Ricostruire la fiducia, per affrontare divari sociali e diseguaglianze di genere e generazione
“Ricostruire la fiducia”, è la parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum, il convegno dei 2.800 principali protagonisti dell’economia mondiale riuniti, come ogni anno, a Davos, tra le montagne cariche di neve in Svizzera. La fiducia delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari e delle istituzioni, per evitare i rischi di un forte indebolimento delle economie mondiali.
Come? Provando innanzitutto a costruire risposte credibili, di lungo periodo, ai tanti focolai di crisi aperti in tutto il mondo (Ucraina, Medio Oriente, area del Pacifico) e alle loro conseguenze economiche (il parziale blocco del Mar Rosso, per i conflitti scatenati dagli islamisti yemeniti Houthi, potrebbe portare a un forte rallentamento dell’industria europea e alla recessione).
Servono dunque rassicuranti prospettive di politica internazionale, anche se al momento non si intravvedono attori autorevoli e lungimiranti, capaci di costruire soluzioni diplomatiche ampiamente condivisibili. Ma, proprio in nome della fiducia, è necessario ragionare pure su scelte politiche in grado di dare risposte concrete non solo alla stentata crescita economica (la recessione in Germania, principale attore economico Ue, coinvolge pesantemente gli altri paesi europei, a cominciare proprio dall’Italia) ma anche al diffuso disagio sociale che nasce dall’aumento di divari e diseguaglianze (sociali, appunto, ma anche territoriali tra Nord e Sud del mondo, di genere e di generazione, di condizioni economiche e culturali, di conoscenza e di accesso ai beni primari, come la salute e l’istruzione).
Divari drammatici e crescenti (il Rapporto Oxfam diffuso appunto a Davos rivela che i 5 uomini più ricchi del mondo, dal 2020 a oggi, hanno più che raddoppiato le loro fortune, da 405 a 869 miliardi di dollari, mentre 5 miliardi di persone più povere hanno visto invariata la propria condizione). Divari sempre meno accettabili. Che minano profondamente le prospettive di futuro per le nuove generazioni e mettono radicalmente in crisi non solo gli assetti dell’economia, ma anche la stabilità politica di parecchi paesi e, dagli Usa all’Europa, le stesse prospettive di tenuta delle nostre democrazie (sotto la spinta perversa di populismi, sovranismi, localismi escludenti).
Il tema della fiducia, nel futuro, nelle istituzioni, nelle rappresentanze politiche e sindacali e nell’autorevolezza progettuale delle élites intellettuali tocca profondamente anche l’Italia. E da tempo, proprio sui media principali, il tema si propone con insistenza all’attenzione di un’opinione pubblica sensibile al crescere delle fragilità generali e personali e degli squilibri di vita quotidiana e di opportunità per il tempo che verrà. Una frattura di fiducia, appunto.
Ecco alcuni dati, per dare corpo “all’inverno del nostro scontento”, a un contesto di crescente disagio. La Banca d’Italia (Il Sole24Ore, 9 gennaio) documenta che il 5% delle famiglie italiane benestanti ha il 46% della ricchezza netta totale (il patrimonio, come somma di tutti i valori reali e finanziari della famiglia, al netto dell’indebitamento). La metà più povera del paese ne ha appena il 7,6%, legata in gran parte alla proprietà della casa di prima abitazione della famiglia, un valore importante, certo, ma poco utile per fare fronte a bisogni crescenti di vita e a spese e investimenti essenziali (la salute, l’educazione delle nuove generazioni). In sintesi: pur se padroni della casa in cui vivono, i ceti medi si impoveriscono e i loro figli rischiano di peggiorare ancora la propria condizione.
La diseguaglianza di ricchezza in Italia, è vero, è meno forte che in altri paesi, come la Germania o gli Usa (nell’Indice di Gini, che in una scala da 0 a 1 misura la distribuzione della ricchezza, il dato dell’Italia è cresciuto da 0,67 a 0,7). Ma in Germania e in Francia, tanto per ragionare su un altro dato, i salari negli ultimi vent’anni, sono cresciuti del 33%, al pari della produttività, mentre da noi sono rimasti sostanzialmente fermi (+0,36%, per l’esattezza). I provvedimenti per abbattere il cuneo fiscale vanno resi strutturali. E l’aggancio dell’aumento dei salari a quello della produttività sono strade da percorrere con decisione.
Ancora qualche altro dato, per riflettere: l’Istat documenta che ci sono 1,3 milioni di contratti sotto la soglia del salario minimo (posti con retribuzione oraria inferiore a 7,79 euro, un vero e proprio “lavoro povero” che penalizza attività a tempo determinato, giovani sotto i trent’anni, donne e apprendisti; la Repubblica 11 gennaio). L’Assegno di inclusione, che ha sostituito il contestato Reddito di cittadinanza, raggiunge solo 450mila famiglie. E le condizioni di povertà (reddito medio mensile inferiore a 640 euro) riguarda 2,18 milioni di famiglie, l’8,3% del totale (erano il 7,7% nel ‘21) o, se vogliamo guardare un altro punto di vista, 5,6 milioni di persone (il 9,7% degli italiani, in crescita dal 9,1% degli anni precedenti).
“Un italiano su sei soffre la fame”, sintetizza Chiara Saraceno su La Stampa (11 gennaio), analizzando la spesa delle famiglie nei discount e documentando i tagli robusti alla quantità e alla qualità del cibo, con conseguenze sulla salute, anche dei bambini (il cibo spazzatura rafforza la diffusione dell’obesità). E sempre La Stampa (15 gennaio) racconta che per “farmaci e liste d’attesa è più povero un italiano su sei”. Secondo il Rapporto Asvis sui territori per il 2023, “in Italia aumentano le diseguaglianze: povertà crescente, rischi ambientali peggioranti, laureati in diminuzione” (la Repubblica, 13 dicembre ’23).
Servono, dunque, scelte politiche di grande rilievo, per fronteggiare la crisi e ricostruire, come dicevamo, la fiducia. Non solo dal punto di vista dell’emergenza. Ma soprattutto per dare una prospettiva all’Italia, nel contesto europeo. E per rimettere finalmente in moto un ascensore sociale fermo da trent’anni, ridando prospettive alle ragazze e ai ragazzi, evitando che si sentano sempre più costretti ad abbandonare l’Italia e cercare altrove migliori prospettive di lavoro e di vita.
Politiche di riforma. Fiscale, in primo piano (è intollerabile che il 42% degli italiani si faccia carico dell’Irpef di tutti, con larghe aree di evasione fiscale, soprattutto tra gli autonomi, come documenta Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, 15 gennaio). Del mercato del lavoro. Della formazione, migliorando qualità e diffusione della conoscenza. Dello sviluppo industriale. Le risorse del Pnrr, da spendere presto e bene, sono una leva indispensabile, così come l’uso accorto degli altri fondi della Ue.
Ecco il punto cardine: politiche che favoriscano l’impresa e non le rendite di posizione, stimolino l’innovazione, la produttività e la competitività e mettano l’Italia in condizione di continuare a giocare il proprio ruolo di secondo grande paese manifatturiero Ue, dopo la Germania. Ricordando che proprio la manifattura (lo abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), grazie alla forza del suo export, è stata la forza principale della nostra crescita economica negli anni scorsi. In sintesi: politica industriale e non protezione clientelare delle corporazioni.
L’orizzonte deve continuare a restare l’Europa, con i suoi valori di sviluppo sostenibile e di inclusione sociale. Rivalutando il patrimonio culturale e morale di un continente che ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, il mercato, il welfare. Un patrimonio cui siamo da lungo tempo abituati. E che però l’usura nei nuovi processi storici e la crescita delle diseguaglianze di cui abbiamo parlato sta mettendo in crisi.
Ricostruire fiducia, dunque. Senza rassegnarsi al declino.
(Photo Getty Images)
“Ricostruire la fiducia”, è la parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum, il convegno dei 2.800 principali protagonisti dell’economia mondiale riuniti, come ogni anno, a Davos, tra le montagne cariche di neve in Svizzera. La fiducia delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari e delle istituzioni, per evitare i rischi di un forte indebolimento delle economie mondiali.
Come? Provando innanzitutto a costruire risposte credibili, di lungo periodo, ai tanti focolai di crisi aperti in tutto il mondo (Ucraina, Medio Oriente, area del Pacifico) e alle loro conseguenze economiche (il parziale blocco del Mar Rosso, per i conflitti scatenati dagli islamisti yemeniti Houthi, potrebbe portare a un forte rallentamento dell’industria europea e alla recessione).
Servono dunque rassicuranti prospettive di politica internazionale, anche se al momento non si intravvedono attori autorevoli e lungimiranti, capaci di costruire soluzioni diplomatiche ampiamente condivisibili. Ma, proprio in nome della fiducia, è necessario ragionare pure su scelte politiche in grado di dare risposte concrete non solo alla stentata crescita economica (la recessione in Germania, principale attore economico Ue, coinvolge pesantemente gli altri paesi europei, a cominciare proprio dall’Italia) ma anche al diffuso disagio sociale che nasce dall’aumento di divari e diseguaglianze (sociali, appunto, ma anche territoriali tra Nord e Sud del mondo, di genere e di generazione, di condizioni economiche e culturali, di conoscenza e di accesso ai beni primari, come la salute e l’istruzione).
Divari drammatici e crescenti (il Rapporto Oxfam diffuso appunto a Davos rivela che i 5 uomini più ricchi del mondo, dal 2020 a oggi, hanno più che raddoppiato le loro fortune, da 405 a 869 miliardi di dollari, mentre 5 miliardi di persone più povere hanno visto invariata la propria condizione). Divari sempre meno accettabili. Che minano profondamente le prospettive di futuro per le nuove generazioni e mettono radicalmente in crisi non solo gli assetti dell’economia, ma anche la stabilità politica di parecchi paesi e, dagli Usa all’Europa, le stesse prospettive di tenuta delle nostre democrazie (sotto la spinta perversa di populismi, sovranismi, localismi escludenti).
Il tema della fiducia, nel futuro, nelle istituzioni, nelle rappresentanze politiche e sindacali e nell’autorevolezza progettuale delle élites intellettuali tocca profondamente anche l’Italia. E da tempo, proprio sui media principali, il tema si propone con insistenza all’attenzione di un’opinione pubblica sensibile al crescere delle fragilità generali e personali e degli squilibri di vita quotidiana e di opportunità per il tempo che verrà. Una frattura di fiducia, appunto.
Ecco alcuni dati, per dare corpo “all’inverno del nostro scontento”, a un contesto di crescente disagio. La Banca d’Italia (Il Sole24Ore, 9 gennaio) documenta che il 5% delle famiglie italiane benestanti ha il 46% della ricchezza netta totale (il patrimonio, come somma di tutti i valori reali e finanziari della famiglia, al netto dell’indebitamento). La metà più povera del paese ne ha appena il 7,6%, legata in gran parte alla proprietà della casa di prima abitazione della famiglia, un valore importante, certo, ma poco utile per fare fronte a bisogni crescenti di vita e a spese e investimenti essenziali (la salute, l’educazione delle nuove generazioni). In sintesi: pur se padroni della casa in cui vivono, i ceti medi si impoveriscono e i loro figli rischiano di peggiorare ancora la propria condizione.
La diseguaglianza di ricchezza in Italia, è vero, è meno forte che in altri paesi, come la Germania o gli Usa (nell’Indice di Gini, che in una scala da 0 a 1 misura la distribuzione della ricchezza, il dato dell’Italia è cresciuto da 0,67 a 0,7). Ma in Germania e in Francia, tanto per ragionare su un altro dato, i salari negli ultimi vent’anni, sono cresciuti del 33%, al pari della produttività, mentre da noi sono rimasti sostanzialmente fermi (+0,36%, per l’esattezza). I provvedimenti per abbattere il cuneo fiscale vanno resi strutturali. E l’aggancio dell’aumento dei salari a quello della produttività sono strade da percorrere con decisione.
Ancora qualche altro dato, per riflettere: l’Istat documenta che ci sono 1,3 milioni di contratti sotto la soglia del salario minimo (posti con retribuzione oraria inferiore a 7,79 euro, un vero e proprio “lavoro povero” che penalizza attività a tempo determinato, giovani sotto i trent’anni, donne e apprendisti; la Repubblica 11 gennaio). L’Assegno di inclusione, che ha sostituito il contestato Reddito di cittadinanza, raggiunge solo 450mila famiglie. E le condizioni di povertà (reddito medio mensile inferiore a 640 euro) riguarda 2,18 milioni di famiglie, l’8,3% del totale (erano il 7,7% nel ‘21) o, se vogliamo guardare un altro punto di vista, 5,6 milioni di persone (il 9,7% degli italiani, in crescita dal 9,1% degli anni precedenti).
“Un italiano su sei soffre la fame”, sintetizza Chiara Saraceno su La Stampa (11 gennaio), analizzando la spesa delle famiglie nei discount e documentando i tagli robusti alla quantità e alla qualità del cibo, con conseguenze sulla salute, anche dei bambini (il cibo spazzatura rafforza la diffusione dell’obesità). E sempre La Stampa (15 gennaio) racconta che per “farmaci e liste d’attesa è più povero un italiano su sei”. Secondo il Rapporto Asvis sui territori per il 2023, “in Italia aumentano le diseguaglianze: povertà crescente, rischi ambientali peggioranti, laureati in diminuzione” (la Repubblica, 13 dicembre ’23).
Servono, dunque, scelte politiche di grande rilievo, per fronteggiare la crisi e ricostruire, come dicevamo, la fiducia. Non solo dal punto di vista dell’emergenza. Ma soprattutto per dare una prospettiva all’Italia, nel contesto europeo. E per rimettere finalmente in moto un ascensore sociale fermo da trent’anni, ridando prospettive alle ragazze e ai ragazzi, evitando che si sentano sempre più costretti ad abbandonare l’Italia e cercare altrove migliori prospettive di lavoro e di vita.
Politiche di riforma. Fiscale, in primo piano (è intollerabile che il 42% degli italiani si faccia carico dell’Irpef di tutti, con larghe aree di evasione fiscale, soprattutto tra gli autonomi, come documenta Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, 15 gennaio). Del mercato del lavoro. Della formazione, migliorando qualità e diffusione della conoscenza. Dello sviluppo industriale. Le risorse del Pnrr, da spendere presto e bene, sono una leva indispensabile, così come l’uso accorto degli altri fondi della Ue.
Ecco il punto cardine: politiche che favoriscano l’impresa e non le rendite di posizione, stimolino l’innovazione, la produttività e la competitività e mettano l’Italia in condizione di continuare a giocare il proprio ruolo di secondo grande paese manifatturiero Ue, dopo la Germania. Ricordando che proprio la manifattura (lo abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), grazie alla forza del suo export, è stata la forza principale della nostra crescita economica negli anni scorsi. In sintesi: politica industriale e non protezione clientelare delle corporazioni.
L’orizzonte deve continuare a restare l’Europa, con i suoi valori di sviluppo sostenibile e di inclusione sociale. Rivalutando il patrimonio culturale e morale di un continente che ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, il mercato, il welfare. Un patrimonio cui siamo da lungo tempo abituati. E che però l’usura nei nuovi processi storici e la crescita delle diseguaglianze di cui abbiamo parlato sta mettendo in crisi.
Ricostruire fiducia, dunque. Senza rassegnarsi al declino.
(Photo Getty Images)