Produttività, più cultura e formazione
La crisi di competitività del sistema Italia dipende anche dal suo basso tasso di produttività. E la produttività, proprio per un paese europeo che deve puntare sul “bello e ben fatto”, sul “premium”, sui prodotti “alto di gamma” e ad elevato valore aggiunto, si fonda su una serie di elementi da software sociale e culturale. Una solida consapevolezza critica della cultura del sistema Paese. Un robusto capitale sociale, per la rete di relazioni che garantiscano collaborazione e competizione solidale (“cum petere”, andare avanti insieme). E un sempre più sofisticato capitale umano, che dipende soprattutto dalla qualità e dalla quantità di formazione ricevuta. L’Italia è purtroppo sempre più carente, da questo punto di vista. Lo nota Gian Arturo Ferrari (uno dei più autorevoli manager editoriali, per anni ai vertici della Mondadori) quando denuncia sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 30 gennaio “il nesso tra una scuola rabberciata, una formazione professionale spregiata, un’università sgangherata, tassi di lettura desolanti e la loro logica conseguenza, cioè una bassissima produttività”. Una riprova? Nei drammatici dati sul crollo delle frequenze universitarie. Quasi 60mila studenti in meno negli ultimi dieci anni. Capitale umano non coltivato. Un patrimonio di potenzialità di competenze e impegno via via depauperato, proprio in tempi in cui l’elemento chiave dello sviluppo sta nei percorsi dell’”economia della conoscenza”. Che fare, allora? Servono investimenti, per una ripresa economica, che tarda a venire. E riforme radicali. Non solo sui temi economici in senso stretto. Ma, appunto, anche su cultura e formazione. Sinora, invece, destinatarie di decrescenti quote di investimenti pubblici e di spesa di cattiva qualità, al contrario che negli altri grandi paesi della Ue.
La crisi di competitività del sistema Italia dipende anche dal suo basso tasso di produttività. E la produttività, proprio per un paese europeo che deve puntare sul “bello e ben fatto”, sul “premium”, sui prodotti “alto di gamma” e ad elevato valore aggiunto, si fonda su una serie di elementi da software sociale e culturale. Una solida consapevolezza critica della cultura del sistema Paese. Un robusto capitale sociale, per la rete di relazioni che garantiscano collaborazione e competizione solidale (“cum petere”, andare avanti insieme). E un sempre più sofisticato capitale umano, che dipende soprattutto dalla qualità e dalla quantità di formazione ricevuta. L’Italia è purtroppo sempre più carente, da questo punto di vista. Lo nota Gian Arturo Ferrari (uno dei più autorevoli manager editoriali, per anni ai vertici della Mondadori) quando denuncia sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 30 gennaio “il nesso tra una scuola rabberciata, una formazione professionale spregiata, un’università sgangherata, tassi di lettura desolanti e la loro logica conseguenza, cioè una bassissima produttività”. Una riprova? Nei drammatici dati sul crollo delle frequenze universitarie. Quasi 60mila studenti in meno negli ultimi dieci anni. Capitale umano non coltivato. Un patrimonio di potenzialità di competenze e impegno via via depauperato, proprio in tempi in cui l’elemento chiave dello sviluppo sta nei percorsi dell’”economia della conoscenza”. Che fare, allora? Servono investimenti, per una ripresa economica, che tarda a venire. E riforme radicali. Non solo sui temi economici in senso stretto. Ma, appunto, anche su cultura e formazione. Sinora, invece, destinatarie di decrescenti quote di investimenti pubblici e di spesa di cattiva qualità, al contrario che negli altri grandi paesi della Ue.