Tra il nuovo web e la “cultura del fare” cresce tra i giovani la voglia d’impresa
Parte dei giovani una nuova voglia d’impresa, dicono gli organizzatori del “Festival dell’intelligenza collettiva”, due giorni di dibattiti e incontri organizzati dai giovani della Cna, la Confederazione nazionale dell’artigianato, a Firenze, ai primi di novembre e dedicati, quest’anno, alla manifattura e alla “cultura del fare”. Una idea tutt’altro che isolata. “Cultura#manifattura”, infatti, è stato il titolo di CulT Venezie, il Salone europeo della cultura che ha visto oltre 25mila presenze (moltissimi i giovani) ai tre giorni di dibattiti al Terminal San Basilio, con un occhio di particolare attenzione agli incroci tra sapienza manifatturiera, radicata nella tradizione italiana e tecnologie innovative, ai nuovi “artigiani digitali”, i “makers”.
In tempi di crisi, quando le opportunità tradizionali di lavoro si restringono, sia nell’industria di grandi dimensioni sia nel settore dei servizi, una via d’uscita è quella dell’intraprendenza personale, dell’imprenditorialità. Da gennaio a ottobre 2013, secondo i dati di Movimprese (la struttura statistica di Unioncamere) sono nate infatti 100mila nuove attività imprenditoriali, da parte di persone con meno di 35 anni d’età, un terzo di tutte le imprese nate nel periodo. Start up spesso aggressive, tecnologicamente agguerrite, attive non solo nel commercio (il 20%), nella ristorazione (il 5,6%) e nelle costruzioni (il 9,4%) ma anche nella manifattura e nelle attività produttive ad alta tecnologia. Artigiani hi tech, appunto. Ragazzi “nativi digitali” capaci adesso di declinare originali sintesi tra la manifattura e il web, la bottega e la rete. O tra l’individualismo tipico della cultura italiana e l’attitudine, altrettanto italiana, a legare la propria attività ai territori, a rafforzare il capitale sociale e cioè i sistemi positivi di relazione, a coniugare “persona” e “comunità”.
La tendenza neo-artigiana, neo-manifatturiera, si va diffondendo. Nei paesi anglosassoni se ne parla da qualche anno e “The Economist” ha coniato la definizione di “manifattura additiva” (i prodotti nascono aggiungendo la corposità dei materiali ai progetti, realizzati attraverso le stampanti 3D, nel passaggio originale dall’idea al manufatto). E in Italia si carica di tendenze particolari, date appunto le nostre attitudini alla dinamicità delle piccole imprese e all’artigianato di alta qualità. La tendenza va considerata naturalmente ben diversa dalle abitudini del “piccolo e bello” (una idea produttiva diventata ideologia del “microcapitalismo”, dell’individualismo non cooperativo e non più competitivo, del familismo imprenditoriale). Ma anche da certe interpretazioni sociologiche per cui i “makers” sostituiranno la media e grande impresa in crisi.
Più realisticamente, vale la pena osservare, agevolare, sostenere (culturalmente e finanziariamente) e incentivare (con una buona legislazione sul credito, l’innovazione, la ricerca e il fisco, finalizzati all’industria) il fenomeno. Come? Alcune indicazioni interessanti sono venute appunto dai convegni di CulT a Venezia. L’esperienza di Maurizio Costabeber e della sua Dws, una piccola impresa di Vicenza, racconta di una stampante 3D da cui escono gioielli con una filigrana talmente perfetta da non essere replicabile. E quella di Riccardo Donadon, presidente e fondatore di H-Farm. “Nel mondo delle istituzioni, polemizza Donadon, c’è una grande inconsapevolezza rispetto ai fenomeni che ci vedono protagonisti. Ma dobbiamo andare avanti. Qui in questo territorio, nel passato, è nata un’industria manifatturiera spontaneamente. Sapevamo fare le cose, le abbiamo sempre sapute fare, ora dobbiamo continuare per quella strada». Massimo Russo, direttore di “Wired”, rivista sensibile ai principali fenomeni dell’innovazione, insiste: “L’Italia è al centro di forti fenomeni di innovazione. Con le stampanti 3D la geografia produttiva cambia. Con la manifattura additiva, non è più conveniente spostare il lavoro”. Prodotti su misura, per mercati su cui si diffondono le tendenze all’originalità, all’unicità. E flessibilità senza tempi morti e costi di magazzino. L’ibridazione tra prototipazione veloce e manifatturiero è possibile dove ci sono le competenze. “Devono mettersi insieme – sostiene Russo – hackers e makers. E noi in Italia queste figure di sintesi le abbiamo da 10 secoli. Sono gli artigiani. Digitali. E manifatturieri”. Un cambiamento in corso. Un buon possibile futuro.


Parte dei giovani una nuova voglia d’impresa, dicono gli organizzatori del “Festival dell’intelligenza collettiva”, due giorni di dibattiti e incontri organizzati dai giovani della Cna, la Confederazione nazionale dell’artigianato, a Firenze, ai primi di novembre e dedicati, quest’anno, alla manifattura e alla “cultura del fare”. Una idea tutt’altro che isolata. “Cultura#manifattura”, infatti, è stato il titolo di CulT Venezie, il Salone europeo della cultura che ha visto oltre 25mila presenze (moltissimi i giovani) ai tre giorni di dibattiti al Terminal San Basilio, con un occhio di particolare attenzione agli incroci tra sapienza manifatturiera, radicata nella tradizione italiana e tecnologie innovative, ai nuovi “artigiani digitali”, i “makers”.
In tempi di crisi, quando le opportunità tradizionali di lavoro si restringono, sia nell’industria di grandi dimensioni sia nel settore dei servizi, una via d’uscita è quella dell’intraprendenza personale, dell’imprenditorialità. Da gennaio a ottobre 2013, secondo i dati di Movimprese (la struttura statistica di Unioncamere) sono nate infatti 100mila nuove attività imprenditoriali, da parte di persone con meno di 35 anni d’età, un terzo di tutte le imprese nate nel periodo. Start up spesso aggressive, tecnologicamente agguerrite, attive non solo nel commercio (il 20%), nella ristorazione (il 5,6%) e nelle costruzioni (il 9,4%) ma anche nella manifattura e nelle attività produttive ad alta tecnologia. Artigiani hi tech, appunto. Ragazzi “nativi digitali” capaci adesso di declinare originali sintesi tra la manifattura e il web, la bottega e la rete. O tra l’individualismo tipico della cultura italiana e l’attitudine, altrettanto italiana, a legare la propria attività ai territori, a rafforzare il capitale sociale e cioè i sistemi positivi di relazione, a coniugare “persona” e “comunità”.
La tendenza neo-artigiana, neo-manifatturiera, si va diffondendo. Nei paesi anglosassoni se ne parla da qualche anno e “The Economist” ha coniato la definizione di “manifattura additiva” (i prodotti nascono aggiungendo la corposità dei materiali ai progetti, realizzati attraverso le stampanti 3D, nel passaggio originale dall’idea al manufatto). E in Italia si carica di tendenze particolari, date appunto le nostre attitudini alla dinamicità delle piccole imprese e all’artigianato di alta qualità. La tendenza va considerata naturalmente ben diversa dalle abitudini del “piccolo e bello” (una idea produttiva diventata ideologia del “microcapitalismo”, dell’individualismo non cooperativo e non più competitivo, del familismo imprenditoriale). Ma anche da certe interpretazioni sociologiche per cui i “makers” sostituiranno la media e grande impresa in crisi.
Più realisticamente, vale la pena osservare, agevolare, sostenere (culturalmente e finanziariamente) e incentivare (con una buona legislazione sul credito, l’innovazione, la ricerca e il fisco, finalizzati all’industria) il fenomeno. Come? Alcune indicazioni interessanti sono venute appunto dai convegni di CulT a Venezia. L’esperienza di Maurizio Costabeber e della sua Dws, una piccola impresa di Vicenza, racconta di una stampante 3D da cui escono gioielli con una filigrana talmente perfetta da non essere replicabile. E quella di Riccardo Donadon, presidente e fondatore di H-Farm. “Nel mondo delle istituzioni, polemizza Donadon, c’è una grande inconsapevolezza rispetto ai fenomeni che ci vedono protagonisti. Ma dobbiamo andare avanti. Qui in questo territorio, nel passato, è nata un’industria manifatturiera spontaneamente. Sapevamo fare le cose, le abbiamo sempre sapute fare, ora dobbiamo continuare per quella strada». Massimo Russo, direttore di “Wired”, rivista sensibile ai principali fenomeni dell’innovazione, insiste: “L’Italia è al centro di forti fenomeni di innovazione. Con le stampanti 3D la geografia produttiva cambia. Con la manifattura additiva, non è più conveniente spostare il lavoro”. Prodotti su misura, per mercati su cui si diffondono le tendenze all’originalità, all’unicità. E flessibilità senza tempi morti e costi di magazzino. L’ibridazione tra prototipazione veloce e manifatturiero è possibile dove ci sono le competenze. “Devono mettersi insieme – sostiene Russo – hackers e makers. E noi in Italia queste figure di sintesi le abbiamo da 10 secoli. Sono gli artigiani. Digitali. E manifatturieri”. Un cambiamento in corso. Un buon possibile futuro.