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Un giovane su quattro non studia né lavora: un’emergenza sociale e politica da affrontare 

Il lavoro e i giovani in Italia. Un mondo di divari, una prospettiva di crescente degrado. E dunque un drammatico rischio proprio per le prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Un rischio, ancora, che non riguarda solo l’economia, ma più in generale l’intero assetto sociale e, naturalmente, la qualità stessa della nostra democrazia. C’è un nesso forte tra partecipazione politica, senso di responsabilità civile verso la comunità e occupazione (come indica, già nell’articolo 1, la Costituzione). E troppo a lungo il problema è rimasto senza risposte.

Partiamo da due dati, per cercare di capire meglio. Uno è 3 milioni. L’altro è una percentuale, 40%.

3 milioni sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in alcun percorso formativo (anzi, per l’esattezza, 3 milioni e 47mila). In sigla, i Neet (che vuol dire not in employment, education or training). In percentuale, il 25% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 e i 34 anni, la media più alta della Ue, peggio ancora che in Grecia, Bulgaria, Spagna e Romania. Una lost generation, una generazione perduta, per usare la definizione preoccupata del presidente del Consiglio Mario Draghi.

40% è la percentuale dei posti che l’impresa vorrebbe coprire, ma per cui non trova personale qualificato o pronto a qualificarsi rapidamente.

In sintesi: un giovane su quattro è lontano da scuola e lavoro, proprio mentre dal mondo dell’impresa risuona l’allarme per la perdita di opportunità di crescita economica generale ma anche di affermazione professionale e individuale di milioni di persone. In sintesi: I ragazzi restano a casa, sfiduciati e le aziende non sanno chi assumere. Un inquietante paradosso.

Chi sono i Neet? I dati istat, Ocse ed Eurostat contenuti nell’indagine “Neet Working”, il Piano di emersione e orientamento giovani inattivi organizzato dal ministero per le Politiche giovanili in collaborazione con il ministero del Lavoro dicono che di quei 3 milioni e più, 1,7 sono donne (un terzo di coloro che sono nella stessa condizione in tutta Europa, un tristissimo primato). Molti hanno abbandonato la scuola dopo la licenza media. E sono concentrarti soprattutto nel Mezzogiorno, in Sicilia, con il 30% di Neet fra i 15 e i 24 anni, in Calabria con i 28,4% e in Campania con il 27,3%.

Guardando ancora più in dettaglio, di quei 3 milioni, i disoccupati (ovvero chi non ha un lavoro ma lo sta cercando) sono circa 1 milione, mentre gli inattivi (chi non ha un lavoro ma nemmeno lo cerca) sono gli altri 2milioni. Uno scenario drammatico, che adesso è aggravato dalla crisi determinata da pandemia, recessione ed effetti da aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e rallentamento del tasso di crescita a causa della guerra in Ucraina.

Può dunque un Paese, nel medio periodo e in una situazione caratterizzata dall’affermazione della cosiddetta “economia della conoscenza” rassegnarsi a perdere per strada, nell’ignoranza e nell’inattività (o nell’assoluta precarietà del lavoro irregolare e “nero”) un quarto delle nuove generazioni, con una percentuale ancora più alta di donne? No, naturalmente. Non solo perché il permanere di tali clamorosi divari squilibra profondamente gli assetti sociali (determinando frustrazioni, rancore, senso di estraneità rispetto agli interessi e ai valori dell’intero sistema Paese, come documentano da alcuni anni le indagini del Censis) ma anche perché alle imprese, motore dello sviluppo, vengono a mancare risorse umane indispensabili.

Lo conferma appunto quel 40% di posti rimasti scoperti, di cui parlavamo. Mancano professionalità sofisticate per le professioni legate all’innovazione tecnologica e alla digital economy (ingegneri, matematici, informatici, statistici, fisici, chimici, data analyst ed esperti di cyber security, neuroscienziati e tecnici del complesso mondo delle life sciences), ma anche tecnici intermedi per l’industria meccanica, meccatronica, chimica oltre che per l’intero comparto delle costruzioni.

Come uscirne? Le scelte fatte sinora si sono dimostrate fallimentari, dall’uso del reddito di cittadinanza come anticamera per trovare lavoro ai pensionamenti anticipati degli anziani nell’illusioni che al loro posto entrassero i giovani, dai programmi di formazione (affidati alle regioni  e quanto mai carenti rispetto ai bisogni reali del mondo del lavoro) alle iniziative europee chiamate Youth Guarentee e tradotte nei progetti “GOL” (Garanze occupabilità dei lavoratori).

E’ necessario cambiare strada. E destinare le risorse previste dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue alle nuove generazioni, insistendo su formazione di qualità, rapporto scuola-lavoro, valorizzazione degli istituti tecnici normali e superiori.

Misure specifiche a parte, è indispensabile un impegno politico e culturale più generale, per fare capire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi scoraggiati e sfiduciati l’importanza della scuola e della conoscenza, con progetti di formazione credibili e utili e con una vera e propria battaglia civile in cui coinvolgere personalità della cultura, dello spettacolo e dello sport, influencer e testimonial legati al mondo giovanile.

L’Italia è un paese che vive una crescente, allarmante crisi demografica, invecchia e declina (“in 50 anni in Italia saremo 12 milioni in meno”, ha calcolato l’Istat nel novembre ‘21). E a maggior ragione non può rassegnarsi a perdere un quarto dei propri ragazzi senza né capacità di studio né impegno per il lavoro. L’emergenza sociale merita risposte rapide ed efficaci. E un’assunzione di responsabilità politica forte. Il presidente della Repubblica Mattarella, in più occasioni, ha posto il problema con incisiva chiarezza. Tocca al governo, al Parlamento e alle forze politiche definire scelte e provvedimenti concreti. Finalmente, con senso di volontà civile e passione per un migliore futuro.

foto: Getty Images

Il lavoro e i giovani in Italia. Un mondo di divari, una prospettiva di crescente degrado. E dunque un drammatico rischio proprio per le prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Un rischio, ancora, che non riguarda solo l’economia, ma più in generale l’intero assetto sociale e, naturalmente, la qualità stessa della nostra democrazia. C’è un nesso forte tra partecipazione politica, senso di responsabilità civile verso la comunità e occupazione (come indica, già nell’articolo 1, la Costituzione). E troppo a lungo il problema è rimasto senza risposte.

Partiamo da due dati, per cercare di capire meglio. Uno è 3 milioni. L’altro è una percentuale, 40%.

3 milioni sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in alcun percorso formativo (anzi, per l’esattezza, 3 milioni e 47mila). In sigla, i Neet (che vuol dire not in employment, education or training). In percentuale, il 25% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 e i 34 anni, la media più alta della Ue, peggio ancora che in Grecia, Bulgaria, Spagna e Romania. Una lost generation, una generazione perduta, per usare la definizione preoccupata del presidente del Consiglio Mario Draghi.

40% è la percentuale dei posti che l’impresa vorrebbe coprire, ma per cui non trova personale qualificato o pronto a qualificarsi rapidamente.

In sintesi: un giovane su quattro è lontano da scuola e lavoro, proprio mentre dal mondo dell’impresa risuona l’allarme per la perdita di opportunità di crescita economica generale ma anche di affermazione professionale e individuale di milioni di persone. In sintesi: I ragazzi restano a casa, sfiduciati e le aziende non sanno chi assumere. Un inquietante paradosso.

Chi sono i Neet? I dati istat, Ocse ed Eurostat contenuti nell’indagine “Neet Working”, il Piano di emersione e orientamento giovani inattivi organizzato dal ministero per le Politiche giovanili in collaborazione con il ministero del Lavoro dicono che di quei 3 milioni e più, 1,7 sono donne (un terzo di coloro che sono nella stessa condizione in tutta Europa, un tristissimo primato). Molti hanno abbandonato la scuola dopo la licenza media. E sono concentrarti soprattutto nel Mezzogiorno, in Sicilia, con il 30% di Neet fra i 15 e i 24 anni, in Calabria con i 28,4% e in Campania con il 27,3%.

Guardando ancora più in dettaglio, di quei 3 milioni, i disoccupati (ovvero chi non ha un lavoro ma lo sta cercando) sono circa 1 milione, mentre gli inattivi (chi non ha un lavoro ma nemmeno lo cerca) sono gli altri 2milioni. Uno scenario drammatico, che adesso è aggravato dalla crisi determinata da pandemia, recessione ed effetti da aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e rallentamento del tasso di crescita a causa della guerra in Ucraina.

Può dunque un Paese, nel medio periodo e in una situazione caratterizzata dall’affermazione della cosiddetta “economia della conoscenza” rassegnarsi a perdere per strada, nell’ignoranza e nell’inattività (o nell’assoluta precarietà del lavoro irregolare e “nero”) un quarto delle nuove generazioni, con una percentuale ancora più alta di donne? No, naturalmente. Non solo perché il permanere di tali clamorosi divari squilibra profondamente gli assetti sociali (determinando frustrazioni, rancore, senso di estraneità rispetto agli interessi e ai valori dell’intero sistema Paese, come documentano da alcuni anni le indagini del Censis) ma anche perché alle imprese, motore dello sviluppo, vengono a mancare risorse umane indispensabili.

Lo conferma appunto quel 40% di posti rimasti scoperti, di cui parlavamo. Mancano professionalità sofisticate per le professioni legate all’innovazione tecnologica e alla digital economy (ingegneri, matematici, informatici, statistici, fisici, chimici, data analyst ed esperti di cyber security, neuroscienziati e tecnici del complesso mondo delle life sciences), ma anche tecnici intermedi per l’industria meccanica, meccatronica, chimica oltre che per l’intero comparto delle costruzioni.

Come uscirne? Le scelte fatte sinora si sono dimostrate fallimentari, dall’uso del reddito di cittadinanza come anticamera per trovare lavoro ai pensionamenti anticipati degli anziani nell’illusioni che al loro posto entrassero i giovani, dai programmi di formazione (affidati alle regioni  e quanto mai carenti rispetto ai bisogni reali del mondo del lavoro) alle iniziative europee chiamate Youth Guarentee e tradotte nei progetti “GOL” (Garanze occupabilità dei lavoratori).

E’ necessario cambiare strada. E destinare le risorse previste dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue alle nuove generazioni, insistendo su formazione di qualità, rapporto scuola-lavoro, valorizzazione degli istituti tecnici normali e superiori.

Misure specifiche a parte, è indispensabile un impegno politico e culturale più generale, per fare capire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi scoraggiati e sfiduciati l’importanza della scuola e della conoscenza, con progetti di formazione credibili e utili e con una vera e propria battaglia civile in cui coinvolgere personalità della cultura, dello spettacolo e dello sport, influencer e testimonial legati al mondo giovanile.

L’Italia è un paese che vive una crescente, allarmante crisi demografica, invecchia e declina (“in 50 anni in Italia saremo 12 milioni in meno”, ha calcolato l’Istat nel novembre ‘21). E a maggior ragione non può rassegnarsi a perdere un quarto dei propri ragazzi senza né capacità di studio né impegno per il lavoro. L’emergenza sociale merita risposte rapide ed efficaci. E un’assunzione di responsabilità politica forte. Il presidente della Repubblica Mattarella, in più occasioni, ha posto il problema con incisiva chiarezza. Tocca al governo, al Parlamento e alle forze politiche definire scelte e provvedimenti concreti. Finalmente, con senso di volontà civile e passione per un migliore futuro.

foto: Getty Images

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