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Quei 500 miliardi per la transizione verde e digitale e una politica europea non ideologica ma sostenibile

Vale la pena dare retta, anche stavolta, alle parole di Mario Draghi: “I bisogni delle transizioni verde e digitale sono stimati in almeno 500 miliardi di euro all’anno”. Lo ha detto sabato a Gand, alla riunione dei ministri dell’Economia dei paesi Ue, parlando di competitività europea rispetto ai due protagonisti della scena mondiale, gli Usa e la Cina e riconfermando concetti già espressi in più occasioni. Draghi ha aggiunto che a quegli investimenti vanno aggiunti gli stanziamenti per la difesa ma anche quelli “produttivi”, per l’industria e i servizi. Spiegando che “il divario della Ue rispetto agli Usa si sta allargando soprattutto dopo il 2010”, la fine della Grande Crisi finanziaria globale. Agli Usa “sono serviti due anni per tornare ai livelli precedenti, alla Ue invece nove anni. E da allora non siamo saliti”. C’è, appunto, “un gap di investimenti dell’1,5% del Pil pari a 500 miliardi di euro”. Insomma, “dovremo investire somme enormi in tempi brevi”. Con una partecipazione sia della mano pubblica che degli investitori privati, delle imprese che, appunto su una equilibrata transizione, potranno costruire nuove e migliori ragioni di competitività internazionale.

Ci sono parecchi problemi su cui fare chiarezza, assumendosi la responsabilità di scelte impegnative. Innanzitutto, dove trovare somme così ingenti? Una risposta sta nel dare seguito al ricorso ai mercati finanziari già sperimentato con successo per i 250 miliardi necessari a spesare il Recovery Plan dedicato alla “Next Generation Eu” dopo la pandemia da Covid. E dunque nel fare ricorso agli eurobond. Sia per la difesa, secondo i suggerimenti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue (una ipotesi che però, alle prime battute, suscita le perplessità di Berlino; la Repubblica, 24 febbraio). Sia per finanziare efficacemente la twin transition ambientale e digitale, di cui parla Draghi.
Una seconda risposta sta nel fare crescere l’importo del Bilancio Ue e nel destinarne risorse adeguate agli investimenti, anche nei singoli paesi europei. E una terza risposta chiede di trarre le conseguenze d’una evidente constatazione: in un clima di incertezze e di “policrisi” o “permacrisi” che dir si voglia, gli altri grandi attori internazionali, gli Usa e la Cina innanzitutto, si muovono secondo strategie geopolitiche che tengono insieme le grandi questioni della sicurezza e dell’energia, dell’innovazione e della competitività, investendo risorse gigantesche. E l’Europa non può stare a guardare, pena la perdita del suo ruolo economico e il declino del suo prestigio politico (fondato, come abbiamo più volte scritto in questo blog, sulla capacità storica e futuribile di tenere insieme in modo virtuoso la democrazia politica, il mercato e il welfare State e cioè libertà, crescita economica e benessere diffuso).

Serve dunque un’ambiziosa politica Ue (con relativa opportuna riforma della governance, abbandonando l’obbligo delle decisioni all’unanimità tra i 27 paesi membri): difesa e sicurezza, energia e industria, transizione ambientale e digitale, lavoro e nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale sono capitoli di un’unica, lungimirante strategia di sviluppo sostenibile (nel blog delle ultime due settimane abbiamo parlato, appunto, di “umanesimo digitale” e della necessità di un’Intelligenza Artificiale europea, per fare fronte alla potenza degli Usa con le sue Big Tech, della Cina e, adesso, anche dell’India). Una sfida politica ed economica che guardi, appunto, in modo ampio, soprattutto alla “Next Generation Eu”.
Investimenti, dunque. Ma anche ricerca. Scienza. Cultura. Una strategia che renda politicamente spendibile e accettabile la sostenibilità, come sistema di valori e come concretezza di progetti di intervento e impegno. E partecipazione.
Una partecipazione su cui proprio le nuove generazioni mostrano una generosa disponibilità d’impegno.
Un segnale, tra i tanti, arriva dal mondo universitario italiano. Sono stati 2.062 i partecipanti al bando “Dieci tesi per la sostenibilità”, provenienti da oltre 80 atenei, per una iniziativa promossa da Fondazione Symbola, Unioncamere e Luiss con il sostegno di Deloitte Climate & Sustainability, con il patrocinio del Ministero dell’Università e Ricerca e della Conferenza dei Rettori. I partecipanti sono per il 62% donne e per il 38% uomini. E il comitato scientifico, presieduto da Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e da Paola Severino, presidente della Luiss School of Law è già al lavoro per individuare le tesi migliori, in ambiti che investono economia e statistica, ingegneria civile, architettura e design, scienze giuridiche, politiche e sociali, ingegneria industriale e dell’informazione, chimica e biologia e, naturalmente, tutti gli aspetti delle scienze umanistiche.

Una partecipazione “straordinaria che vale molto più di un sondaggio”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Ci potrà fornire informazioni e stimoli importanti. La possibilità di affrontare le sfide che abbiamo davanti può contare anche sulle energie pulite e rinnovabili dei saperi e delle intelligenze giovani presenti nel nostro Paese”. Ma è anche “un’occasione per dare forza a un’Italia che fa l’Italia”: “Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma potrà rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro”. Perché, sulla scia delle esortazioni all’impegno venute dal Papa e dal presidente della Repubblica Mattarella, è necessario – secondo Realacci – rendere concreto l’impegno dell’Europa, “indicando coesione, transizione verde e digitale come la strada per rafforzare la nostra economia”.
Ecco il punto cardine, su cui insistono anche le posizioni degli imprenditori europei, che legano il Green Deal a un Industrial Deal che coniughi le scelte irrinunciabili per evitare l’aggravarsi della crisi climatica ai temi dello sviluppo economico e della sostenibilità sociale. Ci sono, d’altronde, chiare testimonianze nel documento “Fabbrica Europa” preparato da Confindustria come piattaforma di confronto in vista delle elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento Ue e nella Carta firmata la scorsa settimana ad Anversa da 73 associazioni d’impresa e multinazionali energivore (Il Sole24Ore, 21 febbraio).

C’è una chiara indicazione di metodo: la neutralità tecnologica per le scelte da fare. L’obiettivo sta nei punti ESG. Come arrivarci, però, non deve dipendere dalla scelta di una tecnologia particolare. Per l’energia, anche in termini di sicurezza degli approvvigionamenti (con un’attenzione per l’atomica di nuova generazione). O per le politiche Ue ossessivamente orientate al “riuso” contro “il riciclo” e cioè contro gli imballaggi riciclabili (un primato virtuoso proprio dell’industria italiana). O, per fare ancora un altro esempio di pesante impatto, per la scelta radicale di privilegio dell’auto elettrica invece che dell’uso di motori a combustione con carburanti non inquinanti (una indicazione che, peraltro, danneggerebbe tutta l’industria europea della componentistica automotive, con drammatiche, inaccettabili ricadute sociali).
Meno ideologia green, maggiore e migliore politica industriale e sociale in chiave di concreta sostenibilità. “Un Rinascimento dell’industria per una Ue competitiva”, sintetizza Confindustria. Una strada chiara, su cui il dibattito politico ed economico europeo dovrà andare avanti.

(Foto Getty Images)

Vale la pena dare retta, anche stavolta, alle parole di Mario Draghi: “I bisogni delle transizioni verde e digitale sono stimati in almeno 500 miliardi di euro all’anno”. Lo ha detto sabato a Gand, alla riunione dei ministri dell’Economia dei paesi Ue, parlando di competitività europea rispetto ai due protagonisti della scena mondiale, gli Usa e la Cina e riconfermando concetti già espressi in più occasioni. Draghi ha aggiunto che a quegli investimenti vanno aggiunti gli stanziamenti per la difesa ma anche quelli “produttivi”, per l’industria e i servizi. Spiegando che “il divario della Ue rispetto agli Usa si sta allargando soprattutto dopo il 2010”, la fine della Grande Crisi finanziaria globale. Agli Usa “sono serviti due anni per tornare ai livelli precedenti, alla Ue invece nove anni. E da allora non siamo saliti”. C’è, appunto, “un gap di investimenti dell’1,5% del Pil pari a 500 miliardi di euro”. Insomma, “dovremo investire somme enormi in tempi brevi”. Con una partecipazione sia della mano pubblica che degli investitori privati, delle imprese che, appunto su una equilibrata transizione, potranno costruire nuove e migliori ragioni di competitività internazionale.

Ci sono parecchi problemi su cui fare chiarezza, assumendosi la responsabilità di scelte impegnative. Innanzitutto, dove trovare somme così ingenti? Una risposta sta nel dare seguito al ricorso ai mercati finanziari già sperimentato con successo per i 250 miliardi necessari a spesare il Recovery Plan dedicato alla “Next Generation Eu” dopo la pandemia da Covid. E dunque nel fare ricorso agli eurobond. Sia per la difesa, secondo i suggerimenti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue (una ipotesi che però, alle prime battute, suscita le perplessità di Berlino; la Repubblica, 24 febbraio). Sia per finanziare efficacemente la twin transition ambientale e digitale, di cui parla Draghi.
Una seconda risposta sta nel fare crescere l’importo del Bilancio Ue e nel destinarne risorse adeguate agli investimenti, anche nei singoli paesi europei. E una terza risposta chiede di trarre le conseguenze d’una evidente constatazione: in un clima di incertezze e di “policrisi” o “permacrisi” che dir si voglia, gli altri grandi attori internazionali, gli Usa e la Cina innanzitutto, si muovono secondo strategie geopolitiche che tengono insieme le grandi questioni della sicurezza e dell’energia, dell’innovazione e della competitività, investendo risorse gigantesche. E l’Europa non può stare a guardare, pena la perdita del suo ruolo economico e il declino del suo prestigio politico (fondato, come abbiamo più volte scritto in questo blog, sulla capacità storica e futuribile di tenere insieme in modo virtuoso la democrazia politica, il mercato e il welfare State e cioè libertà, crescita economica e benessere diffuso).

Serve dunque un’ambiziosa politica Ue (con relativa opportuna riforma della governance, abbandonando l’obbligo delle decisioni all’unanimità tra i 27 paesi membri): difesa e sicurezza, energia e industria, transizione ambientale e digitale, lavoro e nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale sono capitoli di un’unica, lungimirante strategia di sviluppo sostenibile (nel blog delle ultime due settimane abbiamo parlato, appunto, di “umanesimo digitale” e della necessità di un’Intelligenza Artificiale europea, per fare fronte alla potenza degli Usa con le sue Big Tech, della Cina e, adesso, anche dell’India). Una sfida politica ed economica che guardi, appunto, in modo ampio, soprattutto alla “Next Generation Eu”.
Investimenti, dunque. Ma anche ricerca. Scienza. Cultura. Una strategia che renda politicamente spendibile e accettabile la sostenibilità, come sistema di valori e come concretezza di progetti di intervento e impegno. E partecipazione.
Una partecipazione su cui proprio le nuove generazioni mostrano una generosa disponibilità d’impegno.
Un segnale, tra i tanti, arriva dal mondo universitario italiano. Sono stati 2.062 i partecipanti al bando “Dieci tesi per la sostenibilità”, provenienti da oltre 80 atenei, per una iniziativa promossa da Fondazione Symbola, Unioncamere e Luiss con il sostegno di Deloitte Climate & Sustainability, con il patrocinio del Ministero dell’Università e Ricerca e della Conferenza dei Rettori. I partecipanti sono per il 62% donne e per il 38% uomini. E il comitato scientifico, presieduto da Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e da Paola Severino, presidente della Luiss School of Law è già al lavoro per individuare le tesi migliori, in ambiti che investono economia e statistica, ingegneria civile, architettura e design, scienze giuridiche, politiche e sociali, ingegneria industriale e dell’informazione, chimica e biologia e, naturalmente, tutti gli aspetti delle scienze umanistiche.

Una partecipazione “straordinaria che vale molto più di un sondaggio”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Ci potrà fornire informazioni e stimoli importanti. La possibilità di affrontare le sfide che abbiamo davanti può contare anche sulle energie pulite e rinnovabili dei saperi e delle intelligenze giovani presenti nel nostro Paese”. Ma è anche “un’occasione per dare forza a un’Italia che fa l’Italia”: “Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma potrà rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro”. Perché, sulla scia delle esortazioni all’impegno venute dal Papa e dal presidente della Repubblica Mattarella, è necessario – secondo Realacci – rendere concreto l’impegno dell’Europa, “indicando coesione, transizione verde e digitale come la strada per rafforzare la nostra economia”.
Ecco il punto cardine, su cui insistono anche le posizioni degli imprenditori europei, che legano il Green Deal a un Industrial Deal che coniughi le scelte irrinunciabili per evitare l’aggravarsi della crisi climatica ai temi dello sviluppo economico e della sostenibilità sociale. Ci sono, d’altronde, chiare testimonianze nel documento “Fabbrica Europa” preparato da Confindustria come piattaforma di confronto in vista delle elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento Ue e nella Carta firmata la scorsa settimana ad Anversa da 73 associazioni d’impresa e multinazionali energivore (Il Sole24Ore, 21 febbraio).

C’è una chiara indicazione di metodo: la neutralità tecnologica per le scelte da fare. L’obiettivo sta nei punti ESG. Come arrivarci, però, non deve dipendere dalla scelta di una tecnologia particolare. Per l’energia, anche in termini di sicurezza degli approvvigionamenti (con un’attenzione per l’atomica di nuova generazione). O per le politiche Ue ossessivamente orientate al “riuso” contro “il riciclo” e cioè contro gli imballaggi riciclabili (un primato virtuoso proprio dell’industria italiana). O, per fare ancora un altro esempio di pesante impatto, per la scelta radicale di privilegio dell’auto elettrica invece che dell’uso di motori a combustione con carburanti non inquinanti (una indicazione che, peraltro, danneggerebbe tutta l’industria europea della componentistica automotive, con drammatiche, inaccettabili ricadute sociali).
Meno ideologia green, maggiore e migliore politica industriale e sociale in chiave di concreta sostenibilità. “Un Rinascimento dell’industria per una Ue competitiva”, sintetizza Confindustria. Una strada chiara, su cui il dibattito politico ed economico europeo dovrà andare avanti.

(Foto Getty Images)

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