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Troppo pochi laureati, troppi cervelli in fuga: ecco perché l’Italia innova e cresce lentamente  

Sono troppo pochi, i laureati in Italia. Soprattutto nei settori che riguardano l’innovazione digitale, vero cardine di sviluppo economico, nel cosiddetto mondo Stem (science, technology, engineering e mathematics). E troppi, tra quei laureati, coloro che vanno all’estero a cercare nuove e migliori opportunità di lavoro e di vita. E’ questo il quadro di sintesi di recenti ricerche e statistiche in giorni in cui ci si rallegra per una crescita economica migliore del previsto (+1,5% di Pil nel 2017 e forse altrettanto nel 2018, secondo le più recenti analisi di Bankitalia e Centro Studi Confindustria) ma si deve comunque prendere atto che è la crescita minore tra i grandi paesi Ue e senza riuscire ancora a intaccare radicalmente il nodo della crisi sociale: la carenza di lavoro e dunque di futuro tra le giovani generazioni.

Guardiamo alcuni dati. Secondo il rapporto annuale “Education at a Glance 2017” dell’Ocse, il 30% dei laureati italiani (nelle classi fra i 25 e i 64 anni, la popolazione in età da lavoro) ha un titolo di studio in discipline umanistiche, scienze sociali e informazione e solo il 24% nelle discipline Stem (in Germania, invece, il 35%): troppi avvocati, professori e comunicatori, pochi ingegneri e matematici, troppa cultura classica tradizionale e poca scientifica, per dirla in grande sintesi. Certo, dopo i dati sul titolo di studio, bisognerebbe anche discutere sui contenuti degli studi e sulla loro qualità. E varrebbe anche la pena ricordare (lo abbiamo fatto spesso in questo blog) che proprio le caratteristiche dell’innovazione in corso chiedono soprattutto studi multidisciplinari, culture “politecniche”, ingegneri-filosofi e umanisti memori del grande valore scientifico della stagione d’oro dell’Umanesimo. Resta il fatto che di ingegneri ne abbiamo pochi e ne servirebbero molti di più.

Ancora qualche dato dal Rapporto Ocse: solo il 18% degli italiani da 25 a 64 anni ha una laurea, rispetto alla media Ocse del 37% (siamo fanalino di coda); e se si guarda alle generazioni più giovani, 25-34 anni, il divario resta ampio: 26% di laureati in Italia contro il 57% della media Ocse. D’altronde, continuiamo a investire troppo poco nell’istruzione: il 4% appena del Pil, contro il 5,2% della media Ocse. Se la competitività si misura sul capitale umano, non stiamo affatto bene.

Nel “Global Human Capital Report 2017” del World Economic Forum l’Italia è solo al 35° posto, per una bassa partecipazione al mercato del lavoro, dovuta soprattutto al “gender gap” (poche le donne, anche se in percentuali crescenti negli anni e in gran parte concentrate nelle lauree in processi educativi) e alla larga disoccupazione giovanile, aggravata dal forte fenomeno dei “neet” (i ragazzi che non studiano e non lavorano, un triste primato italiano in Europa: il 19,9%, dati Ue, luglio 2017).

Potremmo fare molto meglio, suggerisce il World Economic Forum, se investissimo per migliorare le prestazioni del nostro capitale umano sulla scia di quel che fanno le economie più avanzate. Si torna anche da questo punto di vista alla relazione tra formazione di qualità, soprattutto nelle materie scientifiche, e opportunità di lavoro e di crescita. E’ sempre il Rapporto Ocse a ricordare che il tasso di occupazione dei laureati adulti in Italia varia dal 71% delle “belle arti” all’85% per “ingegneria, produzione industriale ed edilizia”.

Nel disequilibrio tra domanda e offerta, ad appesantire la condizione italiana e a rallentare i processi di sviluppo economico (l’economia finalmente cresce, dopo un decennio di crisi, ma poco) si aggiunge il fenomeno della “fuga dei talenti”: dal 2008 al 2015 (analisi del Centro Studi Confindustria/ “IlSole24Ore” 15 settembre) il 51% degli italiani che hanno spostato la residenza all’estero aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, 260mila persone. In gran parte con alto titolo di studio. E dunque con un altissimo costo per il Paese. Fare studiare tanti giovani (calcola sempre il Centro Studi Confindustria) è costato alle famiglie e al sistema pubblico 42,8 miliardi di euro. In altri termini: quasi 43 miliardi di investimenti pubblici e privati in formazione di cui beneficeranno quei Paesi in cui i nostri giovani sono andati a lavorare e vivere. 43 miliardi “bruciati” per l’economia italiana. Il peggio è che quel dato si fa via via più pesante: 14 miliardi solo nel 2015. Un punto di Pil. La “fuga dei talenti” costa un punto di Pil, di ricchezza, di sviluppo. Tutto induce a pensare che nel 2016 e nel 2017 il fenomeno resti di analoghe allarmanti dimensioni.

Che fare? Investire sull’innovazione. E sulla formazione. Sulle scuole superiori (con occhi molto più attenti alle scuole tecniche) e sulle università, migliorando la qualità degli studi e la loro relazione con l’evoluzione del mondo digitale (anche per dare ai ragazzi le conoscenze critiche e le competenze necessarie e capire e “governare” le trasformazioni in corso). E continuare a stimolare le imprese perché anche i loro investimenti in ricerca, innovazione e tecnologie digitali vadano avanti. La competitività ha come leva essenziale un capitale umano che sappia non solo reggere le sfide dell’innovazione, ma definirle, anticiparle, dare loro “forma”.

Può essere utile rileggere Keynes: “Siamo colpiti da un nuovo malessere… la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore a quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo”. Era il 1930, quando Keynes scriveva un libro di grande successo, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Adesso, a quasi novant’anni di distanza, vale la pena riflettere sulla ancora più rapida trasformazione tecnologica in corso e sulla velocità di cambiamenti e problemi. Il “disallineamento temporaneo”, come Keynes, interventista in economia, sapeva benissimo, va governato. Appunto con politiche dell’innovazione e del lavoro.

Nel dibattito in corso sulle caratteristiche e le conseguenze dell’economia digitale, sugli effetti di “Industry4.0”, si confrontano opinioni diverse, non solo tra gli economisti, ma anche tra gli imprenditori hi tech: se i robot distruggano lavoro o ne stimolino anche di nuovi, se e come avvenga il “riallineamento” keynesiano. Un fatto è certo: non innovare non crea lavoro. O, ribaltando il concetto, “solo l’innovazione può creare i nuovi posti” (Luca De Biase, “IlSole24Ore, 20 agosto). Dunque, meglio investire. L’economia digitale non è la terra promessa. Ma va comunque seguita.

Sono troppo pochi, i laureati in Italia. Soprattutto nei settori che riguardano l’innovazione digitale, vero cardine di sviluppo economico, nel cosiddetto mondo Stem (science, technology, engineering e mathematics). E troppi, tra quei laureati, coloro che vanno all’estero a cercare nuove e migliori opportunità di lavoro e di vita. E’ questo il quadro di sintesi di recenti ricerche e statistiche in giorni in cui ci si rallegra per una crescita economica migliore del previsto (+1,5% di Pil nel 2017 e forse altrettanto nel 2018, secondo le più recenti analisi di Bankitalia e Centro Studi Confindustria) ma si deve comunque prendere atto che è la crescita minore tra i grandi paesi Ue e senza riuscire ancora a intaccare radicalmente il nodo della crisi sociale: la carenza di lavoro e dunque di futuro tra le giovani generazioni.

Guardiamo alcuni dati. Secondo il rapporto annuale “Education at a Glance 2017” dell’Ocse, il 30% dei laureati italiani (nelle classi fra i 25 e i 64 anni, la popolazione in età da lavoro) ha un titolo di studio in discipline umanistiche, scienze sociali e informazione e solo il 24% nelle discipline Stem (in Germania, invece, il 35%): troppi avvocati, professori e comunicatori, pochi ingegneri e matematici, troppa cultura classica tradizionale e poca scientifica, per dirla in grande sintesi. Certo, dopo i dati sul titolo di studio, bisognerebbe anche discutere sui contenuti degli studi e sulla loro qualità. E varrebbe anche la pena ricordare (lo abbiamo fatto spesso in questo blog) che proprio le caratteristiche dell’innovazione in corso chiedono soprattutto studi multidisciplinari, culture “politecniche”, ingegneri-filosofi e umanisti memori del grande valore scientifico della stagione d’oro dell’Umanesimo. Resta il fatto che di ingegneri ne abbiamo pochi e ne servirebbero molti di più.

Ancora qualche dato dal Rapporto Ocse: solo il 18% degli italiani da 25 a 64 anni ha una laurea, rispetto alla media Ocse del 37% (siamo fanalino di coda); e se si guarda alle generazioni più giovani, 25-34 anni, il divario resta ampio: 26% di laureati in Italia contro il 57% della media Ocse. D’altronde, continuiamo a investire troppo poco nell’istruzione: il 4% appena del Pil, contro il 5,2% della media Ocse. Se la competitività si misura sul capitale umano, non stiamo affatto bene.

Nel “Global Human Capital Report 2017” del World Economic Forum l’Italia è solo al 35° posto, per una bassa partecipazione al mercato del lavoro, dovuta soprattutto al “gender gap” (poche le donne, anche se in percentuali crescenti negli anni e in gran parte concentrate nelle lauree in processi educativi) e alla larga disoccupazione giovanile, aggravata dal forte fenomeno dei “neet” (i ragazzi che non studiano e non lavorano, un triste primato italiano in Europa: il 19,9%, dati Ue, luglio 2017).

Potremmo fare molto meglio, suggerisce il World Economic Forum, se investissimo per migliorare le prestazioni del nostro capitale umano sulla scia di quel che fanno le economie più avanzate. Si torna anche da questo punto di vista alla relazione tra formazione di qualità, soprattutto nelle materie scientifiche, e opportunità di lavoro e di crescita. E’ sempre il Rapporto Ocse a ricordare che il tasso di occupazione dei laureati adulti in Italia varia dal 71% delle “belle arti” all’85% per “ingegneria, produzione industriale ed edilizia”.

Nel disequilibrio tra domanda e offerta, ad appesantire la condizione italiana e a rallentare i processi di sviluppo economico (l’economia finalmente cresce, dopo un decennio di crisi, ma poco) si aggiunge il fenomeno della “fuga dei talenti”: dal 2008 al 2015 (analisi del Centro Studi Confindustria/ “IlSole24Ore” 15 settembre) il 51% degli italiani che hanno spostato la residenza all’estero aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, 260mila persone. In gran parte con alto titolo di studio. E dunque con un altissimo costo per il Paese. Fare studiare tanti giovani (calcola sempre il Centro Studi Confindustria) è costato alle famiglie e al sistema pubblico 42,8 miliardi di euro. In altri termini: quasi 43 miliardi di investimenti pubblici e privati in formazione di cui beneficeranno quei Paesi in cui i nostri giovani sono andati a lavorare e vivere. 43 miliardi “bruciati” per l’economia italiana. Il peggio è che quel dato si fa via via più pesante: 14 miliardi solo nel 2015. Un punto di Pil. La “fuga dei talenti” costa un punto di Pil, di ricchezza, di sviluppo. Tutto induce a pensare che nel 2016 e nel 2017 il fenomeno resti di analoghe allarmanti dimensioni.

Che fare? Investire sull’innovazione. E sulla formazione. Sulle scuole superiori (con occhi molto più attenti alle scuole tecniche) e sulle università, migliorando la qualità degli studi e la loro relazione con l’evoluzione del mondo digitale (anche per dare ai ragazzi le conoscenze critiche e le competenze necessarie e capire e “governare” le trasformazioni in corso). E continuare a stimolare le imprese perché anche i loro investimenti in ricerca, innovazione e tecnologie digitali vadano avanti. La competitività ha come leva essenziale un capitale umano che sappia non solo reggere le sfide dell’innovazione, ma definirle, anticiparle, dare loro “forma”.

Può essere utile rileggere Keynes: “Siamo colpiti da un nuovo malessere… la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore a quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo”. Era il 1930, quando Keynes scriveva un libro di grande successo, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Adesso, a quasi novant’anni di distanza, vale la pena riflettere sulla ancora più rapida trasformazione tecnologica in corso e sulla velocità di cambiamenti e problemi. Il “disallineamento temporaneo”, come Keynes, interventista in economia, sapeva benissimo, va governato. Appunto con politiche dell’innovazione e del lavoro.

Nel dibattito in corso sulle caratteristiche e le conseguenze dell’economia digitale, sugli effetti di “Industry4.0”, si confrontano opinioni diverse, non solo tra gli economisti, ma anche tra gli imprenditori hi tech: se i robot distruggano lavoro o ne stimolino anche di nuovi, se e come avvenga il “riallineamento” keynesiano. Un fatto è certo: non innovare non crea lavoro. O, ribaltando il concetto, “solo l’innovazione può creare i nuovi posti” (Luca De Biase, “IlSole24Ore, 20 agosto). Dunque, meglio investire. L’economia digitale non è la terra promessa. Ma va comunque seguita.

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