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Strategie contro le disuguaglianze, per salvare dal declino e dai rancori sociali il capitalismo e la democrazia liberale

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

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