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Per l’economia italiana l’Europa vale più di un miliardo di export al giorno

Un miliardo al giorno, per ogni giorno di lavoro. E’ il valore delle merci che escono quotidianamente dai cancelli delle fabbriche italiane per raggiungere i mercati europei. 250 miliardi all’anno, più o meno. Oltre metà di tutto l’export del nostro paese. Un miliardo al giorno, o poco più, di prodotti meccanici e meccatronici, farmaceutici, chimici e plastici, innanzitutto, ma anche dell’arredamento, dell’abbigliamento e dell’agro-alimentare, che prendono la strada della Germania e della Francia, innanzitutto e poi degli altri paesi della Ue. Una straordinaria ricchezza, molto maggiore del costo dei beni che importiamo, al netto dell’energia. Il 16% del nostro Pil. Il motore di un’economia di cui le imprese migliori, più aperte e innovative, sono le protagoniste principali. Proprio quelle imprese che il governo giallo-verde si ostina a ostacolare, non ascoltare, mettere in difficoltà con leggi inefficienti e scarsi investimenti per le infrastrutture.

Un miliardo al giorno. E’ un dato impressionante, di cui purtroppo gran parte dell’opinione pubblica non è ben consapevole. Perché, se ce ne fosse veramente coscienza, sarebbe evidente il rischio di povertà che fa correre a tutti noi ogni scelta politica e di governo che pretende di opporre l’Italia alla Ue, gioca ad alzare muri e barriere tra noi e gli altri, insiste nel considerare Germania e Francia avversari e antagonisti piuttosto che partner di una competizione e, contemporaneamente, di una collaborazione per fare pesare sempre di più l’Europa sul palcoscenico di una difficile situazione degli scambi globali.

Il calcolo l’ha fatto, con intelligenza, Andrea Montanino, responsabile del Centro Studi di Confindustria (La Stampa, 22 gennaio). Mette in luce, con grande evidenza, l’interdipendenza delle principali economie europee (il successo e la forza dell’industria dell’auto tedesca, Bmw, Audi e Mercedes, dipende molto dalla straordinaria componentistica italiana, uno dei più sofisticati e innovativi settori della nostra manifattura). E sottolinea quanto sia necessario, per la crescita comune, rafforzare i mercati Ue, piuttosto che indebolirli con anacronistici protezionismi. Indispensabile, semmai, fare passi avanti anche su tre mercati su cui l’integrazione europea è carente: quello dell’energia, quello digitale e quello dei capitali. Più Europa, insomma, invece che meno Europa.

Una conferma arriva pure dalle tensioni che stanno accompagnando la sciagurata scelta politica della Brexit: imprese che chiudono e si preparano a trasferire altrove i loro impianti (Nissan, per gli stabilimenti dell’auto, è solo l’ultimo esempio), servizi legati alla manifattura che scelgono di andare a Parigi, a Francoforte, ad Amsterdam o a Milano, preoccupazioni crescenti che riguardano le forniture di beni alimentari e di medicinali, sino a fare temere ripercussioni per l’ordine pubblico. L’economia del Regno Unito si rimpicciolirà dell’8% nei 15 anni successivi alla Brexit, calcola la Banca d’Inghilterra, mentre la sterlina perderà sino a un quarto del suo valore. Con tutte le conseguenze sul lavoro, i redditi, i servizi sociali, il benessere diffuso. Paese più povero e fragile, appunto.

Man mano che ci si avvicina al voto di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, sono proprio questi i temi che vengono in primo piano e che dovrebbero essere occasioni di confronto all’interno delle opinioni pubbliche dei vari paesi, al di là della propaganda nazionalista e populista. Dati economici, questioni legate allo sviluppo sociale e civile, valori.

Nell’Europa da riformare e rafforzare, oltre le strettoie burocratiche e le ideologiche ortodossie dell’austerità formale, vale la pena cominciare a usare analisi dense di competenze, riflessioni critiche responsabili (ben informate, dunque, e non affollate da fake news e scadente propaganda supportata da chi, a Mosca e a Washington, vede i valori e gli interessi dell’Europa come ostacoli da abbattere), memoria e attenzione per il “grande futuro” d’una maggiore e migliore integrazione e non il “piccolo futuro” delle paure , delle chiusure e dei nazionalismi gretti.

Ricchezza, benessere e valori, appunto. Rivendicando quel che di buono è stato finora costruito, riformando istituzioni e strumenti dei mercati, migliorando istituzioni e organismi Ue. L’obiettivo: Europa, nonostante tutto.

Un’indicazione di cui temere gran conto viene da uno dei maggiori filosofi europei contemporanei, Bernard-Henri Lévy, che alla fine di gennaio ha annunciato proprio da Milano, dal Teatro Parenti, una tournée europea in venti tappe, dal 5 marzo al 20 maggio (ultima tappa a Parigi), per parlare di Europa, animare dibattiti, raccogliere consensi contro il populismo e i nazionalismi e suscitare nuove speranze in chi crede in un’Europa migliore (“La Stampa” e “La Lettura” del “Corriere della Sera” hanno già dato ampio spazio all’iniziativa, che ha raccolto subito alcune decine di firme di sostegno di parecchi dei migliori protagonisti della cultura europea).

Sostiene Henri Lévy: “Vado in giro a spiegare perché l’Europa è una bella idea, perché è l’ultima utopia possibile per i nostri giovani e l’unica soluzione per i nostri Paesi. Un’Europa minacciata dall’esterno, dagli attacchi di Trump e Putin, e dall’interno da chi non crede nei suoi valori, il libero pensiero, l’umanesimo, la democrazia rappresentativa. E minacciata soprattutto dalla nostra pigrizia”. Insiste il filosofo: “Per cinquant’anni abbiamo pensato che l’Europa si sarebbe fatta da sola, ma non è così. In Francia, ma anche in Italia, troppa gente è persuasa di avere già perso la partita. Pensano che Marine Le Pen sia una fascista ma prima o poi vincerà lo stesso. Ma non è così”.

C’è, nelle parole di Henri Lévy, un monito sulla necessità di impegnarsi, a non dare per acquisiti né la democrazia liberale né i diritti, a lavorare con idee e iniziative per un’operazione complessa ma indispensabile di difesa dell’Europa e contemporaneamente di riforma e rilancio. La questione riguarda molto da vicino proprio l’Italia, in un momento difficile di recessione e di crescente fragilità dell’economia e del tessuto sociale. E vale la pena ragionare su quali strumenti europei usare meglio per vivere e crescere. Lavoro e libertà, benessere attuale, progetti di futuro. Orizzonte europeo, appunto.

Un miliardo al giorno, per ogni giorno di lavoro. E’ il valore delle merci che escono quotidianamente dai cancelli delle fabbriche italiane per raggiungere i mercati europei. 250 miliardi all’anno, più o meno. Oltre metà di tutto l’export del nostro paese. Un miliardo al giorno, o poco più, di prodotti meccanici e meccatronici, farmaceutici, chimici e plastici, innanzitutto, ma anche dell’arredamento, dell’abbigliamento e dell’agro-alimentare, che prendono la strada della Germania e della Francia, innanzitutto e poi degli altri paesi della Ue. Una straordinaria ricchezza, molto maggiore del costo dei beni che importiamo, al netto dell’energia. Il 16% del nostro Pil. Il motore di un’economia di cui le imprese migliori, più aperte e innovative, sono le protagoniste principali. Proprio quelle imprese che il governo giallo-verde si ostina a ostacolare, non ascoltare, mettere in difficoltà con leggi inefficienti e scarsi investimenti per le infrastrutture.

Un miliardo al giorno. E’ un dato impressionante, di cui purtroppo gran parte dell’opinione pubblica non è ben consapevole. Perché, se ce ne fosse veramente coscienza, sarebbe evidente il rischio di povertà che fa correre a tutti noi ogni scelta politica e di governo che pretende di opporre l’Italia alla Ue, gioca ad alzare muri e barriere tra noi e gli altri, insiste nel considerare Germania e Francia avversari e antagonisti piuttosto che partner di una competizione e, contemporaneamente, di una collaborazione per fare pesare sempre di più l’Europa sul palcoscenico di una difficile situazione degli scambi globali.

Il calcolo l’ha fatto, con intelligenza, Andrea Montanino, responsabile del Centro Studi di Confindustria (La Stampa, 22 gennaio). Mette in luce, con grande evidenza, l’interdipendenza delle principali economie europee (il successo e la forza dell’industria dell’auto tedesca, Bmw, Audi e Mercedes, dipende molto dalla straordinaria componentistica italiana, uno dei più sofisticati e innovativi settori della nostra manifattura). E sottolinea quanto sia necessario, per la crescita comune, rafforzare i mercati Ue, piuttosto che indebolirli con anacronistici protezionismi. Indispensabile, semmai, fare passi avanti anche su tre mercati su cui l’integrazione europea è carente: quello dell’energia, quello digitale e quello dei capitali. Più Europa, insomma, invece che meno Europa.

Una conferma arriva pure dalle tensioni che stanno accompagnando la sciagurata scelta politica della Brexit: imprese che chiudono e si preparano a trasferire altrove i loro impianti (Nissan, per gli stabilimenti dell’auto, è solo l’ultimo esempio), servizi legati alla manifattura che scelgono di andare a Parigi, a Francoforte, ad Amsterdam o a Milano, preoccupazioni crescenti che riguardano le forniture di beni alimentari e di medicinali, sino a fare temere ripercussioni per l’ordine pubblico. L’economia del Regno Unito si rimpicciolirà dell’8% nei 15 anni successivi alla Brexit, calcola la Banca d’Inghilterra, mentre la sterlina perderà sino a un quarto del suo valore. Con tutte le conseguenze sul lavoro, i redditi, i servizi sociali, il benessere diffuso. Paese più povero e fragile, appunto.

Man mano che ci si avvicina al voto di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, sono proprio questi i temi che vengono in primo piano e che dovrebbero essere occasioni di confronto all’interno delle opinioni pubbliche dei vari paesi, al di là della propaganda nazionalista e populista. Dati economici, questioni legate allo sviluppo sociale e civile, valori.

Nell’Europa da riformare e rafforzare, oltre le strettoie burocratiche e le ideologiche ortodossie dell’austerità formale, vale la pena cominciare a usare analisi dense di competenze, riflessioni critiche responsabili (ben informate, dunque, e non affollate da fake news e scadente propaganda supportata da chi, a Mosca e a Washington, vede i valori e gli interessi dell’Europa come ostacoli da abbattere), memoria e attenzione per il “grande futuro” d’una maggiore e migliore integrazione e non il “piccolo futuro” delle paure , delle chiusure e dei nazionalismi gretti.

Ricchezza, benessere e valori, appunto. Rivendicando quel che di buono è stato finora costruito, riformando istituzioni e strumenti dei mercati, migliorando istituzioni e organismi Ue. L’obiettivo: Europa, nonostante tutto.

Un’indicazione di cui temere gran conto viene da uno dei maggiori filosofi europei contemporanei, Bernard-Henri Lévy, che alla fine di gennaio ha annunciato proprio da Milano, dal Teatro Parenti, una tournée europea in venti tappe, dal 5 marzo al 20 maggio (ultima tappa a Parigi), per parlare di Europa, animare dibattiti, raccogliere consensi contro il populismo e i nazionalismi e suscitare nuove speranze in chi crede in un’Europa migliore (“La Stampa” e “La Lettura” del “Corriere della Sera” hanno già dato ampio spazio all’iniziativa, che ha raccolto subito alcune decine di firme di sostegno di parecchi dei migliori protagonisti della cultura europea).

Sostiene Henri Lévy: “Vado in giro a spiegare perché l’Europa è una bella idea, perché è l’ultima utopia possibile per i nostri giovani e l’unica soluzione per i nostri Paesi. Un’Europa minacciata dall’esterno, dagli attacchi di Trump e Putin, e dall’interno da chi non crede nei suoi valori, il libero pensiero, l’umanesimo, la democrazia rappresentativa. E minacciata soprattutto dalla nostra pigrizia”. Insiste il filosofo: “Per cinquant’anni abbiamo pensato che l’Europa si sarebbe fatta da sola, ma non è così. In Francia, ma anche in Italia, troppa gente è persuasa di avere già perso la partita. Pensano che Marine Le Pen sia una fascista ma prima o poi vincerà lo stesso. Ma non è così”.

C’è, nelle parole di Henri Lévy, un monito sulla necessità di impegnarsi, a non dare per acquisiti né la democrazia liberale né i diritti, a lavorare con idee e iniziative per un’operazione complessa ma indispensabile di difesa dell’Europa e contemporaneamente di riforma e rilancio. La questione riguarda molto da vicino proprio l’Italia, in un momento difficile di recessione e di crescente fragilità dell’economia e del tessuto sociale. E vale la pena ragionare su quali strumenti europei usare meglio per vivere e crescere. Lavoro e libertà, benessere attuale, progetti di futuro. Orizzonte europeo, appunto.

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