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Piano, Accardo, l’utilità dei maestri e le sfide morali dell’industria hi tech

 “Non ci sono più maestri, ci sono solo esperti del settore”. La battuta è tagliente, amarissima, sembra degna del disincanto dolente di Ennio Flaiano. E la pronuncia Enzo Jannacci nei panni di Armando, personaggio di “La bellezza del somaro”, film di qualità del 2010 per la regia di Sergio Castellitto, sceneggiatura di Margaret Mazzantini.

Il senso del conflitto è chiaro, in tempi sempre più ricchi di specialismi esasperati nei micromondi delle supercompetenze (qui viene in mente una vera citazione di Flaiano: “L’evo moderno è finito, comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato”).

Le specializzazioni sono, naturalmente, indispensabili, per andare in profondità nell’affrontare problemi, proporre soluzioni, innovare. Ma hanno bisogno anche di sguardi lunghi e generali, pensieri che incrociano competenze e culture diverse, attitudine a cogliere nessi, a sperimentare nuovi ed eccentrici punti di vista.

I nostri, insomma, sono tempi che hanno bisogno di intelligenze politecniche. Anche perché sono, contemporaneamente, affollati da chiacchiere da bar elevate a sapienza, pregiudizi, idee “poche ma confuse” (l’aforisma, attribuito a Flaiano, è di Mino Maccari, suo straordinario compagno d’avventure intellettuali), banalità spacciate per buon senso comune e destinate ad avere purtroppo ascolto sui “social”.

Ecco, sarebbe importante in tempi così, in cui tanti parlano e pochissimi leggono, troppi scrivono libri e troppo pochi frequentano le librerie, averne davvero, di bravi maestri. E nell’inferno di ignoranze dilaganti e supponenti, imparare a distinguerli, dare loro spazio e starli ad ascoltare. Rimpianto da anziani? Anche. Ma pure ascolto dei bisogni espressi da molti ragazzini e ragazzi, fuori dalle tentazioni autistiche del web (e dunque usando bene il web con tutte le opportunità della piazza libera virtuale densa di sapienza, avendo strumenti affilati per andarle a trovare).

Maestri, dunque. E studio. E buone letture. Altro che licei “corti” impoveriti a quattro anni o zero compiti a casa (lo si può fare solo se si allungano e riqualificano profondamente i tempi della scuola, migliorando molto formazione e attitudini didattiche di maestri e professori).

Ce ne sono, in giro, di maestri. Migliaia di insegnanti che, nonostante tutto, fanno il loro mestiere con competenza, passione e intelligenza didattica. E persone che, a vari livelli nei mondi della cultura (compresi alcuni spazi Tv), tengono viva quotidianamente la lezione di Elio Vittorini, uno dei maggiori intellettuali e organizzatori culturali del nostro Novecento (rileggere il suo “Politecnico”, “Il Menabò” diretto con Italo Calvino e il catalogo di una straordinaria collana di libri Einaudi, “I gettoni”, per averne conferma) e si comportano dunque sapendo che la cultura è popolare o non è. Popolare. Non volgare o sciatta o approssimativa.

Maestri come? Come Renzo Piano, per esempio (tanto per fare solo un nome di parecchi altri possibili). Compie 80 anni il 14 settembre (la “Domenica” de “IlSole24Ore” gli ha appena dedicato un lungo lucido articolo). E se ne sta nel suo studio di Parigi in contatto con gli altri studi, da Genova a New York e alle altre città del mondo in cui ci sono cantieri aperti con i suoi progetti, per continuare a pensare concretamente come fare vivere spazi e abitare il tempo in cambiamento. Ha progettato musei, auditorium, teatri, grandi centri culturali, uffici, palazzi per i giornali (“Il Sole24Ore” a Milano, il “New York Times” negli Usa). E una fabbrica, la “spina” dello stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese, la “fabbrica tra i ciliegi”, la “fabbrica bella” innovativa, efficiente, luminosa, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Parla di “rammendo delle periferie”. E continua a insegnare agli architetti più giovani il senso delle relazioni tra la tecnica più sofisticata, la creatività e l’abitabilità. La città per l’uomo. Maestro, appunto.

Maestri, ancora, come Salvatore Accardo. Che ha appena portato, venerdì scorso, la sua Orchestra da Camera Italiana a suonare in fabbrica, a Settimo, Bach e Chajkovsij e soprattutto “Il Canto della fabbrica”, una nuova composizione di Francesco Fiore ispirata proprio dai ritmi e dai suoni di quel Polo industriale digitale. La musica è tornata là dove è nata. Ad ascoltare, un migliaio di persone: un buon terzo, tecnici e operai della Pirelli e loro familiari. La musica classica, appunto, è “pop”, in luoghi inusuali (un grande reparto di macchine confezionatrici di pneumatici) e per pubblici che vogliono ascoltare, sapere, capire.

Ci sono legami di lavoro e d’amicizia, tra Piano e Accardo (“L’architettura è musica e la musica ha un’architettura. In ogni sala progettata da Piano in cui ho suonato, si sente questo suo legame con la grande musica”). Così come un altro grande musicista italiano, Luciano Berio, ha a lungo dialogato con Piano su “musica e lavoro” (per la riqualificazione dell’ex area industriale del Lingotto a Torino) e sulla nascita dell’Auditorium del Parco della Musica a Roma discutendo di suoni, architettura, filosofia e scienza (IlSole24Ore, 3 settembre)

Maestri, ancora, come Remo Bodei, filosofo italiano di respiro internazionale, che ragiona di lavoro, macchine, consumi, nuove tecnologie e robot, “saper fare” e “saper pensare”, ospite di primo piano al Festival della Filosofia in programma dal 15 al 17 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo, in 40 luoghi diversi di quelle città, territorio di fabbriche e smart economy, comunità legate dalla cultura industriale ma anche da un forte spirito di partecipazione e comunità, lungo la via Emilia che conosce competizione e solidarietà.

Ecco il punto, su cui convergono i maestri: continuare a ragionare per mettere insieme conoscenze scientifiche e saperi umanistici, “téchne” (il saper fare delle buone fabbriche) e filosofia, per tenere la cultura politecnica di tradizione italiana al passo con le sfide dell’attualità. E la sfida, oggi, è trovare sintesi originali tra l’innovazione digitale e il lavoro, la crisi delle relazioni tradizionali e le opportunità, le nuove forme dell’industria e i saperi che cambiano, i territori delle radici e la globalizzazione dei mercati. Sono sfide economiche, naturalmente. Ma anche culturali. E morali. Responsabilità di scienziati, imprenditori, persone di cultura. Di maestri.

 “Non ci sono più maestri, ci sono solo esperti del settore”. La battuta è tagliente, amarissima, sembra degna del disincanto dolente di Ennio Flaiano. E la pronuncia Enzo Jannacci nei panni di Armando, personaggio di “La bellezza del somaro”, film di qualità del 2010 per la regia di Sergio Castellitto, sceneggiatura di Margaret Mazzantini.

Il senso del conflitto è chiaro, in tempi sempre più ricchi di specialismi esasperati nei micromondi delle supercompetenze (qui viene in mente una vera citazione di Flaiano: “L’evo moderno è finito, comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato”).

Le specializzazioni sono, naturalmente, indispensabili, per andare in profondità nell’affrontare problemi, proporre soluzioni, innovare. Ma hanno bisogno anche di sguardi lunghi e generali, pensieri che incrociano competenze e culture diverse, attitudine a cogliere nessi, a sperimentare nuovi ed eccentrici punti di vista.

I nostri, insomma, sono tempi che hanno bisogno di intelligenze politecniche. Anche perché sono, contemporaneamente, affollati da chiacchiere da bar elevate a sapienza, pregiudizi, idee “poche ma confuse” (l’aforisma, attribuito a Flaiano, è di Mino Maccari, suo straordinario compagno d’avventure intellettuali), banalità spacciate per buon senso comune e destinate ad avere purtroppo ascolto sui “social”.

Ecco, sarebbe importante in tempi così, in cui tanti parlano e pochissimi leggono, troppi scrivono libri e troppo pochi frequentano le librerie, averne davvero, di bravi maestri. E nell’inferno di ignoranze dilaganti e supponenti, imparare a distinguerli, dare loro spazio e starli ad ascoltare. Rimpianto da anziani? Anche. Ma pure ascolto dei bisogni espressi da molti ragazzini e ragazzi, fuori dalle tentazioni autistiche del web (e dunque usando bene il web con tutte le opportunità della piazza libera virtuale densa di sapienza, avendo strumenti affilati per andarle a trovare).

Maestri, dunque. E studio. E buone letture. Altro che licei “corti” impoveriti a quattro anni o zero compiti a casa (lo si può fare solo se si allungano e riqualificano profondamente i tempi della scuola, migliorando molto formazione e attitudini didattiche di maestri e professori).

Ce ne sono, in giro, di maestri. Migliaia di insegnanti che, nonostante tutto, fanno il loro mestiere con competenza, passione e intelligenza didattica. E persone che, a vari livelli nei mondi della cultura (compresi alcuni spazi Tv), tengono viva quotidianamente la lezione di Elio Vittorini, uno dei maggiori intellettuali e organizzatori culturali del nostro Novecento (rileggere il suo “Politecnico”, “Il Menabò” diretto con Italo Calvino e il catalogo di una straordinaria collana di libri Einaudi, “I gettoni”, per averne conferma) e si comportano dunque sapendo che la cultura è popolare o non è. Popolare. Non volgare o sciatta o approssimativa.

Maestri come? Come Renzo Piano, per esempio (tanto per fare solo un nome di parecchi altri possibili). Compie 80 anni il 14 settembre (la “Domenica” de “IlSole24Ore” gli ha appena dedicato un lungo lucido articolo). E se ne sta nel suo studio di Parigi in contatto con gli altri studi, da Genova a New York e alle altre città del mondo in cui ci sono cantieri aperti con i suoi progetti, per continuare a pensare concretamente come fare vivere spazi e abitare il tempo in cambiamento. Ha progettato musei, auditorium, teatri, grandi centri culturali, uffici, palazzi per i giornali (“Il Sole24Ore” a Milano, il “New York Times” negli Usa). E una fabbrica, la “spina” dello stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese, la “fabbrica tra i ciliegi”, la “fabbrica bella” innovativa, efficiente, luminosa, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Parla di “rammendo delle periferie”. E continua a insegnare agli architetti più giovani il senso delle relazioni tra la tecnica più sofisticata, la creatività e l’abitabilità. La città per l’uomo. Maestro, appunto.

Maestri, ancora, come Salvatore Accardo. Che ha appena portato, venerdì scorso, la sua Orchestra da Camera Italiana a suonare in fabbrica, a Settimo, Bach e Chajkovsij e soprattutto “Il Canto della fabbrica”, una nuova composizione di Francesco Fiore ispirata proprio dai ritmi e dai suoni di quel Polo industriale digitale. La musica è tornata là dove è nata. Ad ascoltare, un migliaio di persone: un buon terzo, tecnici e operai della Pirelli e loro familiari. La musica classica, appunto, è “pop”, in luoghi inusuali (un grande reparto di macchine confezionatrici di pneumatici) e per pubblici che vogliono ascoltare, sapere, capire.

Ci sono legami di lavoro e d’amicizia, tra Piano e Accardo (“L’architettura è musica e la musica ha un’architettura. In ogni sala progettata da Piano in cui ho suonato, si sente questo suo legame con la grande musica”). Così come un altro grande musicista italiano, Luciano Berio, ha a lungo dialogato con Piano su “musica e lavoro” (per la riqualificazione dell’ex area industriale del Lingotto a Torino) e sulla nascita dell’Auditorium del Parco della Musica a Roma discutendo di suoni, architettura, filosofia e scienza (IlSole24Ore, 3 settembre)

Maestri, ancora, come Remo Bodei, filosofo italiano di respiro internazionale, che ragiona di lavoro, macchine, consumi, nuove tecnologie e robot, “saper fare” e “saper pensare”, ospite di primo piano al Festival della Filosofia in programma dal 15 al 17 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo, in 40 luoghi diversi di quelle città, territorio di fabbriche e smart economy, comunità legate dalla cultura industriale ma anche da un forte spirito di partecipazione e comunità, lungo la via Emilia che conosce competizione e solidarietà.

Ecco il punto, su cui convergono i maestri: continuare a ragionare per mettere insieme conoscenze scientifiche e saperi umanistici, “téchne” (il saper fare delle buone fabbriche) e filosofia, per tenere la cultura politecnica di tradizione italiana al passo con le sfide dell’attualità. E la sfida, oggi, è trovare sintesi originali tra l’innovazione digitale e il lavoro, la crisi delle relazioni tradizionali e le opportunità, le nuove forme dell’industria e i saperi che cambiano, i territori delle radici e la globalizzazione dei mercati. Sono sfide economiche, naturalmente. Ma anche culturali. E morali. Responsabilità di scienziati, imprenditori, persone di cultura. Di maestri.

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