Tra “cambio di paradigma” e “metamorfosi” le idee per migliorare la qualità dello sviluppo
“Cambio di paradigma”, scrive Mauro Magatti, sociologo di grande acutezza, professore all’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro, appena pubblicato da Feltrinelli, contiene pagine di grande interesse dedicate a come “uscire dalla crisi pensando il futuro” e contribuisce con analisi e proposte originali al dibattito sulle ragioni del disastro economico che dal 2008 ha coinvolto milioni di persone e sulle idee per una nuova e migliore stagione di sviluppo. Si esce “dall’ordine neo-liberista” che ha determinato “una società psicotica” con passaggi “dall’euforia all’angoscia”, si evitano le trappole dello scambio “efficienza per sicurezza” (illudendosi di poter ricominciare a crescere “spremendo di più il limone” ovvero insistendo sulle ricette dell’austerità a ogni costo e degli squilibri dei mercati sregolati o mal regolati) e si prova invece a coniugare “crescita economica e sviluppo umano e sociale”, andando avanti e “tornando a produrre valore” insistendo sui valori. Sfida generale, di sistema. Che coinvolge parecchi dei più responsabili attori economici.
“Left behind – How to help places hurt by globalisation”, ha titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva.
Nel discorso pubblico, sempre più spesso, al termine “economia” si legano aggettivi come “civile”, “circolare”, “sharing” e cioè condivisa, “giusta”, “sostenibile”, segnali appunto di crisi e di ricerca, di nuove regole, di nuovi modi di produrre e distribuire ricchezza, valorizzare le persone, offrire opportunità, evitare le più vistose e insopportabili “diseguaglianze”. Eccolo, dunque, il “cambio di paradigma” proposto da Magatti, che riguarda l’economia (“il mercato globale è sempre più selvaggio e sregolato”) e la politica (“sempre più populista e nazionalista”): occorre rinunciare “alla cieca economia del consumo”, costruire “nuovi consumatori” e “nuovi beni”, per giungere “a uno scambio sostenibile”. Le imprese, in buon numero, “sono le prime ad adattarsi”. Insiste Magatti: “Solo la combinazione tra sostenibilità e logica contributiva può permettere di ricostruire su basi nuove il rapporto tra economia e società che il neoliberismo ha mandato in frantumi. E così rispondere alla domanda sulla natura della prossima crescita economica, nel quadro di una nuova stagione della democrazia”. Sfida difficile, naturalmente. Ma obbligata. Pena la rinuncia al benessere diffuso e condiviso e a parecchie essenziali libertà.
Sono appunto le questioni in discussione anche a Milano, in questi tempi difficili, per cercare di definire condizioni e politiche per rafforzare lo sviluppo economico migliorando la qualità della vita (ne abbiamo a lungo scritto anche nei blog delle ultime tre settimane), per una città che sappia essere non solo dinamica e “smart”, ma anche solidale e inclusiva, come la sua stessa storia testimonia. Il “cambio di paradigma” chiede nuovi equilibri economici e sociali. E’ una sfida civilee di cittadinanza: “Non esistono smart cities senza smart citizens”, ricorda Carlo Ratti in “La città del domani”, Einaudi (ne abbiamo scritto nel blog del 24 ottobre). E l’incrocio tra responsabilità personale e impegno pubblico è fondamentale: “Siamo chiamati a essere costruttori, non vittime, del futuro”.
C’è infatti un rischio generale, che investe le nostre città ma anche un po’ tutta l’Europa: quello di smetterla di progettare futuro e chiudersi nel rimpianto del passato e nell’orizzonte angusto di egoismi e di “piccole patrie”, come ammonisce Zygmunt Bauman in “Retrotopia”, Laterza, libro lucidissimo scritto poco prima della morte, per metterci in guardia dal pericolo della nostalgia e del “ritorno a…”: a Hobbes e ai radicali conflitti tra gli uomini, “alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno”. Bisogna invece affrontare il difficile compito di “innalzare l’integrazione umana al livello dell’umanità intera” (c’è l’eco della lezione di Papa Francesco). E sapere “che siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma d’imparare a governare con sguardo lungo e generoso i processi che investono politica, economia, cultura, società. La parola “sostenibilità” torna a farsi sentire.
Ci sono cambiamenti così radicali da dover essere definiti come metamorfosi. E “Le metamorfosi del mondo” sono quelle analizzate dall’ultimo libro di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi contemporanei, edito da Laterza (un altro libro da eredità morale, dato che Beck è morto nel 2015). Le modernizzazioni tecniche ed economiche, sottolinea anche Beck, hanno stravolto le nostre vite. Globalizzazione e tecnologie digitali hanno reso il mondo più piccolo, connesso ma anche fragile e sempre più nevrotico. E le mutazioni riguardano il nostro essere genitori e i rapporti tra le generazioni, in condizioni di crescenti disuguaglianze, i cambiamenti climatici sino al “catastrofismo emancipativo” (con i conflitti tra egoismi nazionali e produttivi e importanti accordi internazionali per l’ambiente), le metropoli in cui viviamo, il miglioramento della qualità della vita ma anche “i rischi cosmopoliti” (il terrorismo che colpisce ovunque), il lavoro, la comunicazione, l’economia e le stesse tradizionali forme della democrazia. Come ne usciremo? Il futuro dipende un po’ pure dal senso di responsabilità d’ognuno di noi. Il “cambio di paradigma” può molto migliorar
“Cambio di paradigma”, scrive Mauro Magatti, sociologo di grande acutezza, professore all’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro, appena pubblicato da Feltrinelli, contiene pagine di grande interesse dedicate a come “uscire dalla crisi pensando il futuro” e contribuisce con analisi e proposte originali al dibattito sulle ragioni del disastro economico che dal 2008 ha coinvolto milioni di persone e sulle idee per una nuova e migliore stagione di sviluppo. Si esce “dall’ordine neo-liberista” che ha determinato “una società psicotica” con passaggi “dall’euforia all’angoscia”, si evitano le trappole dello scambio “efficienza per sicurezza” (illudendosi di poter ricominciare a crescere “spremendo di più il limone” ovvero insistendo sulle ricette dell’austerità a ogni costo e degli squilibri dei mercati sregolati o mal regolati) e si prova invece a coniugare “crescita economica e sviluppo umano e sociale”, andando avanti e “tornando a produrre valore” insistendo sui valori. Sfida generale, di sistema. Che coinvolge parecchi dei più responsabili attori economici.
“Left behind – How to help places hurt by globalisation”, ha titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva.
Nel discorso pubblico, sempre più spesso, al termine “economia” si legano aggettivi come “civile”, “circolare”, “sharing” e cioè condivisa, “giusta”, “sostenibile”, segnali appunto di crisi e di ricerca, di nuove regole, di nuovi modi di produrre e distribuire ricchezza, valorizzare le persone, offrire opportunità, evitare le più vistose e insopportabili “diseguaglianze”. Eccolo, dunque, il “cambio di paradigma” proposto da Magatti, che riguarda l’economia (“il mercato globale è sempre più selvaggio e sregolato”) e la politica (“sempre più populista e nazionalista”): occorre rinunciare “alla cieca economia del consumo”, costruire “nuovi consumatori” e “nuovi beni”, per giungere “a uno scambio sostenibile”. Le imprese, in buon numero, “sono le prime ad adattarsi”. Insiste Magatti: “Solo la combinazione tra sostenibilità e logica contributiva può permettere di ricostruire su basi nuove il rapporto tra economia e società che il neoliberismo ha mandato in frantumi. E così rispondere alla domanda sulla natura della prossima crescita economica, nel quadro di una nuova stagione della democrazia”. Sfida difficile, naturalmente. Ma obbligata. Pena la rinuncia al benessere diffuso e condiviso e a parecchie essenziali libertà.
Sono appunto le questioni in discussione anche a Milano, in questi tempi difficili, per cercare di definire condizioni e politiche per rafforzare lo sviluppo economico migliorando la qualità della vita (ne abbiamo a lungo scritto anche nei blog delle ultime tre settimane), per una città che sappia essere non solo dinamica e “smart”, ma anche solidale e inclusiva, come la sua stessa storia testimonia. Il “cambio di paradigma” chiede nuovi equilibri economici e sociali. E’ una sfida civilee di cittadinanza: “Non esistono smart cities senza smart citizens”, ricorda Carlo Ratti in “La città del domani”, Einaudi (ne abbiamo scritto nel blog del 24 ottobre). E l’incrocio tra responsabilità personale e impegno pubblico è fondamentale: “Siamo chiamati a essere costruttori, non vittime, del futuro”.
C’è infatti un rischio generale, che investe le nostre città ma anche un po’ tutta l’Europa: quello di smetterla di progettare futuro e chiudersi nel rimpianto del passato e nell’orizzonte angusto di egoismi e di “piccole patrie”, come ammonisce Zygmunt Bauman in “Retrotopia”, Laterza, libro lucidissimo scritto poco prima della morte, per metterci in guardia dal pericolo della nostalgia e del “ritorno a…”: a Hobbes e ai radicali conflitti tra gli uomini, “alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno”. Bisogna invece affrontare il difficile compito di “innalzare l’integrazione umana al livello dell’umanità intera” (c’è l’eco della lezione di Papa Francesco). E sapere “che siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma d’imparare a governare con sguardo lungo e generoso i processi che investono politica, economia, cultura, società. La parola “sostenibilità” torna a farsi sentire.
Ci sono cambiamenti così radicali da dover essere definiti come metamorfosi. E “Le metamorfosi del mondo” sono quelle analizzate dall’ultimo libro di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi contemporanei, edito da Laterza (un altro libro da eredità morale, dato che Beck è morto nel 2015). Le modernizzazioni tecniche ed economiche, sottolinea anche Beck, hanno stravolto le nostre vite. Globalizzazione e tecnologie digitali hanno reso il mondo più piccolo, connesso ma anche fragile e sempre più nevrotico. E le mutazioni riguardano il nostro essere genitori e i rapporti tra le generazioni, in condizioni di crescenti disuguaglianze, i cambiamenti climatici sino al “catastrofismo emancipativo” (con i conflitti tra egoismi nazionali e produttivi e importanti accordi internazionali per l’ambiente), le metropoli in cui viviamo, il miglioramento della qualità della vita ma anche “i rischi cosmopoliti” (il terrorismo che colpisce ovunque), il lavoro, la comunicazione, l’economia e le stesse tradizionali forme della democrazia. Come ne usciremo? Il futuro dipende un po’ pure dal senso di responsabilità d’ognuno di noi. Il “cambio di paradigma” può molto migliorar