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Per affrontare bene i “ruggenti anni Venti” serve un buon governo del Recovery Plan

“The roaring 20s?” titola in copertina “The Economist”, con un editoriale e un’inchiesta su tutto ciò che nel mondo va “towards a new era of innovation”. Quel punto interrogativo dopo gli anni 20 “ruggenti” la dice lunga sui problemi, i limiti, le perplessità che assillano tutti nel bel mezzo di una pandemia da Covid19 che continua a mietere vittime e una recessione che investe ancora le economie mondiali, fatte poche eccezioni. Si sa che le crisi contengono sempre elementi di opportunità. E infatti “The Economist” ricorda che “pessimism about technological change is giving way to hope – much of it justified”.

Ma è altrettanto vero che il cambiamento tecnologico in corso, verso l’economia digitale e il ruolo determinante dell’Intelligenza Artificiale nei processi produttivi, nei servizi e in tante altre dimensioni della nostra vita (dalla salute alla scuola, dalla cultura alla ricerca) ha tante e tali conseguenze sociali, sul lavoro e sui redditi, da richiedere una strategia politica e di governo alta, per evitarne o comunque attenuarne vecchie e nuove diseguaglianze e valorizzare le opportunità. Una strategia di cui non s’intravvedono ancora tracce chiare. Soprattutto qui in Italia, anche in questi giorni confusi di crisi di governo e risposte poco convincenti sulla ripresa, promesse a parte.

La copertina di “The Economist” allude a un’altra stagione di dinamismo e di drammatiche condizioni sociali, gli anni Venti del Novecento, giusto un secolo fa (Paolo Di Paolo ha dedicato al paragone un libro sapido e inquietante, solidamente documentato e molto ben scritto: “Svegliarsi negli anni Venti”, Mondadori, raccontando “il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”). Allora si usciva dalla Grande Guerra, con i devastanti effetti delle nuove tecnologie applicate al conflitto militare (le auto, gli aerei, la meccanica sofisticata per le armi, la chimica e la fisica per i gas velenosi e le bombe) ma anche con le speranze di radicali cambiamenti economici e sociali, nell’euforia della Belle Époque e poi delle rivoluzioni annunciate e avviate. Rapidamente, in assenza di politiche lungimiranti di riforma e di costruzione di migliori equilibri economici e sociali, si sarebbe precipitati nella Grande Crisi del 1929 dilagata da Wall Street al mondo, nei fascismi in larga parte dell’Europa, nello stalinismo sovietico, nell’angoscia di nuovi squilibri, sino al disastro della Seconda Guerra Mondiale (rileggere Keynes, per capire bene).

Oggi, siamo di fronte a squilibri diversi e altre drammatiche tensioni. E, per affrontare l’incrocio tra pandemia e recessione, sempre alla politica bisogna guardare, pretendendo risposte chiare ed efficaci. Gli Usa, scegliendo Joe Biden per la Casa Bianca e chiudendo l’infausta stagione di Donald Trump e del suo nazionalismo estremista, l’hanno fatto (rimangono aperte, naturalmente, tutte le fratture economiche e sociali da tentare di ricomporre). E pure la Ue, con il Recovery Plan Next Generation per green economy e digital economy , ambiente e innovazione cioè, e con le scelte espansive della Bce, ha dato una indicazione strategica fondamentale. Papa Francesco con i suoi appelli sulla “economia giusta”, i giovani attenti a combattere il climate change e lo stesso mondo dell’economia e della finanza attento agli stakeholders values (gli interessi delle persone e delle comunità, superando l’ossessione del privilegio assoluto del profitto a ogni costo) mostrano l’evoluzione positiva di un’opinione pubblica sensibile e responsabile. Come andare avanti, allora, perché “la nuova era dell’innovazione” non si riveli un’occasione di cambiamento sprecata?

Siamo entrati in una nuova stagione di espansione della spesa pubblica. I 1.900 miliardi di dollari annunciati dal presidente Biden come investimenti d’emergenza nell’economia Usa ne sono conferma. Così come i 750 miliardi del Recovery Plan della Ue, mentre la Cina continua a immettere denaro pubblico nell’economia, contribuendo in modo determinante alla crescita del Pil di quel paese già del 2,3% nel 2020 e  a un lungo e robusto rimbalzo atteso per il ’21. Ci si indebita, per il futuro. Una buona scelta. A patto di saper distinguere “debito buono” da “debito cattivo”, come incita a fare Mario Draghi, indicando come “buono” il debito per gli investimenti utili a stimolare la crescita dell’economia e il miglioramento strutturale della qualità della vita e del lavoro e come “cattivo” il debito per assistenzialismo, sussidi, spesa corrente improduttiva.

Sta proprio qui il nodo che il governo italiano si è dimostrato finora incapace di sciogliere, elaborando bene il Recovery Plan, per usare produttivamente gli oltre 200 miliardi messi a disposizione della Ue e le risorse “liberate” dalla possibilità di ampliare l’indebitamento con la copertura della Bce. Abbiamo visto ristori, bonus e sussidi, più o meno efficaci per fronteggiare l’emergenza del crollo del Pil e dei redditi. Ma, almeno sinora, non una politica di riforme e investimenti, con provvedimenti chiari, piani di dettaglio efficaci, scadenze da rispettare, riforme da attuare. E la preoccupazione per il futuro è quanto mai evidente, anche in un’opinione pubblica impaurita, smarrita, stanca, in crisi di fiducia.

Il governo promette adesso di scrivere, finalmente, un buon Recovery Plan, seguendo le indicazioni dell’Europa su investimenti, ambiente, innovazione, ricerca, formazione, riforme radicali della burocrazia e della giustizia. E di recuperare il tempo perso. Si starà a vedere. Tocca alle forze politiche più responsabili, alle forze sociali e all’opinione pubblica fare in modo che quest’occasione non venga sprecata e che la si smetta di perdere tempo.

“The roaring 20s?” titola in copertina “The Economist”, con un editoriale e un’inchiesta su tutto ciò che nel mondo va “towards a new era of innovation”. Quel punto interrogativo dopo gli anni 20 “ruggenti” la dice lunga sui problemi, i limiti, le perplessità che assillano tutti nel bel mezzo di una pandemia da Covid19 che continua a mietere vittime e una recessione che investe ancora le economie mondiali, fatte poche eccezioni. Si sa che le crisi contengono sempre elementi di opportunità. E infatti “The Economist” ricorda che “pessimism about technological change is giving way to hope – much of it justified”.

Ma è altrettanto vero che il cambiamento tecnologico in corso, verso l’economia digitale e il ruolo determinante dell’Intelligenza Artificiale nei processi produttivi, nei servizi e in tante altre dimensioni della nostra vita (dalla salute alla scuola, dalla cultura alla ricerca) ha tante e tali conseguenze sociali, sul lavoro e sui redditi, da richiedere una strategia politica e di governo alta, per evitarne o comunque attenuarne vecchie e nuove diseguaglianze e valorizzare le opportunità. Una strategia di cui non s’intravvedono ancora tracce chiare. Soprattutto qui in Italia, anche in questi giorni confusi di crisi di governo e risposte poco convincenti sulla ripresa, promesse a parte.

La copertina di “The Economist” allude a un’altra stagione di dinamismo e di drammatiche condizioni sociali, gli anni Venti del Novecento, giusto un secolo fa (Paolo Di Paolo ha dedicato al paragone un libro sapido e inquietante, solidamente documentato e molto ben scritto: “Svegliarsi negli anni Venti”, Mondadori, raccontando “il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”). Allora si usciva dalla Grande Guerra, con i devastanti effetti delle nuove tecnologie applicate al conflitto militare (le auto, gli aerei, la meccanica sofisticata per le armi, la chimica e la fisica per i gas velenosi e le bombe) ma anche con le speranze di radicali cambiamenti economici e sociali, nell’euforia della Belle Époque e poi delle rivoluzioni annunciate e avviate. Rapidamente, in assenza di politiche lungimiranti di riforma e di costruzione di migliori equilibri economici e sociali, si sarebbe precipitati nella Grande Crisi del 1929 dilagata da Wall Street al mondo, nei fascismi in larga parte dell’Europa, nello stalinismo sovietico, nell’angoscia di nuovi squilibri, sino al disastro della Seconda Guerra Mondiale (rileggere Keynes, per capire bene).

Oggi, siamo di fronte a squilibri diversi e altre drammatiche tensioni. E, per affrontare l’incrocio tra pandemia e recessione, sempre alla politica bisogna guardare, pretendendo risposte chiare ed efficaci. Gli Usa, scegliendo Joe Biden per la Casa Bianca e chiudendo l’infausta stagione di Donald Trump e del suo nazionalismo estremista, l’hanno fatto (rimangono aperte, naturalmente, tutte le fratture economiche e sociali da tentare di ricomporre). E pure la Ue, con il Recovery Plan Next Generation per green economy e digital economy , ambiente e innovazione cioè, e con le scelte espansive della Bce, ha dato una indicazione strategica fondamentale. Papa Francesco con i suoi appelli sulla “economia giusta”, i giovani attenti a combattere il climate change e lo stesso mondo dell’economia e della finanza attento agli stakeholders values (gli interessi delle persone e delle comunità, superando l’ossessione del privilegio assoluto del profitto a ogni costo) mostrano l’evoluzione positiva di un’opinione pubblica sensibile e responsabile. Come andare avanti, allora, perché “la nuova era dell’innovazione” non si riveli un’occasione di cambiamento sprecata?

Siamo entrati in una nuova stagione di espansione della spesa pubblica. I 1.900 miliardi di dollari annunciati dal presidente Biden come investimenti d’emergenza nell’economia Usa ne sono conferma. Così come i 750 miliardi del Recovery Plan della Ue, mentre la Cina continua a immettere denaro pubblico nell’economia, contribuendo in modo determinante alla crescita del Pil di quel paese già del 2,3% nel 2020 e  a un lungo e robusto rimbalzo atteso per il ’21. Ci si indebita, per il futuro. Una buona scelta. A patto di saper distinguere “debito buono” da “debito cattivo”, come incita a fare Mario Draghi, indicando come “buono” il debito per gli investimenti utili a stimolare la crescita dell’economia e il miglioramento strutturale della qualità della vita e del lavoro e come “cattivo” il debito per assistenzialismo, sussidi, spesa corrente improduttiva.

Sta proprio qui il nodo che il governo italiano si è dimostrato finora incapace di sciogliere, elaborando bene il Recovery Plan, per usare produttivamente gli oltre 200 miliardi messi a disposizione della Ue e le risorse “liberate” dalla possibilità di ampliare l’indebitamento con la copertura della Bce. Abbiamo visto ristori, bonus e sussidi, più o meno efficaci per fronteggiare l’emergenza del crollo del Pil e dei redditi. Ma, almeno sinora, non una politica di riforme e investimenti, con provvedimenti chiari, piani di dettaglio efficaci, scadenze da rispettare, riforme da attuare. E la preoccupazione per il futuro è quanto mai evidente, anche in un’opinione pubblica impaurita, smarrita, stanca, in crisi di fiducia.

Il governo promette adesso di scrivere, finalmente, un buon Recovery Plan, seguendo le indicazioni dell’Europa su investimenti, ambiente, innovazione, ricerca, formazione, riforme radicali della burocrazia e della giustizia. E di recuperare il tempo perso. Si starà a vedere. Tocca alle forze politiche più responsabili, alle forze sociali e all’opinione pubblica fare in modo che quest’occasione non venga sprecata e che la si smetta di perdere tempo.

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