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Scienza, teatro e umanesimo digitale: la cultura popolare è volano di sviluppo

La cultura come “volano di ripresa e sviluppo”. E come strumento per rendere efficaci le scelte sulla sostenibilità, in nome di un migliore avvenire delle nuove generazioni, promuovendo “educazione e sapere”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel cuore dell’estate, ha aperto così il G20 Cultura, nella platea del Colosseo, cornice straordinaria per la discussione tra i ministri della Cultura dei più grandi paesi del mondo. E il motto del G20, People Planet Prosperity è stato declinato nell’affermazione dei valori della bellezza e dell’ambiente, dei diritti contro ogni discriminazione, delle relazioni positive tra memoria e futuro, custodia delle radici e stimolo per l’innovazione. Prosperity, appunto, nell’era del post Covid.

Nel documento finale, approvato all’unanimità, si afferma che “i settori culturali e creativi rappresentano di per sé importanti motori economici e sono una fonte significativa di posti di lavoro e reddito e generano importanti ricadute per l’economia in generale, essendo motori di innovazione e fonti di capacità creative”. Occorre dunque riconoscerne e valorizzarne “l’impatto sociale” per “sostenere la salute e il benessere, promuovere l’inclusione sociale, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile, il capitale sociale locale” e per “amplificare il cambiamento comportamentale e la trasformazione verso pratiche di produzione e consumo più sostenibili”. L’Italia, a giudizio di Draghi e del ministro della Cultura Dario Franceschini, è un esemplare “laboratorio di idee”. Adesso, servono “scelte coraggiose” per tradurle in pratica, per difendere e fare crescere “il patrimonio monumentale e culturale” e farne una leva positiva per la crescita economica e sociale. Le indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue vanno proprio in questa direzione, a patto che la spesa pubblica e gli investimenti privati stimolati siano coerenti con i propositi politici, sia del G20 che dell’Europa.

C’è un aspetto particolare, che emerge sia dai discorsi di Draghi e Franceschini sia da altri interventi sulla cultura ascoltati e letti in queste settimane d’estate. L’idea di una cultura “per tutti”, accessibile a tutti, comprensibile per tutti. Una vera e propria cultura popolare.

Popolare perché aperta e dialogante, dunque tutt’altro che sciatta, volgare, banale. Popolare perché capace di mescolare “alto” e “basso”, la sinfonia e le canzoni, il grande cinema dei racconti e delle emozioni (Billy Wilder, Sergio Leone…) e la “commedia all’italiana” di Monicelli e Risi, i buoni premi letterari con le giurie dei lettori, come il Campiello, l’editoria di qualità e i giovani editori e scrittori più spregiudicati, la colomba della pace di Picasso e quella della street art di Banksy, “Ed è subito sera..” di Ungaretti e “La città vuota” di Mina, gli spettacoli e gli sceneggiati della Rai vero “servizio pubblico degli anni Cinquanta e Sessanta, l’interpretazione della modernità secondo i sociologhi e i filosofi della Scuola di Francoforte di Theodor W. Adorno e “il più mancino dei tiri” di Mariolino Corso, grande giocatore dell’Inter degli anni Sessanta, come amava ricordare Edmondo Berselli, straordinario, sofisticato e ironico analista di questi nostri tempi inquieti (“Il lettore si arrangi, il pubblico si documenti, faccia uno sforzo, si faccia una cultura…”, scriveva in uno dei suoi libri migliori, “Venerati maestri”, per polemizzare contro la faciloneria dei giudizi approssimativi e la volgarità dei luoghi comuni dilatate dalla cattiva Tv e dalla regressioni dei social media).

Cultura popolare come cultura di qualità: è proprio questa, d’altronde, una delle migliori eredità del Novecento, rileggendo le pagine (tanto per fare solo alcuni nomi), di Walter Benjamin ed Elias Canetti, Isaiah Berlin e Antonio Gramsci, Karl Popper e Thomas Mann, George Orwell e Virginia Woolf, Hannah Arendt e Simone Weil, Italo Calvino e Umberto Eco, ripercorrendo cioè, con buona memoria e fertile curiosità per la scoperta e la riscoperta, gli scaffali di una grande biblioteca ideale in cui, seguendo Jorge Luis Borges, si può arrivare all’Aleph di una intera civiltà, alla radice di saperi che si consolidano e si trasformano.

Cultura popolare come cultura della bellezza e della ricerca, cura per il “saper fare, e fare bene” secondo la migliore cultura d’impresa di cui proprio l’Italia è testimone eccellente, sintesi di conoscenze umanistiche e scientifiche, incroci di parole e di numeri, anche per arrivare così alla musica, rimemorando la lezione di Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”, cioè la porta che si apre sull’innovazione.

Oggi proprio l’evoluzione delle tecnologie digitali e dell’Intelligenza artificiale pone inedite sfide culturali e civili e scopre nuove strade di crescita delle conoscenze ma anche dense di pericoli di inquinamento del “discorso pubblico” e di impoverimento dei patrimoni ideali e valoriali personali e pubblici (le fake news, le derive del luogo comune verso il “pensiero magico” e le scorciatoie autoritarie).

L’impegno è saper vivere le nuove dimensioni della conoscenza come opportunità di un “umanesimo digitale”, per usare una definizione cara a Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione a Oxford e ripresa, proprio al G20 della Cultura, da Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino: “E’ arrivato il tempo di introdurre quello che potremmo definire un umanesimo digitale, in cui archeologi, antropologi, architetti, storici, filosofi, neuroscienziati, psicologi lavorino fianco a fianco con chimici, fisici, esperti informatici, per arrivare alla definizione di una nuova semantica che ci permetta di capire ed elaborare la complessità della realtà”.

Sta qui la chiave per accelerare la dimensione sempre più “popolare” dei musei (anche dei musei d’impresa, come l’associazione Museimpresa sostiene da tempo), considerandoli luoghi della conoscenza e della divulgazione, tenendo insieme l’esperienza della frequentazione personale con quella della fruizione digitale, l’on line con l’on site, l’emozione della partecipazione diretta alla visione di un quadro di Caravaggio o di Pollock e l’approfondimento consentito dagli strumenti digitali.

L’orizzonte è sempre quello dell’incontro tra radici e innovazione, come ricorda appunto Greco: “A livello internazionale è oramai condivisa l’idea che i musei siano teatri della memoria dove le identità locali e globali vengono definite e dove diverse visioni del passato e del presente incontrano il futuro”.

Ecco un’altra parola chiave, quando si parla di cultura popolare: teatro. E cioè “il luogo dove una comunità liberamente riunita si rivela a se stessa, il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere”. La definizione è di Paolo Grassi, fondatore nel 1947, insieme all’allora giovane regista Giorgio Strehler, del Piccolo Teatro di Milano, secondo il modello del “teatro d’arte per tutti” (come ha ricordato, di recente, Salvatore Carruba, attuale presidente del Piccolo, su “Il Sole24Ore”). Tra i fondatori, c’erano personalità della cultura. E dell’impresa (ricorrono, nell’atto di fondazione, i nomi di Piero e Giovanni Pirelli, Ferdinando Borletti, Giovanni Falck). E tutto avveniva nel contesto di una città desiderosa di ricostruirsi dopo i disastri della guerra e gli anni cupi del fascismo e capace di valorizzare proprio la cultura come leva di sviluppo, secondo la sensibilità civile di una borghesia colta e produttiva, aperta e attenta ai valori sociali.

Proprio l’esperienza del Piccolo Teatro, così come quella del Teatro Franco Parenti e di altri luoghi d’arte di Milano, testimonia come si possa fare grande cultura popolare coniugando la vocazione all’innovazione con l’impegno per la divulgazione, la sperimentazione di forme e linguaggi nuovi della rappresentazione con l’attenzione per la crescita della cultura diffusa.

Sono temi che ricorrono proprio adesso, in occasione delle iniziative, seguite dal nuovo direttore del Piccolo Claudio Longhi,  per ricordare il centenario della nascita di Strehler (ne sarà protagonista anche la Fondazione Pirelli, con un ciclo di rappresentazioni e di dibattiti sui temi del lavoro, delle trasformazioni sociali, della ricerca scientifica e del rapporto tra libertà e innovazione). E che ripropongono la questione di una cultura vissuta non tanto come una serie di “eventi” quanto soprattutto come un processo di crescita della conoscenza e della consapevolezza dei valori sociali e civili di una comunità e dell’essenzialità di un loro racconto, aperto, diffuso, partecipato. Popolare, appunto.

La cultura come “volano di ripresa e sviluppo”. E come strumento per rendere efficaci le scelte sulla sostenibilità, in nome di un migliore avvenire delle nuove generazioni, promuovendo “educazione e sapere”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel cuore dell’estate, ha aperto così il G20 Cultura, nella platea del Colosseo, cornice straordinaria per la discussione tra i ministri della Cultura dei più grandi paesi del mondo. E il motto del G20, People Planet Prosperity è stato declinato nell’affermazione dei valori della bellezza e dell’ambiente, dei diritti contro ogni discriminazione, delle relazioni positive tra memoria e futuro, custodia delle radici e stimolo per l’innovazione. Prosperity, appunto, nell’era del post Covid.

Nel documento finale, approvato all’unanimità, si afferma che “i settori culturali e creativi rappresentano di per sé importanti motori economici e sono una fonte significativa di posti di lavoro e reddito e generano importanti ricadute per l’economia in generale, essendo motori di innovazione e fonti di capacità creative”. Occorre dunque riconoscerne e valorizzarne “l’impatto sociale” per “sostenere la salute e il benessere, promuovere l’inclusione sociale, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile, il capitale sociale locale” e per “amplificare il cambiamento comportamentale e la trasformazione verso pratiche di produzione e consumo più sostenibili”. L’Italia, a giudizio di Draghi e del ministro della Cultura Dario Franceschini, è un esemplare “laboratorio di idee”. Adesso, servono “scelte coraggiose” per tradurle in pratica, per difendere e fare crescere “il patrimonio monumentale e culturale” e farne una leva positiva per la crescita economica e sociale. Le indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue vanno proprio in questa direzione, a patto che la spesa pubblica e gli investimenti privati stimolati siano coerenti con i propositi politici, sia del G20 che dell’Europa.

C’è un aspetto particolare, che emerge sia dai discorsi di Draghi e Franceschini sia da altri interventi sulla cultura ascoltati e letti in queste settimane d’estate. L’idea di una cultura “per tutti”, accessibile a tutti, comprensibile per tutti. Una vera e propria cultura popolare.

Popolare perché aperta e dialogante, dunque tutt’altro che sciatta, volgare, banale. Popolare perché capace di mescolare “alto” e “basso”, la sinfonia e le canzoni, il grande cinema dei racconti e delle emozioni (Billy Wilder, Sergio Leone…) e la “commedia all’italiana” di Monicelli e Risi, i buoni premi letterari con le giurie dei lettori, come il Campiello, l’editoria di qualità e i giovani editori e scrittori più spregiudicati, la colomba della pace di Picasso e quella della street art di Banksy, “Ed è subito sera..” di Ungaretti e “La città vuota” di Mina, gli spettacoli e gli sceneggiati della Rai vero “servizio pubblico degli anni Cinquanta e Sessanta, l’interpretazione della modernità secondo i sociologhi e i filosofi della Scuola di Francoforte di Theodor W. Adorno e “il più mancino dei tiri” di Mariolino Corso, grande giocatore dell’Inter degli anni Sessanta, come amava ricordare Edmondo Berselli, straordinario, sofisticato e ironico analista di questi nostri tempi inquieti (“Il lettore si arrangi, il pubblico si documenti, faccia uno sforzo, si faccia una cultura…”, scriveva in uno dei suoi libri migliori, “Venerati maestri”, per polemizzare contro la faciloneria dei giudizi approssimativi e la volgarità dei luoghi comuni dilatate dalla cattiva Tv e dalla regressioni dei social media).

Cultura popolare come cultura di qualità: è proprio questa, d’altronde, una delle migliori eredità del Novecento, rileggendo le pagine (tanto per fare solo alcuni nomi), di Walter Benjamin ed Elias Canetti, Isaiah Berlin e Antonio Gramsci, Karl Popper e Thomas Mann, George Orwell e Virginia Woolf, Hannah Arendt e Simone Weil, Italo Calvino e Umberto Eco, ripercorrendo cioè, con buona memoria e fertile curiosità per la scoperta e la riscoperta, gli scaffali di una grande biblioteca ideale in cui, seguendo Jorge Luis Borges, si può arrivare all’Aleph di una intera civiltà, alla radice di saperi che si consolidano e si trasformano.

Cultura popolare come cultura della bellezza e della ricerca, cura per il “saper fare, e fare bene” secondo la migliore cultura d’impresa di cui proprio l’Italia è testimone eccellente, sintesi di conoscenze umanistiche e scientifiche, incroci di parole e di numeri, anche per arrivare così alla musica, rimemorando la lezione di Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”, cioè la porta che si apre sull’innovazione.

Oggi proprio l’evoluzione delle tecnologie digitali e dell’Intelligenza artificiale pone inedite sfide culturali e civili e scopre nuove strade di crescita delle conoscenze ma anche dense di pericoli di inquinamento del “discorso pubblico” e di impoverimento dei patrimoni ideali e valoriali personali e pubblici (le fake news, le derive del luogo comune verso il “pensiero magico” e le scorciatoie autoritarie).

L’impegno è saper vivere le nuove dimensioni della conoscenza come opportunità di un “umanesimo digitale”, per usare una definizione cara a Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione a Oxford e ripresa, proprio al G20 della Cultura, da Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino: “E’ arrivato il tempo di introdurre quello che potremmo definire un umanesimo digitale, in cui archeologi, antropologi, architetti, storici, filosofi, neuroscienziati, psicologi lavorino fianco a fianco con chimici, fisici, esperti informatici, per arrivare alla definizione di una nuova semantica che ci permetta di capire ed elaborare la complessità della realtà”.

Sta qui la chiave per accelerare la dimensione sempre più “popolare” dei musei (anche dei musei d’impresa, come l’associazione Museimpresa sostiene da tempo), considerandoli luoghi della conoscenza e della divulgazione, tenendo insieme l’esperienza della frequentazione personale con quella della fruizione digitale, l’on line con l’on site, l’emozione della partecipazione diretta alla visione di un quadro di Caravaggio o di Pollock e l’approfondimento consentito dagli strumenti digitali.

L’orizzonte è sempre quello dell’incontro tra radici e innovazione, come ricorda appunto Greco: “A livello internazionale è oramai condivisa l’idea che i musei siano teatri della memoria dove le identità locali e globali vengono definite e dove diverse visioni del passato e del presente incontrano il futuro”.

Ecco un’altra parola chiave, quando si parla di cultura popolare: teatro. E cioè “il luogo dove una comunità liberamente riunita si rivela a se stessa, il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere”. La definizione è di Paolo Grassi, fondatore nel 1947, insieme all’allora giovane regista Giorgio Strehler, del Piccolo Teatro di Milano, secondo il modello del “teatro d’arte per tutti” (come ha ricordato, di recente, Salvatore Carruba, attuale presidente del Piccolo, su “Il Sole24Ore”). Tra i fondatori, c’erano personalità della cultura. E dell’impresa (ricorrono, nell’atto di fondazione, i nomi di Piero e Giovanni Pirelli, Ferdinando Borletti, Giovanni Falck). E tutto avveniva nel contesto di una città desiderosa di ricostruirsi dopo i disastri della guerra e gli anni cupi del fascismo e capace di valorizzare proprio la cultura come leva di sviluppo, secondo la sensibilità civile di una borghesia colta e produttiva, aperta e attenta ai valori sociali.

Proprio l’esperienza del Piccolo Teatro, così come quella del Teatro Franco Parenti e di altri luoghi d’arte di Milano, testimonia come si possa fare grande cultura popolare coniugando la vocazione all’innovazione con l’impegno per la divulgazione, la sperimentazione di forme e linguaggi nuovi della rappresentazione con l’attenzione per la crescita della cultura diffusa.

Sono temi che ricorrono proprio adesso, in occasione delle iniziative, seguite dal nuovo direttore del Piccolo Claudio Longhi,  per ricordare il centenario della nascita di Strehler (ne sarà protagonista anche la Fondazione Pirelli, con un ciclo di rappresentazioni e di dibattiti sui temi del lavoro, delle trasformazioni sociali, della ricerca scientifica e del rapporto tra libertà e innovazione). E che ripropongono la questione di una cultura vissuta non tanto come una serie di “eventi” quanto soprattutto come un processo di crescita della conoscenza e della consapevolezza dei valori sociali e civili di una comunità e dell’essenzialità di un loro racconto, aperto, diffuso, partecipato. Popolare, appunto.

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