S’aggrava la “fuga dei cervelli” anche se imprese e università varano programmi per cambiare corso
Partire è un po’ morire? Suona strano, a dirsi, in tempi di globalizzazione, movimenti veloci, scambi frenetici, in un mondo che è diventato più piccolo e interconnesso. Eppure è proprio il vecchio modo di dire, l’addio, la ferita dei legami e delle radici, a venire in mente quando si legge che nel 2015 sono andati via dall’Italia oltre 107 mila nostri concittadini, più di un terzo dei quali nell’età (18-34 anni) in cui si va altrove per cercare maggiori e migliori ragioni di lavoro e di vita. Non sono più, è vero, le stagioni antiche degli “emigranti per sempre”, si partiva ragazzi, si tornava a morire nell’antico paese. Ma il dato, frutto della rilevazione annuale della Fondazione Migrantes (una delle più attive e autorevoli istituzioni della Chiesa), è comunque impressionante.
Per parecchi motivi. Intanto, perché è sensibilmente più alto del dato dell’anno precedente (il 6,2% in più) e perché conferma una tendenza in corso da tempo: nell’Italia che ha subìto una durissima recessione e continua a crescere pochissimo, le opportunità d’un buon futuro, soprattutto per le nuove generazioni, sono quanto mai rarefatte. Ne sono preoccupati, giustamente, sia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia il premier Matteo Renzi, che insistono, ognuno a suo modo, sull’importanza di garantire ai nostri giovani un buon futuro in Italia. Ma, auspici politici a parte, il fenomeno è grave.
I motivi del cui si parte sono “le offerte di lavoro all’estero” (23,8%) ma anche la consapevolezza di “mancanza di opportunità in Italia” (38,3%). E tra chi parte ci sono anche 13.807 ragazzini, da 0 a 9 anni: segno che si trasferiscono interi nuclei familiari.
Da dove si parte? Dalla Lombardia, dalla ricca Lombardia, innanzitutto: più di 20 mila persone. Poi, il 10mila dal Nord Est industriale. Al terzo posto, c’è la Sicilia, con 9.800 partenze. Poi il Lazio (8.400) e poi ancora l’operoso Piemonte (8.200) persone. Facendo un po’ di somme, potremmo dire che da tre delle aree più economicamente dinamiche e industriose del paese, vanno via il 40% dei nuovi migranti, dei “cervelli in fuga”. E’ un gigantesco impoverimento dell’intero Paese.
Dove vanno? In Germania, innanzitutto. Ma anche in Uk (i dati sono precedenti alla sconsiderata scelta della Brexit), in Svizzera (anche in questo caso, i dati si riferiscono al periodo precedente alle scelte del referendum svizzero anti-stranieri), in Francia e Brasile.
Fatte le somme, in 10 anni gli italiani residenti all’estero sono 4,8 milioni, con un aumento, nel periodo considerato, del 55%. Proprio i 10 anni della Grande Crisi.
In realtà, i dati sono molto più pesanti. Perché non tutti quelli che se ne vanno si iscrivono all’Aire, l’Anagrafe italiana dei residenti all’estero. La Farnesina stima oltre 5 milioni, attendibili dati tedeschi parlano dei quadruplo degli iscritti all’Aire.
L’Italia insomma, anche le sue città più attive, non è attrattiva.
Ma il quadro non può essere tracciato solo con questo colori. Perché per esempio aumenta costantemente il numero degli studenti stranieri che scelgono i corsi di base e i master in Bocconi a Milano e nei Politecnici di Milano e Torino. Perché Apple, a Napoli, con i giovani laureati campani, sta sperimentando un’iniziativa di grande successo. Perché multinazionali come Siemens e Bayer e General Electric proprio sull’Italia e sul suo eccellente capitale umano fanno leva per investimenti particolarmente innovativi. E perché, dopo gli anni del declino, l’Italia (con Milano in prima linea, smart city) è tornata a essere attrattiva per gli investimenti internazionali, mentre pur timidamente in parecchie università partono iniziative per attrarre professori di livello internazionale, al di fuori delle antiche clientele di casta e famiglia. Qualche “cervello” torna, è vero. Ma sempre tra infinite difficoltà.
Numeri bassi, di fronte all’emorragia di cervelli di cui abbiamo detto. Eppure leva per rifare politica. Investendo molto di più, a livello pubblico, in innovazione, ricerca, formazione. E’ la scommessa del futuro.


Partire è un po’ morire? Suona strano, a dirsi, in tempi di globalizzazione, movimenti veloci, scambi frenetici, in un mondo che è diventato più piccolo e interconnesso. Eppure è proprio il vecchio modo di dire, l’addio, la ferita dei legami e delle radici, a venire in mente quando si legge che nel 2015 sono andati via dall’Italia oltre 107 mila nostri concittadini, più di un terzo dei quali nell’età (18-34 anni) in cui si va altrove per cercare maggiori e migliori ragioni di lavoro e di vita. Non sono più, è vero, le stagioni antiche degli “emigranti per sempre”, si partiva ragazzi, si tornava a morire nell’antico paese. Ma il dato, frutto della rilevazione annuale della Fondazione Migrantes (una delle più attive e autorevoli istituzioni della Chiesa), è comunque impressionante.
Per parecchi motivi. Intanto, perché è sensibilmente più alto del dato dell’anno precedente (il 6,2% in più) e perché conferma una tendenza in corso da tempo: nell’Italia che ha subìto una durissima recessione e continua a crescere pochissimo, le opportunità d’un buon futuro, soprattutto per le nuove generazioni, sono quanto mai rarefatte. Ne sono preoccupati, giustamente, sia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia il premier Matteo Renzi, che insistono, ognuno a suo modo, sull’importanza di garantire ai nostri giovani un buon futuro in Italia. Ma, auspici politici a parte, il fenomeno è grave.
I motivi del cui si parte sono “le offerte di lavoro all’estero” (23,8%) ma anche la consapevolezza di “mancanza di opportunità in Italia” (38,3%). E tra chi parte ci sono anche 13.807 ragazzini, da 0 a 9 anni: segno che si trasferiscono interi nuclei familiari.
Da dove si parte? Dalla Lombardia, dalla ricca Lombardia, innanzitutto: più di 20 mila persone. Poi, il 10mila dal Nord Est industriale. Al terzo posto, c’è la Sicilia, con 9.800 partenze. Poi il Lazio (8.400) e poi ancora l’operoso Piemonte (8.200) persone. Facendo un po’ di somme, potremmo dire che da tre delle aree più economicamente dinamiche e industriose del paese, vanno via il 40% dei nuovi migranti, dei “cervelli in fuga”. E’ un gigantesco impoverimento dell’intero Paese.
Dove vanno? In Germania, innanzitutto. Ma anche in Uk (i dati sono precedenti alla sconsiderata scelta della Brexit), in Svizzera (anche in questo caso, i dati si riferiscono al periodo precedente alle scelte del referendum svizzero anti-stranieri), in Francia e Brasile.
Fatte le somme, in 10 anni gli italiani residenti all’estero sono 4,8 milioni, con un aumento, nel periodo considerato, del 55%. Proprio i 10 anni della Grande Crisi.
In realtà, i dati sono molto più pesanti. Perché non tutti quelli che se ne vanno si iscrivono all’Aire, l’Anagrafe italiana dei residenti all’estero. La Farnesina stima oltre 5 milioni, attendibili dati tedeschi parlano dei quadruplo degli iscritti all’Aire.
L’Italia insomma, anche le sue città più attive, non è attrattiva.
Ma il quadro non può essere tracciato solo con questo colori. Perché per esempio aumenta costantemente il numero degli studenti stranieri che scelgono i corsi di base e i master in Bocconi a Milano e nei Politecnici di Milano e Torino. Perché Apple, a Napoli, con i giovani laureati campani, sta sperimentando un’iniziativa di grande successo. Perché multinazionali come Siemens e Bayer e General Electric proprio sull’Italia e sul suo eccellente capitale umano fanno leva per investimenti particolarmente innovativi. E perché, dopo gli anni del declino, l’Italia (con Milano in prima linea, smart city) è tornata a essere attrattiva per gli investimenti internazionali, mentre pur timidamente in parecchie università partono iniziative per attrarre professori di livello internazionale, al di fuori delle antiche clientele di casta e famiglia. Qualche “cervello” torna, è vero. Ma sempre tra infinite difficoltà.
Numeri bassi, di fronte all’emorragia di cervelli di cui abbiamo detto. Eppure leva per rifare politica. Investendo molto di più, a livello pubblico, in innovazione, ricerca, formazione. E’ la scommessa del futuro.