“Resiliente”, l’economia flessibile contro la crisi
C’è un termine antico, dal sapore di nuovo, che anima il dibattito economico più sofisticato: resilienza. Si parla di “età della resilienza”, nei documenti sulle politiche economiche della Casa Bianca di Obama, ma anche nelle analisi dell’Ocse. L’espressione è risuonata in molti dei discorsi del World Economic Forum di Davos. E ha avuto eco su ben tre pagine de “la Repubblica” (23 gennaio). La “resilienza”, dunque. E cioè, con termine che viene dal latino (“resilere”: saltare indietro), adattarsi ai cambiamenti, assorbirli, non resistere frontalmente rischiando di frantumarsi ma accoglierli. Adattamento. Il contrario della rigidità. E della fragilità. Per gli studiosi degli ecosistemi, approfondire l’attitudine a ritrovare un nuovo equilibrio, dopo uno shock esterno. Per gli ingegneri che lavorano sui materiali, studiare la gomma e le plastiche o certe caratteristiche che le nanotecnologie introducono perfino negli acciai e nei cementi. Per gli economisti, definire flessibilità in relazione alle mutazioni. Ma la flessibilità, appunto, è caratteristica di fondo della cultura d’impresa italiana. E’ il “su misura”, cui si conformano non solo gli artigiani del made in Italy tradizionale, ma soprattutto i sofisticatissimi industriali delle macchine utensili, che costruiscono impianti produttivi (dalle acciaierie alle strutture per il confezionamento e l’imballaggio di prodotti alimentari o medicinali) per i loro clienti in tutto il mondo. Potremmo anche dire che l’industria italiana di qualità è sempre stata “resiliente”, adattativa. E sottolinearne adesso la contemporaneità, lungo l’orizzonte della “fabbrica degli anni Duemila”, una fabbrica che è originale sintesi tra laser e sapienza artigiana, tra laboratori di ricerca, stanze di sperimentazione dei prototipi, strutture di produzione, uffici di servizi complessi, luoghi dell’incontro tra tecniche ed estetiche, nuovi materiali, nuove forme, nuovi usi. Adesso, appunto, abbiamo persino un termine di gran moda nei più autorevoli circuiti economici per dare nome a questa nostra attitudine. “L’industria resiliente”. Letterariamente, forse, non è il massimo della bellezza formale. Nella sostanza, è il riconoscimento di un successo. Su cui insistere.
C’è un termine antico, dal sapore di nuovo, che anima il dibattito economico più sofisticato: resilienza. Si parla di “età della resilienza”, nei documenti sulle politiche economiche della Casa Bianca di Obama, ma anche nelle analisi dell’Ocse. L’espressione è risuonata in molti dei discorsi del World Economic Forum di Davos. E ha avuto eco su ben tre pagine de “la Repubblica” (23 gennaio). La “resilienza”, dunque. E cioè, con termine che viene dal latino (“resilere”: saltare indietro), adattarsi ai cambiamenti, assorbirli, non resistere frontalmente rischiando di frantumarsi ma accoglierli. Adattamento. Il contrario della rigidità. E della fragilità. Per gli studiosi degli ecosistemi, approfondire l’attitudine a ritrovare un nuovo equilibrio, dopo uno shock esterno. Per gli ingegneri che lavorano sui materiali, studiare la gomma e le plastiche o certe caratteristiche che le nanotecnologie introducono perfino negli acciai e nei cementi. Per gli economisti, definire flessibilità in relazione alle mutazioni. Ma la flessibilità, appunto, è caratteristica di fondo della cultura d’impresa italiana. E’ il “su misura”, cui si conformano non solo gli artigiani del made in Italy tradizionale, ma soprattutto i sofisticatissimi industriali delle macchine utensili, che costruiscono impianti produttivi (dalle acciaierie alle strutture per il confezionamento e l’imballaggio di prodotti alimentari o medicinali) per i loro clienti in tutto il mondo. Potremmo anche dire che l’industria italiana di qualità è sempre stata “resiliente”, adattativa. E sottolinearne adesso la contemporaneità, lungo l’orizzonte della “fabbrica degli anni Duemila”, una fabbrica che è originale sintesi tra laser e sapienza artigiana, tra laboratori di ricerca, stanze di sperimentazione dei prototipi, strutture di produzione, uffici di servizi complessi, luoghi dell’incontro tra tecniche ed estetiche, nuovi materiali, nuove forme, nuovi usi. Adesso, appunto, abbiamo persino un termine di gran moda nei più autorevoli circuiti economici per dare nome a questa nostra attitudine. “L’industria resiliente”. Letterariamente, forse, non è il massimo della bellezza formale. Nella sostanza, è il riconoscimento di un successo. Su cui insistere.