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O più Europa o niente futuro. E anche il Mes può essere cardine della politica industriale Ue

O c’è più Europa o non ci sarà futuro, amava dire Gianni Agnelli, leader storico dell’industria, radici profondamente italiane, convinte inclinazioni europeiste, forti legami americani. E oggi, a vent’anni dalla sua morte, vale la pena rimemorarne la lezione, proprio nel cuore di una stagione di drammatiche trasformazioni politiche e sociali e di straordinarie sfide economiche, per confermare che bisogna insistere sull’Europa, nonostante tutto. E guardare dunque verso l’orizzonte di una maggiore e migliore integrazione europea, per costruire sviluppo sostenibile a vantaggio della Next Generation Ue. Consapevoli come siamo che crescita economica, coesione sociale e difesa della democrazia liberale – il grande patrimonio europeo, appunto – hanno un futuro solo se strettamente intrecciati, in un sistema di valori e scelte politiche coraggiose.

“Più aiuti di Stato significa meno Europa. Più politica industriale comune vuol dire, invece, maggiore e migliore sviluppo”, sostengono concordi le imprese italiane riunite in Confindustria. Che, proprio sulla necessità di una risposta efficace ai venti di protezionismo che soffiano sul mondo (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e rischiano di deprimere i commerci internazionali e dunque la crescita, hanno avviato da tempo una iniziativa per coinvolgere anche le associazioni imprenditoriali di Francia e Germania e organizzare una pressione comune sulla Commissione Ue a Bruxelles in nome di una maggiore e migliore competitività di tutto il sistema delle imprese europee.

Ampliare le possibilità di rincorso agli aiuti di Stato, infatti, significherebbe aggravare le asimmetrie tra paesi e strutture d’impresa nazionali, considerando che già adesso più del 77% degli aiuti di Stato riguardano Germania e Francia. C’è il rischio, insomma, di frammentare il mercato interno Ue, di mettere in crisi il mercato unico. E di avvantaggiare solo le economie di quei paesi che hanno spazio di ampliamento del loro debito pubblico.

Meglio, invece, insistere sull’idea, cara per esempio alla Commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager, di un “fondo sovrano” che finanzi settori strategici a livello comunitario, limitando gli aiuti di Stato a “misure mirate”, dato che la difesa del mercato unico è “una linea rossa” da non varcare.

Un “fondo sovrano Ue”, dunque, come strumento da inserire nel contesto delle scelte di politica industriale che si stanne definendo a Bruxelles, con il contributo determinante del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e del Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni. Una politica industriale green, come chiarisce da tempo la presidente Ursula von der Leyen. Una scelta di sostenibilità ambientale e sociale come asse della politica che promuova la competitività di tutta l’economia europea. Se ne parlerà meglio nei vertici Ue ai primi di febbraio.

L’Europa, infatti, si trova nel cuore di un passaggio cruciale per l’economia globale. C’è una “globalizzazione da ripensare”, come suggerisce con insistenza, da tempo, “The Economist”. Ci sono da fronteggiare le chiusure della Cina, che privilegia il mercato interno e le insidiose scelte della Casa Bianca di Trump, che ha messo in moto investimenti pubblici per centinaia di miliardi di dollari con l’Ira (Inflation Reduction Act) e con il Chips and Science Act a sostegno dell’impresa Usa e di tutte le altre imprese internazionali che vorranno insediarsi negli Stati Uniti. E se va evitata, naturalmente, ogni guerra commerciale tra Europa e Usa (anche per gli effetti politici che comporterebbe, in un quadrato geopolitico di forti tensioni e allarmanti fratture), è necessario contemporaneamente difendere l’industria europea da rischi di crisi e declino, nella consapevolezza del nesso forte che lega mercato, libertà d’impresa, responsabilità sociale, benessere popolare e dunque lavoro, welfare e democrazia.

La politica industriale Ue assume così una valenza più generale. E va pensata nel contesto più generale della ridiscussione del Patto di Stabilità e di una promozione di un ruolo più incisivo dell’Europa nel Mediterraneo e verso l’Africa.

A giudizio di Confindustria potrebbe essere indirizzato in questa direzione anche il Mes (ne ha parlato nei giorni scorsi il presidente Carlo Bonomi durante un convegno a Venezia; “Il Sole24Ore”, 28 gennaio). E secondo indiscrezioni di buona fonte, anche a Palazzo Chigi si sta discutendo di un “via libera”, finalmente, alla ratifica del Mes nel quadro di un migliore utilizzo di tutti gli strumenti e le strutture europee, compresa la Bei, la Banca Europea degli Investimenti (“La Stampa”, 28 gennaio).

La chiave è sempre lo sviluppo. Verso cui indirizzare tutte le risorse disponibili, quelle che si possono raccogliere, come Ue, sui mercati finanziari internazionali e quelle, coordinate, dei vari Stati nazionali. Una risposta generale con uno spirito tutt’altro che protezionista. Una scelta neo-keynesiana sulla qualità degli investimenti pubblici.

Il cardine potrebbe essere una intesa tra Berlino, Parigi e Roma (come sostiene Giulio Tremonti, da presidente della Commissione Esteri del Senato; “Corriere della Sera”, 26 gennaio) per fare da motore della nuova politica industriale europea, attenta appunto a promuovere la competitività di sistema, l’innovazione tecnologica, la ricerca, la formazione, il rilancio dell’industria europea e dei servizi collegati. E dopo il “Recovery Plan”, un Fondo Ue per l’energia, le materie prime strategiche a partire dalle terre rare e i prodotti industriali di base come i microchip potrebbe essere uno strumento essenziale. Sicurezza, autonomia e sviluppo si tengono insieme.

(Immagine: Getty Images)

O c’è più Europa o non ci sarà futuro, amava dire Gianni Agnelli, leader storico dell’industria, radici profondamente italiane, convinte inclinazioni europeiste, forti legami americani. E oggi, a vent’anni dalla sua morte, vale la pena rimemorarne la lezione, proprio nel cuore di una stagione di drammatiche trasformazioni politiche e sociali e di straordinarie sfide economiche, per confermare che bisogna insistere sull’Europa, nonostante tutto. E guardare dunque verso l’orizzonte di una maggiore e migliore integrazione europea, per costruire sviluppo sostenibile a vantaggio della Next Generation Ue. Consapevoli come siamo che crescita economica, coesione sociale e difesa della democrazia liberale – il grande patrimonio europeo, appunto – hanno un futuro solo se strettamente intrecciati, in un sistema di valori e scelte politiche coraggiose.

“Più aiuti di Stato significa meno Europa. Più politica industriale comune vuol dire, invece, maggiore e migliore sviluppo”, sostengono concordi le imprese italiane riunite in Confindustria. Che, proprio sulla necessità di una risposta efficace ai venti di protezionismo che soffiano sul mondo (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e rischiano di deprimere i commerci internazionali e dunque la crescita, hanno avviato da tempo una iniziativa per coinvolgere anche le associazioni imprenditoriali di Francia e Germania e organizzare una pressione comune sulla Commissione Ue a Bruxelles in nome di una maggiore e migliore competitività di tutto il sistema delle imprese europee.

Ampliare le possibilità di rincorso agli aiuti di Stato, infatti, significherebbe aggravare le asimmetrie tra paesi e strutture d’impresa nazionali, considerando che già adesso più del 77% degli aiuti di Stato riguardano Germania e Francia. C’è il rischio, insomma, di frammentare il mercato interno Ue, di mettere in crisi il mercato unico. E di avvantaggiare solo le economie di quei paesi che hanno spazio di ampliamento del loro debito pubblico.

Meglio, invece, insistere sull’idea, cara per esempio alla Commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager, di un “fondo sovrano” che finanzi settori strategici a livello comunitario, limitando gli aiuti di Stato a “misure mirate”, dato che la difesa del mercato unico è “una linea rossa” da non varcare.

Un “fondo sovrano Ue”, dunque, come strumento da inserire nel contesto delle scelte di politica industriale che si stanne definendo a Bruxelles, con il contributo determinante del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e del Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni. Una politica industriale green, come chiarisce da tempo la presidente Ursula von der Leyen. Una scelta di sostenibilità ambientale e sociale come asse della politica che promuova la competitività di tutta l’economia europea. Se ne parlerà meglio nei vertici Ue ai primi di febbraio.

L’Europa, infatti, si trova nel cuore di un passaggio cruciale per l’economia globale. C’è una “globalizzazione da ripensare”, come suggerisce con insistenza, da tempo, “The Economist”. Ci sono da fronteggiare le chiusure della Cina, che privilegia il mercato interno e le insidiose scelte della Casa Bianca di Trump, che ha messo in moto investimenti pubblici per centinaia di miliardi di dollari con l’Ira (Inflation Reduction Act) e con il Chips and Science Act a sostegno dell’impresa Usa e di tutte le altre imprese internazionali che vorranno insediarsi negli Stati Uniti. E se va evitata, naturalmente, ogni guerra commerciale tra Europa e Usa (anche per gli effetti politici che comporterebbe, in un quadrato geopolitico di forti tensioni e allarmanti fratture), è necessario contemporaneamente difendere l’industria europea da rischi di crisi e declino, nella consapevolezza del nesso forte che lega mercato, libertà d’impresa, responsabilità sociale, benessere popolare e dunque lavoro, welfare e democrazia.

La politica industriale Ue assume così una valenza più generale. E va pensata nel contesto più generale della ridiscussione del Patto di Stabilità e di una promozione di un ruolo più incisivo dell’Europa nel Mediterraneo e verso l’Africa.

A giudizio di Confindustria potrebbe essere indirizzato in questa direzione anche il Mes (ne ha parlato nei giorni scorsi il presidente Carlo Bonomi durante un convegno a Venezia; “Il Sole24Ore”, 28 gennaio). E secondo indiscrezioni di buona fonte, anche a Palazzo Chigi si sta discutendo di un “via libera”, finalmente, alla ratifica del Mes nel quadro di un migliore utilizzo di tutti gli strumenti e le strutture europee, compresa la Bei, la Banca Europea degli Investimenti (“La Stampa”, 28 gennaio).

La chiave è sempre lo sviluppo. Verso cui indirizzare tutte le risorse disponibili, quelle che si possono raccogliere, come Ue, sui mercati finanziari internazionali e quelle, coordinate, dei vari Stati nazionali. Una risposta generale con uno spirito tutt’altro che protezionista. Una scelta neo-keynesiana sulla qualità degli investimenti pubblici.

Il cardine potrebbe essere una intesa tra Berlino, Parigi e Roma (come sostiene Giulio Tremonti, da presidente della Commissione Esteri del Senato; “Corriere della Sera”, 26 gennaio) per fare da motore della nuova politica industriale europea, attenta appunto a promuovere la competitività di sistema, l’innovazione tecnologica, la ricerca, la formazione, il rilancio dell’industria europea e dei servizi collegati. E dopo il “Recovery Plan”, un Fondo Ue per l’energia, le materie prime strategiche a partire dalle terre rare e i prodotti industriali di base come i microchip potrebbe essere uno strumento essenziale. Sicurezza, autonomia e sviluppo si tengono insieme.

(Immagine: Getty Images)

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