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Tornano d’attualità le scuole di politica: una cassetta degli attrezzi per democrazia, sicurezza e sviluppo

“Urne vuote ma aule piene: boom delle scuole di politica”, si legge sui giornali. E anche: “I partiti tornano all’antico e riaprono le scuole di politica” (“Il Sole24Ore”, 5 e 7 luglio). Una buona notizia, in tempi di populismo crescente e discredito diffuso per chi fa politica e si impegna nelle istituzioni pubbliche. Un sostegno, per chi crede nel valore dell’impegno. Cosa sta succedendo?
Per cercare di capire meglio, proviamo a fare un passo indietro nella nostra storia.
Pane e politica. La mia generazione li ha mangiati insieme, fin da quando eravamo ragazzini, all’inizio degli anni Sessanta. Erano, per noi, di grande stimolo le stagioni di una straordinaria trasformazione dell’Italia, dalla ricostruzione dopo la sciagurata guerra mondiale al consolidarsi del boom economico, tra rafforzamento delle libertà democratica e robusti miglioramenti sociali e culturali. Ed era ancora viva e presente nel discorso pubblico la lezione dei “padri della Costituenti”, De Gasperi, Togliatti, Nenni e La Malfa, il giovane Aldo Moro e l’anziano maestro di latino Concetto Marchesi, Piero Calamandrei e Costantino Mortati, gli uomini e le donne che scrivendo regole condivise, in buon italiano semplice e chiaro, costruivano le premesse e gli indirizzi di una nuova stagione dei diritti e dei doveri.

Pane e politica, appunto. Politique d’abord, la politica innanzitutto, teorizzava Pietro Nenni, leader socialista. “Il primato della politica”, insistevano un po’ tutti, nella consapevolezza che nella giovane e ancora fragile democrazia italiana, nata dalla Resistenza antifascista e sostenuta da una larghissima adesione popolare, fossero innanzitutto politiche le scelte da fare, per costruire sviluppo economico, benessere, partecipazione. Scelte di politica riformatrice.
Nel cuore degli anni Sessanta uno straordinario educatore, don Lorenzo Milani, avrebbe insegnato che di fronte a un problema, “uscirne insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia”. “I care”, era la sintesi del suo pensiero etico e, appunto, politico: mi assumo la responsabilità, mi prendo cura.
Per anni, l’orizzonte dei giovani migliori, i più brillanti e preparati, era “fare politica”. Ognuno, nei partiti in cui ci si ritrovava a proprio agio. E quei partiti avevano scuole, corsi di formazione, percorsi di apprendimento. Fare politica come impegno. Fare politica come un ottimo modo di lavorare.

“Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista, alla prossima generazione” era la frase attribuita ad Alcide De Gasperi, leader democristiano dal dopoguerra al 1953, una citazione dell’insegnamento di James Freeman Clarke, politico Usa. Era un buon viatico, per chi guardava lungo. Scettico e caustico, Indro Montanelli avrebbe notato, sulle pagine del “Corriere della Sera”: “De Gasperi e Andreotti andavano a messa insieme e tutti credevano che facessero la stessa cosa, ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”. Fulminante la risposta ironica di Andreotti: “Perché il prete votava e Dio no”. Grazie a quest’attitudine, una pratica assidua e paziente, Andreotti avrebbe occupato la scena politica del Paese per mezzo secolo, dal ‘46 all’inizio degli anni Novanta.
Nel tempo, quell’idea del “primato della politica” avrebbe perso smalto e spessore, per la diffusa incapacità degli uomini di partito e di governo, ognuno a suo modo, di cogliere e guidare, con riforme opportune, le radicali trasformazioni politiche e sociali, di cercare di sciogliere conflitti e contraddizioni di una impetuosa modernità. Sino al discredito della politica e ai successi devastanti dell’anti-politica.

Adesso si prova a risalire la china? Il proliferare delle “scuole di politica”, nonostante il crescente astensionismo elettorale e la sfiducia diffusa anche tra le nuove generazioni, è un segnale interessante da cogliere.
“Da Torino a Milano, da Roma a Palermo i corsi di politica si trovano per tutta la penisola”, documentano Riccardo Ferrazza e Andrea Gagliardi su “Il Sole24Ore”. Se ne occupano, tanto per fare solo alcuni nomi, la Casa della Cultura milanese, la Fondazione Magna Carta fondata dall’ex senatore Gaetano Quagliariello, “Vivere nella Comunità” promossa da Pellegrino Capaldo, ex banchiere e attivo professore universitario e la Comunità di Connessioni diretta dal padre gesuita Francesco Occhetta. E anche parecchie università si impegnano in corsi e seminari: la Luiss a Roma e la Statale a Milano, la Federico II a Napoli e l’ateneo di Padova, oltre che la Spes (Scuola di Politiche Economiche e Sociali) intitolata all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Commenta Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government: “In una democrazia il politico deve rappresentare i cittadini. Il che vuol dire che deve essere capace di immedesimarsi nei cittadini, di non essere percepito come distante da loro e che, quando i cittadini si stancano o cambiano opinione, devono cambiare anche i politici”. Una cultura della complessità. Ma anche una capacità di avere visione e inclinazione a interpretare e cercare i governare i cambiamenti.
Il politico, infatti, insiste Orsina, “deve anche governare. E questo richiede capacità professionali che non si improvvisano e non si costruiscono nello spazio di un mattino: di leadership, di organizzazione, di comprensione e gestione dei dossier politici”. La democrazia combatte da sempre “con la contraddizione tra rappresentanza e competenza”. Ed è necessaria una cassetta degli attrezzi che sia fatta di saperi umanistici, conoscenze tecniche e amministrative, etica pubblica e inclinazione a saper progettare e costruire futuro. Per le “nuove generazioni” di cui parlava De Gasperi come orizzonte di senso d’un politico-statista e su cui ci richiama, proprio oggi, anche l’Europa con i nuovi impegni del Recovery Fund e degli altri strumenti per la sicurezza, l’energia, l’ambiente.
Tutte questioni politiche, appunto.
Servono buoni maestri, insomma. E capacità di ascolto, stimolo alla partecipazione, inclinazioni al progetto di nuovi e migliori equilibri democratici, politici e sociali. Senza cedere ancora al qualunquismo, alla propaganda, alla retorica sovranista dei “muri”, alla ricerca di consenso attraverso l’alimentazione di sfiducia e paura.

Anche le forze politiche, naturalmente, hanno organizzato corsi di formazione, dalla Lega a Fratelli d’Italia, dal Pd ad Azione e ai Cinque Stelle. Anni fa, nel 2008, Silvio Berlusconi aveva progettato una “Università Liberale” a Villa Gernetto, vicino ad Arcore, ma l’iniziativa non era mai decollata sul serio e adesso, dopo la morte del Cavaliere, il suo futuro sembra incerto.
Resta fermo un punto: serve non solo alle forze politiche ma a tutto il Paese impegnarsi per una formazione di qualità delle sue classi dirigenti.
Il futuro della democrazia, infatti, è strettamente legato alla capacità di tenere insieme partecipazione e cultura, impegno personale e di gruppo e valorizzazione delle conoscenze. E all’impegno a costruire competenze aggiornate per affrontare tutte le sfide della modernità (la neo-globalizzazione, la sostenibilità ambientale e sociale, le risposte alle diseguaglianze, i temi della sicurezza nell’equilibrio multipolare, l’efficienza e la trasparenza delle istituzioni pubbliche e l’autonomia dei corpi sociali, etc.).
E’ dunque indispensabile poter fare affidamento sulla buona politica. Rileggere alla luce dei tempi nuovi l’antico e orgoglioso slogan del socialista Pietro Nenni, politique d’abord. E ricominciare a mangiare, con senso di responsabilità, pane e politica.

(immagine Getty Images)

“Urne vuote ma aule piene: boom delle scuole di politica”, si legge sui giornali. E anche: “I partiti tornano all’antico e riaprono le scuole di politica” (“Il Sole24Ore”, 5 e 7 luglio). Una buona notizia, in tempi di populismo crescente e discredito diffuso per chi fa politica e si impegna nelle istituzioni pubbliche. Un sostegno, per chi crede nel valore dell’impegno. Cosa sta succedendo?
Per cercare di capire meglio, proviamo a fare un passo indietro nella nostra storia.
Pane e politica. La mia generazione li ha mangiati insieme, fin da quando eravamo ragazzini, all’inizio degli anni Sessanta. Erano, per noi, di grande stimolo le stagioni di una straordinaria trasformazione dell’Italia, dalla ricostruzione dopo la sciagurata guerra mondiale al consolidarsi del boom economico, tra rafforzamento delle libertà democratica e robusti miglioramenti sociali e culturali. Ed era ancora viva e presente nel discorso pubblico la lezione dei “padri della Costituenti”, De Gasperi, Togliatti, Nenni e La Malfa, il giovane Aldo Moro e l’anziano maestro di latino Concetto Marchesi, Piero Calamandrei e Costantino Mortati, gli uomini e le donne che scrivendo regole condivise, in buon italiano semplice e chiaro, costruivano le premesse e gli indirizzi di una nuova stagione dei diritti e dei doveri.

Pane e politica, appunto. Politique d’abord, la politica innanzitutto, teorizzava Pietro Nenni, leader socialista. “Il primato della politica”, insistevano un po’ tutti, nella consapevolezza che nella giovane e ancora fragile democrazia italiana, nata dalla Resistenza antifascista e sostenuta da una larghissima adesione popolare, fossero innanzitutto politiche le scelte da fare, per costruire sviluppo economico, benessere, partecipazione. Scelte di politica riformatrice.
Nel cuore degli anni Sessanta uno straordinario educatore, don Lorenzo Milani, avrebbe insegnato che di fronte a un problema, “uscirne insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia”. “I care”, era la sintesi del suo pensiero etico e, appunto, politico: mi assumo la responsabilità, mi prendo cura.
Per anni, l’orizzonte dei giovani migliori, i più brillanti e preparati, era “fare politica”. Ognuno, nei partiti in cui ci si ritrovava a proprio agio. E quei partiti avevano scuole, corsi di formazione, percorsi di apprendimento. Fare politica come impegno. Fare politica come un ottimo modo di lavorare.

“Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista, alla prossima generazione” era la frase attribuita ad Alcide De Gasperi, leader democristiano dal dopoguerra al 1953, una citazione dell’insegnamento di James Freeman Clarke, politico Usa. Era un buon viatico, per chi guardava lungo. Scettico e caustico, Indro Montanelli avrebbe notato, sulle pagine del “Corriere della Sera”: “De Gasperi e Andreotti andavano a messa insieme e tutti credevano che facessero la stessa cosa, ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”. Fulminante la risposta ironica di Andreotti: “Perché il prete votava e Dio no”. Grazie a quest’attitudine, una pratica assidua e paziente, Andreotti avrebbe occupato la scena politica del Paese per mezzo secolo, dal ‘46 all’inizio degli anni Novanta.
Nel tempo, quell’idea del “primato della politica” avrebbe perso smalto e spessore, per la diffusa incapacità degli uomini di partito e di governo, ognuno a suo modo, di cogliere e guidare, con riforme opportune, le radicali trasformazioni politiche e sociali, di cercare di sciogliere conflitti e contraddizioni di una impetuosa modernità. Sino al discredito della politica e ai successi devastanti dell’anti-politica.

Adesso si prova a risalire la china? Il proliferare delle “scuole di politica”, nonostante il crescente astensionismo elettorale e la sfiducia diffusa anche tra le nuove generazioni, è un segnale interessante da cogliere.
“Da Torino a Milano, da Roma a Palermo i corsi di politica si trovano per tutta la penisola”, documentano Riccardo Ferrazza e Andrea Gagliardi su “Il Sole24Ore”. Se ne occupano, tanto per fare solo alcuni nomi, la Casa della Cultura milanese, la Fondazione Magna Carta fondata dall’ex senatore Gaetano Quagliariello, “Vivere nella Comunità” promossa da Pellegrino Capaldo, ex banchiere e attivo professore universitario e la Comunità di Connessioni diretta dal padre gesuita Francesco Occhetta. E anche parecchie università si impegnano in corsi e seminari: la Luiss a Roma e la Statale a Milano, la Federico II a Napoli e l’ateneo di Padova, oltre che la Spes (Scuola di Politiche Economiche e Sociali) intitolata all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Commenta Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government: “In una democrazia il politico deve rappresentare i cittadini. Il che vuol dire che deve essere capace di immedesimarsi nei cittadini, di non essere percepito come distante da loro e che, quando i cittadini si stancano o cambiano opinione, devono cambiare anche i politici”. Una cultura della complessità. Ma anche una capacità di avere visione e inclinazione a interpretare e cercare i governare i cambiamenti.
Il politico, infatti, insiste Orsina, “deve anche governare. E questo richiede capacità professionali che non si improvvisano e non si costruiscono nello spazio di un mattino: di leadership, di organizzazione, di comprensione e gestione dei dossier politici”. La democrazia combatte da sempre “con la contraddizione tra rappresentanza e competenza”. Ed è necessaria una cassetta degli attrezzi che sia fatta di saperi umanistici, conoscenze tecniche e amministrative, etica pubblica e inclinazione a saper progettare e costruire futuro. Per le “nuove generazioni” di cui parlava De Gasperi come orizzonte di senso d’un politico-statista e su cui ci richiama, proprio oggi, anche l’Europa con i nuovi impegni del Recovery Fund e degli altri strumenti per la sicurezza, l’energia, l’ambiente.
Tutte questioni politiche, appunto.
Servono buoni maestri, insomma. E capacità di ascolto, stimolo alla partecipazione, inclinazioni al progetto di nuovi e migliori equilibri democratici, politici e sociali. Senza cedere ancora al qualunquismo, alla propaganda, alla retorica sovranista dei “muri”, alla ricerca di consenso attraverso l’alimentazione di sfiducia e paura.

Anche le forze politiche, naturalmente, hanno organizzato corsi di formazione, dalla Lega a Fratelli d’Italia, dal Pd ad Azione e ai Cinque Stelle. Anni fa, nel 2008, Silvio Berlusconi aveva progettato una “Università Liberale” a Villa Gernetto, vicino ad Arcore, ma l’iniziativa non era mai decollata sul serio e adesso, dopo la morte del Cavaliere, il suo futuro sembra incerto.
Resta fermo un punto: serve non solo alle forze politiche ma a tutto il Paese impegnarsi per una formazione di qualità delle sue classi dirigenti.
Il futuro della democrazia, infatti, è strettamente legato alla capacità di tenere insieme partecipazione e cultura, impegno personale e di gruppo e valorizzazione delle conoscenze. E all’impegno a costruire competenze aggiornate per affrontare tutte le sfide della modernità (la neo-globalizzazione, la sostenibilità ambientale e sociale, le risposte alle diseguaglianze, i temi della sicurezza nell’equilibrio multipolare, l’efficienza e la trasparenza delle istituzioni pubbliche e l’autonomia dei corpi sociali, etc.).
E’ dunque indispensabile poter fare affidamento sulla buona politica. Rileggere alla luce dei tempi nuovi l’antico e orgoglioso slogan del socialista Pietro Nenni, politique d’abord. E ricominciare a mangiare, con senso di responsabilità, pane e politica.

(immagine Getty Images)

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