Orario e salario servono nuove relazioni che riflettano i cambiamenti della fabbrica digitale e hi tech
“L’ora di lavoro non può essere l’unico parametro per misurare il rapporto tra lavoratore e opera realizzata”, l’unico riferimento per il contratto. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti fa bene a insistere sulla sua idea. Cambiano i contenuti del lavoro, le tecnologie e le organizzazioni della produzione e dei servizi. La competizione si gioca più su elementi di qualità che non di quantità dei prodotti e dei servizi resi. Ed ha dunque senso che le retribuzioni vengano calcolate tenendo conto di tutti questi elementi. Non più tot ore di lavoro per tot soldi, ma un salario che rifletta, oltre all’orario, anche il risultato del lavoro, la sua qualità, la sua produttività.
Al di là delle polemiche aperte da Cgil, Cisl e Uil contro il ministro, accusato di voler rottamare i contratti di lavoro in nome di un “liberismo selvaggio”, vale la pena ragionare pacatamente su tutte le novità che sono emerse negli ultimi anni nel mondo del lavoro e impegnarsi in un dibattito sincero, responsabile e ben informato su come ammodernare i contratti di lavoro, su come cioè disciplinare quell’insieme di diritti e doveri, impegni e aspettative che riguardano le persone che lavorano e le loro imprese.
La vecchia struttura “fordista” della produzione è finita da tempo. La “catena di montaggio” è stata sostituita da altre strutture produttive. La digitalizzazione di molte attività, l’introduzione dei robot e delle macchine hi tech (sino alle strampanti 3D) hanno mandato in pensione, definitivamente, “l’operaio massa” per lasciare spazio a operai specializzati, a tecnici che sanno operare sui confini tra la ricerca continua nel corso dei processi produttivi, il controllo digitale, l’intervento sulla macchina via computer, la cura scrupoloSa della qualità. E’ la neo-fabbrica, molto diffusa in tutta la provincia industriale italiana, in moltl settori manifatturieri, in cui produzione e servizi si fondono in un insieme di attività in evoluzione. L’innovazione è mobile e ibrida. Ha senso che anche i salari riflettano questa realtà.
Sostiene Poletti (in una intervista a “Il Sole24ore” del 29 novembre): “In Italia la relazione tra lavoro e impresa si è fondata storicamente sul binomio conflitto-contratto. Ma di fronte al cambiamento del lavoro, che incorpora sempre più elementi di responsabilità, creatività e partecipazione attiva, bisogna fare evolvere quel binomio nella direzione di logiche sempre più collaborative e partecipative”. “Capitale-lavoro, quel conflitto antiquato”, commenta su “La Stampa” Massimiliano Panarari, acuto osservatore dei cambiamenti economici e sociali.
Salari più legati agli obiettivi, propone Poletti. Una contrattazione che privilegi gli aspetti aziendali oltre i parametri ridigi del tradizionale contratto nazionale, chiede Confindustria. Il governo cerca di cogliere le novità, reintroducendo nella legge di Stabilità 2016 la detessazione del “premio di risultato” e delle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili d’impresa (oltre all’esenzione fiscale delle prestazioni di welfare aziendale, contrattate in impresa). Il sindacato nazionale fa resistenza, rispetto alle innovazioni. Ma sul territorio, in molte imprese, le forme del lavoro, la sua organizzazione e le retribuzioni conseguenti vedono nascere accordi innovativi tra azienda, management e rappresentanze sindacali aziendali. E’ una cultura d’impresa in evoluzione, insomma. E le relazioni industriali non possono non esserne positivamente influenzate.
I casi Ducati, Vodafone, ma anche Tetrapak a Modena, Aermec, Fiat di Pomigliano e tanti altri ancora, tra industria e servizi, sono solo alcuni dei tanti esempi possibili. E parole come “smart working”, “co-working”, “peer economy”, “networked economy”, “platform economy” o “sharing economy” stanno entrando ampiamente, anche in Italia, nel linguaggio delle imprese, nelle abitudini di migliaia di persone che si confrontano ogni giorno con le nuove dimensioni dell’economia.
Vale dunque la pena che i soggetti sociali e le loro rappresentanze affrontino la questione del lavoro e della sua retribuzione, dell’incrocio tra diritti e doveri, della partecipazione, senza tabù, costruendo nuovi modelli contrattuali che garantiscano tutele e premino i risultati. Un passaggio culturale ed economico fondamentale, anche per una crescita più equilibrata e robusta, innovativa e competitiva, dell’intera Italia.
“L’ora di lavoro non può essere l’unico parametro per misurare il rapporto tra lavoratore e opera realizzata”, l’unico riferimento per il contratto. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti fa bene a insistere sulla sua idea. Cambiano i contenuti del lavoro, le tecnologie e le organizzazioni della produzione e dei servizi. La competizione si gioca più su elementi di qualità che non di quantità dei prodotti e dei servizi resi. Ed ha dunque senso che le retribuzioni vengano calcolate tenendo conto di tutti questi elementi. Non più tot ore di lavoro per tot soldi, ma un salario che rifletta, oltre all’orario, anche il risultato del lavoro, la sua qualità, la sua produttività.
Al di là delle polemiche aperte da Cgil, Cisl e Uil contro il ministro, accusato di voler rottamare i contratti di lavoro in nome di un “liberismo selvaggio”, vale la pena ragionare pacatamente su tutte le novità che sono emerse negli ultimi anni nel mondo del lavoro e impegnarsi in un dibattito sincero, responsabile e ben informato su come ammodernare i contratti di lavoro, su come cioè disciplinare quell’insieme di diritti e doveri, impegni e aspettative che riguardano le persone che lavorano e le loro imprese.
La vecchia struttura “fordista” della produzione è finita da tempo. La “catena di montaggio” è stata sostituita da altre strutture produttive. La digitalizzazione di molte attività, l’introduzione dei robot e delle macchine hi tech (sino alle strampanti 3D) hanno mandato in pensione, definitivamente, “l’operaio massa” per lasciare spazio a operai specializzati, a tecnici che sanno operare sui confini tra la ricerca continua nel corso dei processi produttivi, il controllo digitale, l’intervento sulla macchina via computer, la cura scrupoloSa della qualità. E’ la neo-fabbrica, molto diffusa in tutta la provincia industriale italiana, in moltl settori manifatturieri, in cui produzione e servizi si fondono in un insieme di attività in evoluzione. L’innovazione è mobile e ibrida. Ha senso che anche i salari riflettano questa realtà.
Sostiene Poletti (in una intervista a “Il Sole24ore” del 29 novembre): “In Italia la relazione tra lavoro e impresa si è fondata storicamente sul binomio conflitto-contratto. Ma di fronte al cambiamento del lavoro, che incorpora sempre più elementi di responsabilità, creatività e partecipazione attiva, bisogna fare evolvere quel binomio nella direzione di logiche sempre più collaborative e partecipative”. “Capitale-lavoro, quel conflitto antiquato”, commenta su “La Stampa” Massimiliano Panarari, acuto osservatore dei cambiamenti economici e sociali.
Salari più legati agli obiettivi, propone Poletti. Una contrattazione che privilegi gli aspetti aziendali oltre i parametri ridigi del tradizionale contratto nazionale, chiede Confindustria. Il governo cerca di cogliere le novità, reintroducendo nella legge di Stabilità 2016 la detessazione del “premio di risultato” e delle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili d’impresa (oltre all’esenzione fiscale delle prestazioni di welfare aziendale, contrattate in impresa). Il sindacato nazionale fa resistenza, rispetto alle innovazioni. Ma sul territorio, in molte imprese, le forme del lavoro, la sua organizzazione e le retribuzioni conseguenti vedono nascere accordi innovativi tra azienda, management e rappresentanze sindacali aziendali. E’ una cultura d’impresa in evoluzione, insomma. E le relazioni industriali non possono non esserne positivamente influenzate.
I casi Ducati, Vodafone, ma anche Tetrapak a Modena, Aermec, Fiat di Pomigliano e tanti altri ancora, tra industria e servizi, sono solo alcuni dei tanti esempi possibili. E parole come “smart working”, “co-working”, “peer economy”, “networked economy”, “platform economy” o “sharing economy” stanno entrando ampiamente, anche in Italia, nel linguaggio delle imprese, nelle abitudini di migliaia di persone che si confrontano ogni giorno con le nuove dimensioni dell’economia.
Vale dunque la pena che i soggetti sociali e le loro rappresentanze affrontino la questione del lavoro e della sua retribuzione, dell’incrocio tra diritti e doveri, della partecipazione, senza tabù, costruendo nuovi modelli contrattuali che garantiscano tutele e premino i risultati. Un passaggio culturale ed economico fondamentale, anche per una crescita più equilibrata e robusta, innovativa e competitiva, dell’intera Italia.