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Si torna negli Usa e in Europa per riaprire le fabbriche

Tra “local” e “global” si definiscono nuove strade. Il “glocal”, un impasto, noto da qualche tempo, di globale e locale, per parlare di attività imprenditoriali con salde radici sul territorio d’origine e occhi attenti ai mercati internazionali. E, di recente, ecco un nuovo fenomeno: la “rilocalizzazione” e cioè il ritorno di attività industriali nelle aree d’origine, dopo la fortunata stagione della “delocalizzazione”. Si fa di nuovo industria in Europa. E soprattutto negli Usa. Proprio lì, negli ultimi tre anni, il manifatturiero ha creato circa 500mila nuovi posti di lavoro. E le politiche economiche del presidente Obama hanno sostenuto la rinascita o il rafforzamento dell’industria dell’auto (e di tutto il comparto “automotive”) e di parecchi altri settori.

Contrordine, insomma. Fare vivere le fabbriche, nei paesi di antica tradizione industriale e ad alto costo del lavoro, si può. E si deve. Viene dalla manifattura, infatti, un contributo solido e di lunga durata sia al Pil sia agli equilibri sociali ed economici diffusi (una struttura industriale che innerva ampi territori è come un reticolo di radici che tengono compatto e solido il terreno, evitando frane, fratture, smottamenti). E attorno alla manifattura maturano nuove competenze, saperi, culture che sono motore di ricchezza diffusa, continuamente rinnovabile (a patto naturalmente di investire su formazione e ricerca, sul capitale umano e la diffusione tecnologica).

La manifattura è fonte di conoscenza”, sostiene Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi Confindustria, in un libro recente, “L’Europa e l’Italia nel secolo asiatico: integrazione e forza industriale a difesa di libertà e benessere”, pubblicato dalla Luiss University Press. E spiega: “Dalle imprese manifatturiere viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata. E lo stesso ‘fare’, cioè il produrre, propone miglioramenti e avanza soluzioni nei processi e nei prodotti”. Fabbrica come cultura. E fabbrica come trama dei tessuti sociali. Fonte di ricchezza (appunto il Pil). Ma anche di relazioni dense di solidarietà e futuro (quel buon “capitale sociale” che contribuisce al nuovo indice Bes, benessere equo e sostenibile).

Aprire fabbriche, dunque. E riaprirle. Tornando a produrre negli Usa, in Europa, in Italia. Buone relazioni di distretto e di filiera. Una intelligente “supply chain”. Tecnologie sofisticate per produzioni di nicchia, solida qualità e alto valore aggiunto. Su questo terreno l’Italia industriale ha molte carte in regola. Da giocare meglio che in passato.

Tra “local” e “global” si definiscono nuove strade. Il “glocal”, un impasto, noto da qualche tempo, di globale e locale, per parlare di attività imprenditoriali con salde radici sul territorio d’origine e occhi attenti ai mercati internazionali. E, di recente, ecco un nuovo fenomeno: la “rilocalizzazione” e cioè il ritorno di attività industriali nelle aree d’origine, dopo la fortunata stagione della “delocalizzazione”. Si fa di nuovo industria in Europa. E soprattutto negli Usa. Proprio lì, negli ultimi tre anni, il manifatturiero ha creato circa 500mila nuovi posti di lavoro. E le politiche economiche del presidente Obama hanno sostenuto la rinascita o il rafforzamento dell’industria dell’auto (e di tutto il comparto “automotive”) e di parecchi altri settori.

Contrordine, insomma. Fare vivere le fabbriche, nei paesi di antica tradizione industriale e ad alto costo del lavoro, si può. E si deve. Viene dalla manifattura, infatti, un contributo solido e di lunga durata sia al Pil sia agli equilibri sociali ed economici diffusi (una struttura industriale che innerva ampi territori è come un reticolo di radici che tengono compatto e solido il terreno, evitando frane, fratture, smottamenti). E attorno alla manifattura maturano nuove competenze, saperi, culture che sono motore di ricchezza diffusa, continuamente rinnovabile (a patto naturalmente di investire su formazione e ricerca, sul capitale umano e la diffusione tecnologica).

La manifattura è fonte di conoscenza”, sostiene Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi Confindustria, in un libro recente, “L’Europa e l’Italia nel secolo asiatico: integrazione e forza industriale a difesa di libertà e benessere”, pubblicato dalla Luiss University Press. E spiega: “Dalle imprese manifatturiere viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata. E lo stesso ‘fare’, cioè il produrre, propone miglioramenti e avanza soluzioni nei processi e nei prodotti”. Fabbrica come cultura. E fabbrica come trama dei tessuti sociali. Fonte di ricchezza (appunto il Pil). Ma anche di relazioni dense di solidarietà e futuro (quel buon “capitale sociale” che contribuisce al nuovo indice Bes, benessere equo e sostenibile).

Aprire fabbriche, dunque. E riaprirle. Tornando a produrre negli Usa, in Europa, in Italia. Buone relazioni di distretto e di filiera. Una intelligente “supply chain”. Tecnologie sofisticate per produzioni di nicchia, solida qualità e alto valore aggiunto. Su questo terreno l’Italia industriale ha molte carte in regola. Da giocare meglio che in passato.

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