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Ridisegnare le città, tra ombre e speranze e rilanciare Milano produttiva e inclusiva

L’alternativa alle città non è la campagna, ma il deserto. Fisico e affettivo”. Sono parole di Renzo Piano, uno dei maggiori architetti internazionali, che riflette sulle tante voci che, in tempi di pandemia e di crisi economiche e sociali, danno per tramontate le metropoli a vantaggio della vita nei borghi o nei paesi agricoli (“Il Foglio”, 13 maggio). Un tramonto prematuramente annunciato. Perché se è vero che non le metropoli ma le megalopoli rivelano un eccesso di fragilità economica e sociale che ne potrebbero limitare l’ulteriore espansione, è altrettanto vero che le aree metropolitane, più piccole e meno squilibrate, sono luoghi ancora vitali, segnati da una “economia di condensa” che continua ad attrarre risorse umane, finanziarie, culturali, sociali e a proporre ipotesi in cui produttività e inclusione sociale non sono antinomie obbligate.

Siamo comunque in un’epoca di cambiamenti, accelerati dalla pandemia, dalla presa d’atto delle nostre vulnerabilità, come persone e come corpi sociali. E la sfida che abbiamo di fronte è proprio quella di imparare a fare i conti con le questioni della sostenibilità, con le crescenti rivendicazioni di una migliore qualità della vita e del lavoro. Città da ripensare, dunque. E da mettere al centro di una nuova rete di relazioni, tipiche peraltro proprio di un’Italia storicamente caratterizzata dai mille comuni e campanili, ma anche da un intreccio di città grandi, medie e piccole. Città, comunque, segnate da centri storici da fare rivivere e da periferie “da rammendare”, come progetta sempre Piano. Città da conoscere meglio.

E’ questo anche il tema della 17° Biennale di Architettura di Venezia, inaugurata il 21 maggio: “How will we live togheter?”. Installazioni, progetti, ipotesi di ridisegno dello spazio urbano ma anche degli interni dei luoghi della vita e del lavoro, nel segno di una ricerca ambientalista d’avanguardia. Hashim Sarkis, il curatore, ha dato spazio ai tentativi di risposta alle tante inquietudini di questi nostri tempi ruvidi e controversi, ha raccolto testimonianze originali di ricerca sulla sostenibilità, ha ibridato progetti e linguaggi (ascoltando pure suggestioni tipiche più dell’arte contemporanea che dell’architettura). E ha comunque costruito una discussa rappresentazione dei tanti stimoli al cambiamento che agitano, tra preoccupazioni e speranze, i nostri giorni inquieti.

Vale la pena, oltre che agli architetti, di dare ascolto anche ai buoni scrittori. Prendendo per esempio Milano, ecco il suggerimento di Alessandro Robecchi: “La metropoli non è un monolite. Devi imparare a convivere con i suoi lati oscuri” (“Corriere della Sera”, 22 maggio). Robecchi è autore di una serie di noir di successo, pubblicati da Sellerio e ambientati appunto a Milano. Critico con i fondali scintillanti (e in gran parte fasulli) del design frivolo, della moda stupefacente, della ricchezza sfacciatamente esibita, va alla ricerca dell’anima nera, del cuore di tenebra, delle ombre che nascondono vite disperate. E così rende Milano molto più vera, intensa, capace di un’umanità densa su cui ricostruire fiducia, ritessere politiche urbane e scelte di gruppo e individuali che, proprio nel segno d’un migliore “live togheter”, possono riqualificare il nostro tempo. Ricostruire più equilibrati assetti economici. Legare il verde degli alberi in strade e piazze (il programma di fine legislatura dell’attuale amministrazione comunale guidata dal sindaco Beppe Sala) al miglioramento delle relazioni sociali e professionali.

Metropoli. E prossimità. Smart working e competitività. Mobilità “dolce” e sperimentazione sociale e culturale. Crisi. E ripresa.

Il punto di ripartenza sta nella presa d’atto di una condizione: Milano e più in generale la Lombardia sono da tempo un punto di riferimento europeo e un’area produttiva unica in Europa, in cui si intersecano manifattura, finanza, servizi, cultura, formazione e ricerca. Qui le imprese hanno subito uno stop drammatico e la crisi si è fatta sentire con pesantezza, ma non è certo il caso di gridare al declino. Ci sono debolezze. E settori in difficoltà, dal turismo agli eventi, dalle fiere a parte dei servizi. Ma la manifattura lombarda, che è tra le più esposte sui mercati internazionali, è in piedi, reattiva, dinamica. Ha mantenuto il suo ruolo nelle grandi catene globali delle forniture. Ed è nel bel mezzo di un processo evolutivo iniziato prima della pandemia.

I processi di digitalizzazione, sostenibilità, transizione ecologica e dell’economia della conoscenza risalgono al post-crisi del 2008, e ci accompagneranno nel corso di tutto il decennio. Ora, piuttosto, si tratta di accelerare quei processi, insistendo sul miglioramento di produttività e competitività. A partire dalla spinta del Recovery Fund accolta nel Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza del governo Draghi: fondi da usare bene e rapidamente su ambiente, digital economy, formazione, ricerca. Nella stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche e imprese private.

Milano, metropoli, è l’insieme delle sue industrie, delle banche, delle università, dei grandi centri di cultura e di ricerca e delle infrastrutture per la mobilità di respiro internazionale. E’ una rete di flussi, dai confini mobili e dinamici, di incroci di competenze e specializzazioni, di radici locali e rapporti globali, di cultura della responsabilità pubblica e dell’intraprendenza privata.

Storicamente, ha avuto come punti di forza le relazioni con i territori circostanti, la capacità di legare buona amministrazione e dinamica imprenditorialità, competitività e inclusione sociale, innovazione e solidarietà. E oggi i suoi asset sono in piedi: gli investimenti immobiliari internazionali, l’attrattività delle università, l’innovazione che si esplicita in primati di brevetti e start up, la finanza, la cultura. Cardini da cui ripartire, senza arroganza, senza sottovalutare fragilità e debolezze. Ma avendo un ruolo attivo, in una geografia economica lombarda policentrica, nel cambio di paradigma per l’economia sostenibile. Milano e la Lombardia, senza campanilismi, devono insistere sulla forza delle interconnessioni, fisiche e digitali. I territori produttivi sono indissolubilmente intrecciati in una serie di interdipendenze, nella quale Milano costituisce un nodo fondamentale della rete che coinvolge Torino e Genova, il Nord Est delle piccole imprese diventate cerniere di filiere dinamiche e l’Emilia automobilistica, meccanica e alimentare, l’intero Nord, insomma: un territorio complesso di città grandi e piccole, di paesi e borghi e di aree fortemente industrializzate.

C’è chi, in tempi difficili, agita ancora le contrapposizioni pro-o-contro Milano. Un errore. Perché Brescia, Bergamo, Torino e Bologna formano, insieme al capoluogo lombardo, un grande, originale corpo produttivo che s’inserisce nel più ampio disegno dell’Europa mediterranea. Luoghi intensi di flussi produttivi e civili in cui è possibile, con spirito critico e capacità costruttiva, di dare risposte concrete anche alla domanda della Biennale di Venezia: qui, sì che si può provare a vivere meglio insieme.

L’alternativa alle città non è la campagna, ma il deserto. Fisico e affettivo”. Sono parole di Renzo Piano, uno dei maggiori architetti internazionali, che riflette sulle tante voci che, in tempi di pandemia e di crisi economiche e sociali, danno per tramontate le metropoli a vantaggio della vita nei borghi o nei paesi agricoli (“Il Foglio”, 13 maggio). Un tramonto prematuramente annunciato. Perché se è vero che non le metropoli ma le megalopoli rivelano un eccesso di fragilità economica e sociale che ne potrebbero limitare l’ulteriore espansione, è altrettanto vero che le aree metropolitane, più piccole e meno squilibrate, sono luoghi ancora vitali, segnati da una “economia di condensa” che continua ad attrarre risorse umane, finanziarie, culturali, sociali e a proporre ipotesi in cui produttività e inclusione sociale non sono antinomie obbligate.

Siamo comunque in un’epoca di cambiamenti, accelerati dalla pandemia, dalla presa d’atto delle nostre vulnerabilità, come persone e come corpi sociali. E la sfida che abbiamo di fronte è proprio quella di imparare a fare i conti con le questioni della sostenibilità, con le crescenti rivendicazioni di una migliore qualità della vita e del lavoro. Città da ripensare, dunque. E da mettere al centro di una nuova rete di relazioni, tipiche peraltro proprio di un’Italia storicamente caratterizzata dai mille comuni e campanili, ma anche da un intreccio di città grandi, medie e piccole. Città, comunque, segnate da centri storici da fare rivivere e da periferie “da rammendare”, come progetta sempre Piano. Città da conoscere meglio.

E’ questo anche il tema della 17° Biennale di Architettura di Venezia, inaugurata il 21 maggio: “How will we live togheter?”. Installazioni, progetti, ipotesi di ridisegno dello spazio urbano ma anche degli interni dei luoghi della vita e del lavoro, nel segno di una ricerca ambientalista d’avanguardia. Hashim Sarkis, il curatore, ha dato spazio ai tentativi di risposta alle tante inquietudini di questi nostri tempi ruvidi e controversi, ha raccolto testimonianze originali di ricerca sulla sostenibilità, ha ibridato progetti e linguaggi (ascoltando pure suggestioni tipiche più dell’arte contemporanea che dell’architettura). E ha comunque costruito una discussa rappresentazione dei tanti stimoli al cambiamento che agitano, tra preoccupazioni e speranze, i nostri giorni inquieti.

Vale la pena, oltre che agli architetti, di dare ascolto anche ai buoni scrittori. Prendendo per esempio Milano, ecco il suggerimento di Alessandro Robecchi: “La metropoli non è un monolite. Devi imparare a convivere con i suoi lati oscuri” (“Corriere della Sera”, 22 maggio). Robecchi è autore di una serie di noir di successo, pubblicati da Sellerio e ambientati appunto a Milano. Critico con i fondali scintillanti (e in gran parte fasulli) del design frivolo, della moda stupefacente, della ricchezza sfacciatamente esibita, va alla ricerca dell’anima nera, del cuore di tenebra, delle ombre che nascondono vite disperate. E così rende Milano molto più vera, intensa, capace di un’umanità densa su cui ricostruire fiducia, ritessere politiche urbane e scelte di gruppo e individuali che, proprio nel segno d’un migliore “live togheter”, possono riqualificare il nostro tempo. Ricostruire più equilibrati assetti economici. Legare il verde degli alberi in strade e piazze (il programma di fine legislatura dell’attuale amministrazione comunale guidata dal sindaco Beppe Sala) al miglioramento delle relazioni sociali e professionali.

Metropoli. E prossimità. Smart working e competitività. Mobilità “dolce” e sperimentazione sociale e culturale. Crisi. E ripresa.

Il punto di ripartenza sta nella presa d’atto di una condizione: Milano e più in generale la Lombardia sono da tempo un punto di riferimento europeo e un’area produttiva unica in Europa, in cui si intersecano manifattura, finanza, servizi, cultura, formazione e ricerca. Qui le imprese hanno subito uno stop drammatico e la crisi si è fatta sentire con pesantezza, ma non è certo il caso di gridare al declino. Ci sono debolezze. E settori in difficoltà, dal turismo agli eventi, dalle fiere a parte dei servizi. Ma la manifattura lombarda, che è tra le più esposte sui mercati internazionali, è in piedi, reattiva, dinamica. Ha mantenuto il suo ruolo nelle grandi catene globali delle forniture. Ed è nel bel mezzo di un processo evolutivo iniziato prima della pandemia.

I processi di digitalizzazione, sostenibilità, transizione ecologica e dell’economia della conoscenza risalgono al post-crisi del 2008, e ci accompagneranno nel corso di tutto il decennio. Ora, piuttosto, si tratta di accelerare quei processi, insistendo sul miglioramento di produttività e competitività. A partire dalla spinta del Recovery Fund accolta nel Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza del governo Draghi: fondi da usare bene e rapidamente su ambiente, digital economy, formazione, ricerca. Nella stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche e imprese private.

Milano, metropoli, è l’insieme delle sue industrie, delle banche, delle università, dei grandi centri di cultura e di ricerca e delle infrastrutture per la mobilità di respiro internazionale. E’ una rete di flussi, dai confini mobili e dinamici, di incroci di competenze e specializzazioni, di radici locali e rapporti globali, di cultura della responsabilità pubblica e dell’intraprendenza privata.

Storicamente, ha avuto come punti di forza le relazioni con i territori circostanti, la capacità di legare buona amministrazione e dinamica imprenditorialità, competitività e inclusione sociale, innovazione e solidarietà. E oggi i suoi asset sono in piedi: gli investimenti immobiliari internazionali, l’attrattività delle università, l’innovazione che si esplicita in primati di brevetti e start up, la finanza, la cultura. Cardini da cui ripartire, senza arroganza, senza sottovalutare fragilità e debolezze. Ma avendo un ruolo attivo, in una geografia economica lombarda policentrica, nel cambio di paradigma per l’economia sostenibile. Milano e la Lombardia, senza campanilismi, devono insistere sulla forza delle interconnessioni, fisiche e digitali. I territori produttivi sono indissolubilmente intrecciati in una serie di interdipendenze, nella quale Milano costituisce un nodo fondamentale della rete che coinvolge Torino e Genova, il Nord Est delle piccole imprese diventate cerniere di filiere dinamiche e l’Emilia automobilistica, meccanica e alimentare, l’intero Nord, insomma: un territorio complesso di città grandi e piccole, di paesi e borghi e di aree fortemente industrializzate.

C’è chi, in tempi difficili, agita ancora le contrapposizioni pro-o-contro Milano. Un errore. Perché Brescia, Bergamo, Torino e Bologna formano, insieme al capoluogo lombardo, un grande, originale corpo produttivo che s’inserisce nel più ampio disegno dell’Europa mediterranea. Luoghi intensi di flussi produttivi e civili in cui è possibile, con spirito critico e capacità costruttiva, di dare risposte concrete anche alla domanda della Biennale di Venezia: qui, sì che si può provare a vivere meglio insieme.

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