Quel filo che lega Kant, Marc’Aurelio e l’impresa
Fa l’imprenditore dell’abbigliamento, un caso di successo internazionale del made in Italy. Ha fabbrica in un borgo trecentesco dalle parti di Perugia. Dedica tempo, ogni giorno, alla lettura d’un libro, dichiarando d’appassionarsi alle “Memorie di Adriano” della Yourcenar e ai dialoghi di Platone su Socrate, ai “Ricordi” di Marco Aurelio e ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci, a san Benedetto che insegna a essere “rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre” e a Kant ammirato “dal cielo stellato sopra di me e dalla legge morale dentro di me”, alla lezione della tolleranza di Federico II e a quel passo della Bibbia in cui il profeta Ezechiele chiede alla sentinella: “Quanto è lunga, la notte?”, per sentirsi rispondere: “Non è né lunga né corta, ma l’aurora sta per arrivare”.
Si chiama Brunello Cucinelli e a chi lo intervista (“La Stampa”, 15 giugno) testimonia l’importanza di una grande passione culturale per fare bene l’imprenditore. Serve cultura, infatti, per essere competitivi. Cultura tecnica (le produzioni, i prodotti). E cultura generale (i contesti, le visioni del futuro, l’anima di chi produce e di chi consuma beni e servizi). L’innovazione si esprime infatti attraverso le tecnologie. Ma le tecnologie non sono altro che pensiero che lega i percorsi della mente alle capacità delle mani. Ed è proprio la lunga storia dell’impresa in Italia a documentare come la chiave del successo stia sempre nella straordinaria capacità adattativa delle produzioni alle mutazioni di bisogni, culture, costumi e consumi dei vari pubblici, su mercati in continuo cambiamento.
Cucinelli, da imprenditore “umanista”, è l’ennesima riprova della correttezza della definizione di un grande storico come Carlo M. Cipolla sull’attitudine italiana “a fare cose belle, che piacciono al mondo”. Ed è necessario avere nel cuore profondo della propria identità i colori di Tiziano, le eresie sulla luce di Caravaggio, la curiosità spregiudicata di Giordano Bruno e Galileo, le passioni morali di Leopardi e lo scrupolo della ricerca di Giulio Natta (anche senza esplicita consapevolezza degli esatti rimandi culturali) per potere fare crescere imprese che proprio su gusto, cultura, qualità fondano la propria ragione competitiva.
“Tecnica uguale pensiero”, scriveva appunto “Il Sole24Ore” recensendo, pochi mesi fa (4 novembre 2012) la ripubblicazione, da parte di Bollati Boringhieri, della “Storia della tecnologia” curata da Singer, Holmyard, Hall e Williams nel 1954, un “classico” che ha ancora molto da dire. Cosa? Per esempio, che l’istruzione scientifica delle nuove generazioni non coincide con la semplice formazione tecnica, che la tecnologia ha strettissime parentele con la scienza, declinandola nella dimensione della “ricerca applicata” e che sono necessarie, certamente, le capacità di approfondimento specialistico, ma senza mai dimenticare l’essenzialità della visione generale. Come ogni buon filosofo della scienza sa benissimo (e come dimenticano i fanatici della tecnologia).
Importante, dunque, ragionare in modo aperto di tecnologie, di maggiore diffusione della cultura scientifica, di più fertili relazioni tra formazione universitaria e bisogni del mercato del lavoro, cioè delle imprese. Senza dimenticare, appunto, la testimonianza di Cucinelli (e le storie imprenditoriali Olivetti e Pirelli, per ampiare il discorso). E senza cadere nella trappola della contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica, ma facendo semmai tesoro dell’esperienza maturata nelle “grandes écoles” francesi, dove gli ingegneri hanno, tra le materie obbligatorie di studio, la filosofia, il teatro, la scrittura. Pensiero generale, appunto. Per non essere tecnici. Ma buoni tecnologi, capaci di pensare una macchina, i suoi effetti produttivi, le relazioni con chi le adopera, le ricadute economiche, sociali, ambientali. Come sanno bene anche i Politecnici italiani. Cultura è impresa. Così come impresa è cultura.
Fa l’imprenditore dell’abbigliamento, un caso di successo internazionale del made in Italy. Ha fabbrica in un borgo trecentesco dalle parti di Perugia. Dedica tempo, ogni giorno, alla lettura d’un libro, dichiarando d’appassionarsi alle “Memorie di Adriano” della Yourcenar e ai dialoghi di Platone su Socrate, ai “Ricordi” di Marco Aurelio e ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci, a san Benedetto che insegna a essere “rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre” e a Kant ammirato “dal cielo stellato sopra di me e dalla legge morale dentro di me”, alla lezione della tolleranza di Federico II e a quel passo della Bibbia in cui il profeta Ezechiele chiede alla sentinella: “Quanto è lunga, la notte?”, per sentirsi rispondere: “Non è né lunga né corta, ma l’aurora sta per arrivare”.
Si chiama Brunello Cucinelli e a chi lo intervista (“La Stampa”, 15 giugno) testimonia l’importanza di una grande passione culturale per fare bene l’imprenditore. Serve cultura, infatti, per essere competitivi. Cultura tecnica (le produzioni, i prodotti). E cultura generale (i contesti, le visioni del futuro, l’anima di chi produce e di chi consuma beni e servizi). L’innovazione si esprime infatti attraverso le tecnologie. Ma le tecnologie non sono altro che pensiero che lega i percorsi della mente alle capacità delle mani. Ed è proprio la lunga storia dell’impresa in Italia a documentare come la chiave del successo stia sempre nella straordinaria capacità adattativa delle produzioni alle mutazioni di bisogni, culture, costumi e consumi dei vari pubblici, su mercati in continuo cambiamento.
Cucinelli, da imprenditore “umanista”, è l’ennesima riprova della correttezza della definizione di un grande storico come Carlo M. Cipolla sull’attitudine italiana “a fare cose belle, che piacciono al mondo”. Ed è necessario avere nel cuore profondo della propria identità i colori di Tiziano, le eresie sulla luce di Caravaggio, la curiosità spregiudicata di Giordano Bruno e Galileo, le passioni morali di Leopardi e lo scrupolo della ricerca di Giulio Natta (anche senza esplicita consapevolezza degli esatti rimandi culturali) per potere fare crescere imprese che proprio su gusto, cultura, qualità fondano la propria ragione competitiva.
“Tecnica uguale pensiero”, scriveva appunto “Il Sole24Ore” recensendo, pochi mesi fa (4 novembre 2012) la ripubblicazione, da parte di Bollati Boringhieri, della “Storia della tecnologia” curata da Singer, Holmyard, Hall e Williams nel 1954, un “classico” che ha ancora molto da dire. Cosa? Per esempio, che l’istruzione scientifica delle nuove generazioni non coincide con la semplice formazione tecnica, che la tecnologia ha strettissime parentele con la scienza, declinandola nella dimensione della “ricerca applicata” e che sono necessarie, certamente, le capacità di approfondimento specialistico, ma senza mai dimenticare l’essenzialità della visione generale. Come ogni buon filosofo della scienza sa benissimo (e come dimenticano i fanatici della tecnologia).
Importante, dunque, ragionare in modo aperto di tecnologie, di maggiore diffusione della cultura scientifica, di più fertili relazioni tra formazione universitaria e bisogni del mercato del lavoro, cioè delle imprese. Senza dimenticare, appunto, la testimonianza di Cucinelli (e le storie imprenditoriali Olivetti e Pirelli, per ampiare il discorso). E senza cadere nella trappola della contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica, ma facendo semmai tesoro dell’esperienza maturata nelle “grandes écoles” francesi, dove gli ingegneri hanno, tra le materie obbligatorie di studio, la filosofia, il teatro, la scrittura. Pensiero generale, appunto. Per non essere tecnici. Ma buoni tecnologi, capaci di pensare una macchina, i suoi effetti produttivi, le relazioni con chi le adopera, le ricadute economiche, sociali, ambientali. Come sanno bene anche i Politecnici italiani. Cultura è impresa. Così come impresa è cultura.