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“Quarta rivoluzione industriale” e 5milioni di posti di lavoro bruciati: investire su nuove competenze

Mercati volatili, turbolenze, scenari incerti. La ripresa economica è fragile, corriamo “più rischi del previsto”, sostiene Christine Lagarde, direttore del Fmi. Da Davos, tra le montagne nevose della Svizzera, dove si sono incontrati, come ogni anno, i “potenti” dell’economia per il World Economic Forum, sono arrivati segnali di preoccupazione e d’allarme: sul crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, sulla modesta crescita cinese, su crisi in Russia e Brasile, sull’Europa appannata, su politiche monetarie divergenti quando non apertamente conflittuali. Una congiuntura difficile: “Davos, la Grande Paura sorprende i vip dell’economia”, titola con efficacia “La Stampa” (21 gennaio). Ma anche un filo di speranza: “Non ci sarà una replica del 2008”, Cina e petrolio sono punti di crisi ma non innesco d’una nuova Grande Recessione (sempre “La Stampa”, 24 gennaio, al termine del Forum). Le inquietudini comunque restano. E non riguardano solo l’attualità. Ma anche alcune prospettive d’una ripresa che non crea sufficienti posti di lavoro e di una serie di innovazioni tecnologiche che anzi minacciano di distruggerne milioni.

“The Future of Jobs and Skills” è il titolo, apparentemente neutro, d’una ricerca, presentata appunto a Davos, sull’evoluzione del lavoro fino al 2020, sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali. Il risultato è allarmante: nuove tecnologie e fattori demografici mettono a rischio 5 milioni di posti di lavoro. Sono gli effetti della “quarta rivoluzione industriale”, delle tecnologie Ict e del “cloud computing” applicate ai processi produttivi, del cosiddetto “digital manifacturing”, di un “internet delle cose” e delle stampanti 3D, di una nuova dimensione delle fabbriche nel mondo sempre più innovative, digitali, robotizzate, di una “flessibilizzazione del lavoro” che investe intere generazioni di lavoratori, sia in entrata sul mercato che soprattutto arrivate a metà percorso professionale e in affanno rispetto alle applicazioni hi tech.

La “quarta rivoluzione industriale” – si prevede – distruggerà 7 milioni di posti di lavoro, nelle aree amministrative (meno carta, più files) e in quelle della produzione tradizionale, rispettivamente con 4,8 e 1,6 milioni di posti “cancellati”. Ma ne creerà 2 mlioni di nuovi, nelle aree della finanza, del management, dei computer e dell’ingegneria, della formazione d’eccellenza, delle vendite on line. 5 milioni, dunque, il saldo. A livello mondiale.

E in Italia? Andrà meglio. In pari: 200mila in meno “tradizionali”, 200mila in più “innovativi”. Meglio che in Francia e in Germania. Più o meno come in Gran Bretagna.

Il processo è in corso. E non sono escluse sorprese. Come reagire? Puntando fin d’ora su una formazione che modifichi e aggiorni le competenze. Nel 2020, dicono le elaborazioni di Assolombarda sui dati della ricerca del World Economic Forum, “il problem solving rimarrà la soft skill più ricercata, ma contemporaneamente diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività”.

C’è una seconda riflessione, nelle rielaborazioni di Assolombarda: “Alla luce delle nuove tendenze tecnologiche, negli ultimi anni molti paesi hanno intrapreso notevoli sforzi per aumentare la quantità di laureati STEM (un acronimo che indica scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) prodotti dai loro sistemi nazionali di istruzione”. In Italia non siamo affatto allineati a questo impegno e dunque rischiamo di pregiudicare il nostro futuro di grande paese manifatturiero europeo: le nostre università sfornano pochi ingegneri, chimici, matematici (e parecchi di quelli laureati nei centri d’eccellenza, come il Politecnici di Milano e di Torino lasciano l’Italia, in cerca di migliori condizioni di lavoro e carriera) ma anche ai livelli inferiori alla laurea, l’istruzione tecnica, chiave di successo industriale, è stata a lungo messa da canto e, di recente riscoperta, non è ancora in grado di rispondere alla domanda di mercato.

In Italia, comunque, serve fare un passo in più. E insistere, più che su STEM, su STEAM, dove la A sta per “arts”, il complesso delle competenze culturali umanistiche che assicurano una particolare  distintività competitiva ai nostri prodotti e ai nostri servizi. Servono, insomma, competenze da “umanesimo politecnico”.

Ecco una parola chiave: le competenze, in sintesi originali di storia e futuro. La maggior parte delle imprese coinvolte dal sondaggio di Davos, infatti, ritiene che la chiave per gestire con successo queste dinamiche di lungo termine del mercato del lavoro sia “investire nelle competenze” più che assumere lavoratori a termine o telelavoratori. Una indicazione di grande interesse, di cui fare tesoro.

Mercati volatili, turbolenze, scenari incerti. La ripresa economica è fragile, corriamo “più rischi del previsto”, sostiene Christine Lagarde, direttore del Fmi. Da Davos, tra le montagne nevose della Svizzera, dove si sono incontrati, come ogni anno, i “potenti” dell’economia per il World Economic Forum, sono arrivati segnali di preoccupazione e d’allarme: sul crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, sulla modesta crescita cinese, su crisi in Russia e Brasile, sull’Europa appannata, su politiche monetarie divergenti quando non apertamente conflittuali. Una congiuntura difficile: “Davos, la Grande Paura sorprende i vip dell’economia”, titola con efficacia “La Stampa” (21 gennaio). Ma anche un filo di speranza: “Non ci sarà una replica del 2008”, Cina e petrolio sono punti di crisi ma non innesco d’una nuova Grande Recessione (sempre “La Stampa”, 24 gennaio, al termine del Forum). Le inquietudini comunque restano. E non riguardano solo l’attualità. Ma anche alcune prospettive d’una ripresa che non crea sufficienti posti di lavoro e di una serie di innovazioni tecnologiche che anzi minacciano di distruggerne milioni.

“The Future of Jobs and Skills” è il titolo, apparentemente neutro, d’una ricerca, presentata appunto a Davos, sull’evoluzione del lavoro fino al 2020, sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali. Il risultato è allarmante: nuove tecnologie e fattori demografici mettono a rischio 5 milioni di posti di lavoro. Sono gli effetti della “quarta rivoluzione industriale”, delle tecnologie Ict e del “cloud computing” applicate ai processi produttivi, del cosiddetto “digital manifacturing”, di un “internet delle cose” e delle stampanti 3D, di una nuova dimensione delle fabbriche nel mondo sempre più innovative, digitali, robotizzate, di una “flessibilizzazione del lavoro” che investe intere generazioni di lavoratori, sia in entrata sul mercato che soprattutto arrivate a metà percorso professionale e in affanno rispetto alle applicazioni hi tech.

La “quarta rivoluzione industriale” – si prevede – distruggerà 7 milioni di posti di lavoro, nelle aree amministrative (meno carta, più files) e in quelle della produzione tradizionale, rispettivamente con 4,8 e 1,6 milioni di posti “cancellati”. Ma ne creerà 2 mlioni di nuovi, nelle aree della finanza, del management, dei computer e dell’ingegneria, della formazione d’eccellenza, delle vendite on line. 5 milioni, dunque, il saldo. A livello mondiale.

E in Italia? Andrà meglio. In pari: 200mila in meno “tradizionali”, 200mila in più “innovativi”. Meglio che in Francia e in Germania. Più o meno come in Gran Bretagna.

Il processo è in corso. E non sono escluse sorprese. Come reagire? Puntando fin d’ora su una formazione che modifichi e aggiorni le competenze. Nel 2020, dicono le elaborazioni di Assolombarda sui dati della ricerca del World Economic Forum, “il problem solving rimarrà la soft skill più ricercata, ma contemporaneamente diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività”.

C’è una seconda riflessione, nelle rielaborazioni di Assolombarda: “Alla luce delle nuove tendenze tecnologiche, negli ultimi anni molti paesi hanno intrapreso notevoli sforzi per aumentare la quantità di laureati STEM (un acronimo che indica scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) prodotti dai loro sistemi nazionali di istruzione”. In Italia non siamo affatto allineati a questo impegno e dunque rischiamo di pregiudicare il nostro futuro di grande paese manifatturiero europeo: le nostre università sfornano pochi ingegneri, chimici, matematici (e parecchi di quelli laureati nei centri d’eccellenza, come il Politecnici di Milano e di Torino lasciano l’Italia, in cerca di migliori condizioni di lavoro e carriera) ma anche ai livelli inferiori alla laurea, l’istruzione tecnica, chiave di successo industriale, è stata a lungo messa da canto e, di recente riscoperta, non è ancora in grado di rispondere alla domanda di mercato.

In Italia, comunque, serve fare un passo in più. E insistere, più che su STEM, su STEAM, dove la A sta per “arts”, il complesso delle competenze culturali umanistiche che assicurano una particolare  distintività competitiva ai nostri prodotti e ai nostri servizi. Servono, insomma, competenze da “umanesimo politecnico”.

Ecco una parola chiave: le competenze, in sintesi originali di storia e futuro. La maggior parte delle imprese coinvolte dal sondaggio di Davos, infatti, ritiene che la chiave per gestire con successo queste dinamiche di lungo termine del mercato del lavoro sia “investire nelle competenze” più che assumere lavoratori a termine o telelavoratori. Una indicazione di grande interesse, di cui fare tesoro.

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