Torino è Capitale della cultura d’impresa 2024 per rilanciare industria e conoscenza del futuro
La cultura fa bene alla vita e allo sviluppo delle città. Ed è quanto mai utile alle imprese, come cardine di nuova e migliore competitività. La conferma sta nell’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria per la nomina annuale di una “Capitale della cultura d’impresa”. Nel 2024 toccherà a Torino, dopo le esperienze fatte da Genova, Alba, dal triangolo Padova-Treviso-Venezia e da Pavia. La nomina, annunciata la scorsa settimana al Forum della Piccola Industria di Confindustria a Pavia, premia un dossier che fin dal titolo, “Torino. Spazio al futuro”, indica il senso del progetto: una idea forte di valorizzazione delle attività imprenditoriali in un territorio che è stato sì cardine storico dell’industria italiana, attorno alla centralità dell’automobile ma che da tempo ha preso atto della modifica degli assetti produttivi legati ai nuovi orizzonti dell’ex Fiat, adesso Stellantis e ha deciso di puntare su altre dimensioni industriali (vedremo meglio tra poco).
L’automotive continua a essere importante, certo, ma senza più il primato produttivo e culturale (anche se è fondamentale che a Torino, oltre a un’attività di produzione, resti uno polo di ingegneria, di progettazione). Una metropoli in cambiamento, insomma. Senza nostalgie né retrogusto amaro da “amarcord”.
Il programma di Torino prevede una serie di iniziative lungo 24 percorsi, con un occhio di particolare attenzione alle nuove generazioni e con il coinvolgimento di altre città, italiane ed europee. A cominciare, in Piemonte, da Biella (la manifattura tessile di qualità) e da Ivrea, dov’era maturata un’esperienza importante nella storia dell’industria italiana, quella della Olivetti, la cui eredità economica, sociale e culturale segna ancora il dibattito italiano (la conferma più recente sta nelle pagine di “Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento”, di Paolo Bricco, edito da Rizzoli).
C’è un’altra dimensione importante, su cui si insiste: il rapporto da rinsaldare con Milano e con Genova, per un vero e proprio rilancio del Nord Ovest industriale, come piattaforma produttiva di respiro europeo, anche in relazione con la Motor Valley emiliana e le filiere manifatturiere del Nord Est. Un disegno ambizioso di valorizzazione dell’attitudine industriale innovativa di tutto il Paese.
Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali torinese, sostiene che “la nostra sfida è quella di contribuire a un ridisegno della città, con l’obiettivo di individuare soluzioni sostenibili in termini ambientali, economici e sociali, con una logica inclusiva e di attenzione alle comunità locali”. Tra gli obiettivi c’è “l’attrattività, sia in termini di investimenti, sia e soprattutto verso le nuove generazioni: portare giovani talenti a Torino è la migliore soluzione per contrastare il declino demografico e nutrire il nostro sistema economico e imprenditoriale di stimoli e proposte innovative”.
A Torino, oltre alla vocazione manifatturiera, viene riconosciuta infatti una sempre più evidente “propensione all’innovazione, affrontando l’ennesimo passaggio cruciale della nostra storia: dalla monocultura automobilistica a un articolato mix di attività, dall’aerospazio all’intelligenza artificiale, dall’alimentare al turismo e allo sport”. Settori che – insiste Marsiaj – sono fonte di nuove energie, forse diverse da quelle del passato, “ma con lo stesso Dna: una solida cultura industriale unita all’amore per le cose fatte bene. Senza dimenticare quella proiezione internazionale che fa di quest’area un laboratorio della globalizzazione, in virtù della presenza di grandi multinazionali unita alla naturale predisposizione all’export delle nostre imprese”.
Nel corso delle iniziative, legate anche ad appuntamenti tradizionali, come il Salone del Libro e il Salone del Gusto, sarà evidente il confronto con tutti gli aspetti di una vera e propria “cultura politecnica”, fondata cioè sulle sintesi originali tra conoscenze scientifiche e tecnologiche e saperi umanistici, tra qualità e funzionalità, tra consapevolezza dell’importanza della memoria del “saper fare” e attitudine all’innovazione, sia di processo che di prodotto.
Il rapporto tra l’impresa e i territori di radicamento rafforza una speciale sensibilità per tutte le dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale. E si traduce anche in una forte tendenza alla qualità non solo delle produzioni, ma anche dei luoghi del produrre e del lavorare, della cosiddetta “fabbrica bella” e cioè ben progettata, innovativa, luminosa, accogliente, sicura e, appunto, sostenibile. Il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese progettato da Renzo Piano, impianti high tech in uno stabilimento circondato da quattrocento alberi di ciliegio, ne è testimonianza esemplare.
Manifattura di qualità. Mani che pensano e innovano, intelligenza produttiva al servizio del miglioramento della qualità della vita in generale.
D’altronde il segno distintivo di una buona impresa sta in una strategia ampia, che lega la cultura ai processi produttivi, il racconto industriale ai prodotti e al produrre. Ricordando la lezione di Libertino Faussone, il montatore di gru protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, elogio poetico della migliore meccanica, edito negli anni 70 da Einaudi, un’altra eccellenza torinese di valore europeo. E con un’attenzione continua alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti: gli scrittori, i poeti, gli architetti, i registi e i fotografi, i più famosi illustratori pubblicitari e i designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.
Sono proprio questi, d’altronde, gli elementi che ritroviamo nei materiali degli archivi delle aziende italiane e di cui anche Torino offre testimonianze esemplari. Come conferma anche Museimpresa, l’Associazione degli Archivi e dei Musei d’Impresa, adesso forte di circa 140 iscritti e sostenitori istituzionali (dei quali 14 sono ben radicati a Torino e in Piemonte).
Alla base, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è un asset fondamentale della competitività.
La cultura d’impresa, infatti, è Cultura con la C maiuscola. Sollecita il superamento del tradizionale schema di una endiadi, “impresa e cultura” come dialogo tra dimensioni differenti, tra il fare e il rappresentare, il produrre e il raccontare, tra la meccanica e la filosofia o la poesia. Per insistere, invece, su una radicale modifica dell’andamento della frase, abituandosi a dire “impresa è cultura”. Fare impresa, infatti, significa fare cultura e non c’è impresa che non abbia tra i propri motori scelte culturali chiare, secondo i paradigmi di cui abbiamo parlato e di cui proprio le imprese italiane, a cominciare dalle manifatture, sono originali protagoniste.
Cultura sono, appunto, la scienza e la tecnologia, la messa a punto di nuovi materiali, l’evoluzione dei contratti di lavoro che investono fattori culturali fondamentali come i rapporti di potere e le funzioni di controllo, le dialettiche personali, i salari e il welfare aziendale. Cultura sono i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cultura i processi di governance secondo cui si articolano i rapporti tra l’impresa, gli azionisti, i manager, i dipendenti e tutto il vasto mondo degli stakeholder. Cultura sono i bilanci, strumenti di progettazione e resa dei conti. E cultura gli scambi su mercati aperti e ben regolati.
Cultura, ancora, le scelte di sostegno mecenatistico di un’impresa ai processi creativi e artistici di chi raffigura e costruisce l’immaginario personale e sociale generale (l’esperienza di “Consulta” per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino ne è conferma essenziale).
La cultura d’impresa, insomma, è un racconto corale e polifonico, un gioco d’orchestra. In elaborazione continua.
Questa cultura d’impresa è una cultura di sintesi, tra il senso della bellezza, la téchne (il saper fare delle buone fabbriche) e la qualità dei prodotti e dei sistemi di produzione. Si confronta con la ricerca e la formazione del Politecnico e dell’Università. E testimonia come la società intraprendente innerva ancora la crescita delle fabbriche (il Lingotto ne è paradigma), delle banche e delle assicurazioni, stimola la creatività delle case editrici e degli istituti di ricerca e formazione e, nel tempo, dà vigore all’industria della comunicazione, tra cinema, radio e Tv, con attenzione d’avanguardia per le tecnologie e non solo per i contenuti.
Cultura, ancora, è la chimica del premio Nobel Giulio Natta, che innova l’industria italiana con incidenze mondiali e le esperienze sia chimiche che letterarie di Primo Levi alla Sava di Settimo Torinese (rileggere le pagine de “Il sistema periodico”, pubblicate da Einaudi nel 1975, per averne un illuminante esempio).
In primo piano, c’è anche la cultura della Olivetti di Adriano di cui abbiamo detto, segnata dalla ricerca d’avanguardia tra bellezza e qualità, design e tecnologia, valorizzazione della sapienza antica del territorio e acquisizione delle più stimolanti novità high-tech internazionali. Ma anche l’“umanesimo industriale” di Pirelli, con le avanguardie dell’applicazione della gomma. E quella di una lunga serie di altre imprese industriali e finanziarie che, appunto sulla qualità e l’estetica originale, sul rapporto con il design e l’arte contemporanea, continuano a fondare la propria capacità di successo e a dominare così le nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati del mondo.
Le attività di Torino “Capitale della cultura d’impresa 2024” permetteranno di conoscere meglio questi elementi, rendendo così più esplicità, vivibile, contemporanea l’originale civiltà del lavoro e della creatività, che costituisce la trama fitta e varia della storia imprenditoriale torinese. E dunque, naturalmente, italiana.
(foto: Getty Images)
La cultura fa bene alla vita e allo sviluppo delle città. Ed è quanto mai utile alle imprese, come cardine di nuova e migliore competitività. La conferma sta nell’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria per la nomina annuale di una “Capitale della cultura d’impresa”. Nel 2024 toccherà a Torino, dopo le esperienze fatte da Genova, Alba, dal triangolo Padova-Treviso-Venezia e da Pavia. La nomina, annunciata la scorsa settimana al Forum della Piccola Industria di Confindustria a Pavia, premia un dossier che fin dal titolo, “Torino. Spazio al futuro”, indica il senso del progetto: una idea forte di valorizzazione delle attività imprenditoriali in un territorio che è stato sì cardine storico dell’industria italiana, attorno alla centralità dell’automobile ma che da tempo ha preso atto della modifica degli assetti produttivi legati ai nuovi orizzonti dell’ex Fiat, adesso Stellantis e ha deciso di puntare su altre dimensioni industriali (vedremo meglio tra poco).
L’automotive continua a essere importante, certo, ma senza più il primato produttivo e culturale (anche se è fondamentale che a Torino, oltre a un’attività di produzione, resti uno polo di ingegneria, di progettazione). Una metropoli in cambiamento, insomma. Senza nostalgie né retrogusto amaro da “amarcord”.
Il programma di Torino prevede una serie di iniziative lungo 24 percorsi, con un occhio di particolare attenzione alle nuove generazioni e con il coinvolgimento di altre città, italiane ed europee. A cominciare, in Piemonte, da Biella (la manifattura tessile di qualità) e da Ivrea, dov’era maturata un’esperienza importante nella storia dell’industria italiana, quella della Olivetti, la cui eredità economica, sociale e culturale segna ancora il dibattito italiano (la conferma più recente sta nelle pagine di “Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento”, di Paolo Bricco, edito da Rizzoli).
C’è un’altra dimensione importante, su cui si insiste: il rapporto da rinsaldare con Milano e con Genova, per un vero e proprio rilancio del Nord Ovest industriale, come piattaforma produttiva di respiro europeo, anche in relazione con la Motor Valley emiliana e le filiere manifatturiere del Nord Est. Un disegno ambizioso di valorizzazione dell’attitudine industriale innovativa di tutto il Paese.
Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali torinese, sostiene che “la nostra sfida è quella di contribuire a un ridisegno della città, con l’obiettivo di individuare soluzioni sostenibili in termini ambientali, economici e sociali, con una logica inclusiva e di attenzione alle comunità locali”. Tra gli obiettivi c’è “l’attrattività, sia in termini di investimenti, sia e soprattutto verso le nuove generazioni: portare giovani talenti a Torino è la migliore soluzione per contrastare il declino demografico e nutrire il nostro sistema economico e imprenditoriale di stimoli e proposte innovative”.
A Torino, oltre alla vocazione manifatturiera, viene riconosciuta infatti una sempre più evidente “propensione all’innovazione, affrontando l’ennesimo passaggio cruciale della nostra storia: dalla monocultura automobilistica a un articolato mix di attività, dall’aerospazio all’intelligenza artificiale, dall’alimentare al turismo e allo sport”. Settori che – insiste Marsiaj – sono fonte di nuove energie, forse diverse da quelle del passato, “ma con lo stesso Dna: una solida cultura industriale unita all’amore per le cose fatte bene. Senza dimenticare quella proiezione internazionale che fa di quest’area un laboratorio della globalizzazione, in virtù della presenza di grandi multinazionali unita alla naturale predisposizione all’export delle nostre imprese”.
Nel corso delle iniziative, legate anche ad appuntamenti tradizionali, come il Salone del Libro e il Salone del Gusto, sarà evidente il confronto con tutti gli aspetti di una vera e propria “cultura politecnica”, fondata cioè sulle sintesi originali tra conoscenze scientifiche e tecnologiche e saperi umanistici, tra qualità e funzionalità, tra consapevolezza dell’importanza della memoria del “saper fare” e attitudine all’innovazione, sia di processo che di prodotto.
Il rapporto tra l’impresa e i territori di radicamento rafforza una speciale sensibilità per tutte le dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale. E si traduce anche in una forte tendenza alla qualità non solo delle produzioni, ma anche dei luoghi del produrre e del lavorare, della cosiddetta “fabbrica bella” e cioè ben progettata, innovativa, luminosa, accogliente, sicura e, appunto, sostenibile. Il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese progettato da Renzo Piano, impianti high tech in uno stabilimento circondato da quattrocento alberi di ciliegio, ne è testimonianza esemplare.
Manifattura di qualità. Mani che pensano e innovano, intelligenza produttiva al servizio del miglioramento della qualità della vita in generale.
D’altronde il segno distintivo di una buona impresa sta in una strategia ampia, che lega la cultura ai processi produttivi, il racconto industriale ai prodotti e al produrre. Ricordando la lezione di Libertino Faussone, il montatore di gru protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, elogio poetico della migliore meccanica, edito negli anni 70 da Einaudi, un’altra eccellenza torinese di valore europeo. E con un’attenzione continua alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti: gli scrittori, i poeti, gli architetti, i registi e i fotografi, i più famosi illustratori pubblicitari e i designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.
Sono proprio questi, d’altronde, gli elementi che ritroviamo nei materiali degli archivi delle aziende italiane e di cui anche Torino offre testimonianze esemplari. Come conferma anche Museimpresa, l’Associazione degli Archivi e dei Musei d’Impresa, adesso forte di circa 140 iscritti e sostenitori istituzionali (dei quali 14 sono ben radicati a Torino e in Piemonte).
Alla base, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è un asset fondamentale della competitività.
La cultura d’impresa, infatti, è Cultura con la C maiuscola. Sollecita il superamento del tradizionale schema di una endiadi, “impresa e cultura” come dialogo tra dimensioni differenti, tra il fare e il rappresentare, il produrre e il raccontare, tra la meccanica e la filosofia o la poesia. Per insistere, invece, su una radicale modifica dell’andamento della frase, abituandosi a dire “impresa è cultura”. Fare impresa, infatti, significa fare cultura e non c’è impresa che non abbia tra i propri motori scelte culturali chiare, secondo i paradigmi di cui abbiamo parlato e di cui proprio le imprese italiane, a cominciare dalle manifatture, sono originali protagoniste.
Cultura sono, appunto, la scienza e la tecnologia, la messa a punto di nuovi materiali, l’evoluzione dei contratti di lavoro che investono fattori culturali fondamentali come i rapporti di potere e le funzioni di controllo, le dialettiche personali, i salari e il welfare aziendale. Cultura sono i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cultura i processi di governance secondo cui si articolano i rapporti tra l’impresa, gli azionisti, i manager, i dipendenti e tutto il vasto mondo degli stakeholder. Cultura sono i bilanci, strumenti di progettazione e resa dei conti. E cultura gli scambi su mercati aperti e ben regolati.
Cultura, ancora, le scelte di sostegno mecenatistico di un’impresa ai processi creativi e artistici di chi raffigura e costruisce l’immaginario personale e sociale generale (l’esperienza di “Consulta” per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino ne è conferma essenziale).
La cultura d’impresa, insomma, è un racconto corale e polifonico, un gioco d’orchestra. In elaborazione continua.
Questa cultura d’impresa è una cultura di sintesi, tra il senso della bellezza, la téchne (il saper fare delle buone fabbriche) e la qualità dei prodotti e dei sistemi di produzione. Si confronta con la ricerca e la formazione del Politecnico e dell’Università. E testimonia come la società intraprendente innerva ancora la crescita delle fabbriche (il Lingotto ne è paradigma), delle banche e delle assicurazioni, stimola la creatività delle case editrici e degli istituti di ricerca e formazione e, nel tempo, dà vigore all’industria della comunicazione, tra cinema, radio e Tv, con attenzione d’avanguardia per le tecnologie e non solo per i contenuti.
Cultura, ancora, è la chimica del premio Nobel Giulio Natta, che innova l’industria italiana con incidenze mondiali e le esperienze sia chimiche che letterarie di Primo Levi alla Sava di Settimo Torinese (rileggere le pagine de “Il sistema periodico”, pubblicate da Einaudi nel 1975, per averne un illuminante esempio).
In primo piano, c’è anche la cultura della Olivetti di Adriano di cui abbiamo detto, segnata dalla ricerca d’avanguardia tra bellezza e qualità, design e tecnologia, valorizzazione della sapienza antica del territorio e acquisizione delle più stimolanti novità high-tech internazionali. Ma anche l’“umanesimo industriale” di Pirelli, con le avanguardie dell’applicazione della gomma. E quella di una lunga serie di altre imprese industriali e finanziarie che, appunto sulla qualità e l’estetica originale, sul rapporto con il design e l’arte contemporanea, continuano a fondare la propria capacità di successo e a dominare così le nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati del mondo.
Le attività di Torino “Capitale della cultura d’impresa 2024” permetteranno di conoscere meglio questi elementi, rendendo così più esplicità, vivibile, contemporanea l’originale civiltà del lavoro e della creatività, che costituisce la trama fitta e varia della storia imprenditoriale torinese. E dunque, naturalmente, italiana.
(foto: Getty Images)