incultura scientifica” (su “la Repubblica” del 19 luglio). Un’analisi sulla scuola e i saperi e sul deficit culturale che si lega a una sottovalutazione dell’importanza della ricerca, sia quella “pura” sia quella “applicata”, declinata cioè in innovazione utile all’impresa e allo sviluppo dell’economia (una contrapposizione che proprio l’Italia ha talvolta pur saputo evitare, come dimostra la storia di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1954 e “padre” del polipropilene, conquista chiave dell’industria italiana, con il “moplen”). Dice dunque Rovelli di ritenere “che la scuola italiana sia tra le migliori del mondo… paradossalmente soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io… perché i giovani italiani hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole di élite di Parigi”. E ancora: “La capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale”. Quel che manca, invece, è “la scienza”: l’Italia “resta pericolosamente un Paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, sia forse con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo”. Le riprove dell’incultura: “La mancanza di scienza seria a scuola; l’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; la diffusa ignoranza di scienza nelle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora la stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza”.
E invece, “la cultura è la ricchezza e la complessità del sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a se stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra”. Ebbene, “l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato. E l’Italia arretra”.
Non è andata sempre così. Rovelli ricorda Galileo, “il frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano, uomo di musica e lettere, profondo conoscitore dell’antichità classica, di Aristotele e Platone… e l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima saputo immaginare”. Una figura da riprendere in considerazione: “Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello”, dice Rovelli. Che riscoprisse le qualità di matematico di Piero della Francesca e non solo le sue doti di grande pittore, potremmo aggiungere noi. Insomma, per concludere con Rovelli, ”mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica o culto sterile del proprio passato, che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona”.