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Un governo “politico” di competenti per la ripresa
Addio propaganda: adesso bisognerà studiare

“La conoscenza e i suoi nemici”, di Tom Nichols, professore alla Harvard University, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2017 e l’anno dopo, in Italia, dalla Luiss, ha animato per qualche tempo il discorso pubblico internazionale, su “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Negli Usa di Trump e nel Regno Unito di Johnson, nell’Europa dei populismi e dei sovranismi insidiosi, il libro è stato letto, discusso, contestato ma anche e soprattutto apprezzato da parte di tutti coloro che non volevano cedere all’illusione dell’”uno vale uno” e alle contestazioni ignoranti contro le competenze. Adesso la portata devastante della crisi determinata dall’incrocio tra pandemia da Covid19 e recessione economica ha rafforzato la necessità di risposte serie e lungimiranti, per affrontare e provare a risolvere i grandi temi della salute, della sicurezza e dello sviluppo.

Si prende finalmente atto che il mondo è troppo complesso per essere ridotto a uno slogan, a un tweet, a un proclama da un balcone o a una chiacchiera da bar trasformata in atto di governo. E così finalmente si ritorna alla “conoscenza e ai suoi amici” e dunque a dare spazio e responsabilità a chi sa, sa fare e può fare del bene. Il governo Draghi ne è un chiaro esempio.

“Se ora è il popolo a volere un’élite”, ha scritto Antonio Polito sul “Corriere della Sera” (9 febbraio), documentando come “il sostegno a Draghi di quasi tutte le forze politiche è una conseguenza dell’ampio favore dei cittadini”. E il governo che ha giurato al Quirinale e adesso si presenta alle Camere ha un forte sogno di svolta rispetto al passato, ricco com’è di personalità di solida competenza, credibilità internazionale, capacità maturata nella gestione di problemi complessi, a cavallo tra l’economia, la pubblica amministrazione, la scienza, la ricerca, la cultura politecnica. Conoscenze e competenze che s’incrociano, costruiscono sintesi originali in grado di decrittare le nuove dimensioni del mondo, scrivono mappe aggiornate per governare realtà in radicale cambiamento, quasi una metamorfosi. Tutti i cosiddetti “tecnici” scelti dal presidente del Consiglio Draghi, con il sostegno del quirinale, hanno queste fondamentali caratteristiche.

Il governo Draghi non ha, naturalmente, la bacchetta magica. Né potrà rispondere a tutte le aspettative (perfino un po’ eccessive) maturate in questi giorni di entusiasmo per il cambiamento: è un gabinetto guidato da un riformista d’esperienza e dunque senza alcuna inclinazione alla palingenesi. Ma sappiamo fin d’ora che si muoverà scegliendo e decidendo, senza proclami né illusorie promesse.

Ora facciamo parlare i fatti”, ha detto il premier ai suoi ministri, durante la prima riunione di governo, sabato mattina. Nessun “faremo”. Piuttosto, ascolteremo gli “abbiamo fatto”. Il passo di un nuovo stile di guida del Paese, dopo anni di chiacchiere, passerelle vanitose, battute, comparsate in tv, inondazioni di twitt e post sui social media, furbe “location” e sovrabbondanza di eventi luccicosi, insomma trucchi di abile comunicazione per velare la povertà delle idee.

E’ uno stile che, naturalmente, rivela anche un cambio di sostanza: niente liste della spesa, con sussidi e contributi, ma un vero e proprio piano di azione per investire i 200 miliardi del Recovery Plan e gli altri fondi del bilancio della Ue e dello Stato, in modo da rimettere in movimento la macchina economica e sociale italiana inceppata dalla pandemia ma già in affanno da moltissimo tempo (la produttività è ferma da vent’anni).

Siamo di fronte, infatti, a un governo molto “politico”, che arriva dopo l’evidenza di una profonda e preoccupante incapacità dei partiti e dei movimenti organizzati (i 5Stelle) di portare l’Italia fuori dalla crisi. “Politico” nel senso delle esperienze e delle competenze delle personalità chiamate a guidare l’economia, la transizione ecologica e digitale, le infrastrutture, la giustizia e la sicurezza (tutti “tecnici” con una visione ampia dei problemi da affrontare, una visione appunto “politica”).

“Politico” perché deve definire e decidere “policy” e cioè indirizzi, progetti, programmi da tradurre in “politics”.

“Politico” perché, come ci hanno insegnato Max Weber e John Maynard Keynes, si muoverà secondo l’idea forte di un interesse generale del Paese: lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la scuola, il lavoro, l’abbattimento delle diseguaglianze di genere, il futuro per la “Next Generation” messa al centro dell’attenzione di tutta l’Europa: i nostri figli e nipoti.

Ecco perché, dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites: per farsi carico di una migliore condizione economica e sociale, di una più articolata e sicura navigazione della nostra democrazia.

Élites ma non casta. Piuttosto, un insieme di donne e uomini che hanno maturato, nel corso della loro storia di impegno professionale e civile (basta leggerne le biografie, per trovarne ampio riscontro) un forte senso di responsabilità da classe dirigente, una acuta consapevolezza dell’intreccio dei diritti e dei doveri, la consapevolezza dell’urgenza, proprio nella notte della crisi, di ritessere la trama del destino generale di un’Italia che merita molto di più di quanto le sue rappresentanze politiche siano state finora in grado di darle. Tutt’altro che gli “uomini nuovi” carichi di ambizioni personali e generosi di illusioni che hanno animato una troppo lunga stagione della recente storia italiana.

Semmai, ecco un insieme di personalità che ricordano i grandi civil servants alla Ciampi e alla Carli, i banchieri alla Raffaele Mattioli, gli uomini d’impresa come Olivetti, Agnelli, Pirelli e Mattei, gli scienziati come Giulio Natta e Rita Levi Montalcini che hanno saputo fare rinascere questo Paese dopo il disastro del fascismo e della guerra e farlo crescere nelle nuove dinamiche della democrazia liberale e dello sviluppo.

Un governo di competenti, ma non di tecnocrati. Ha colto bene il punto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, quando ha avvertito i suoi colleghi sindacalisti: adesso bisognerà studiare. Poca propaganda, molta concretezza.

Le caratteristiche e le qualità della squadra guidata da Mario Draghi interpellano direttamente anche le rappresentanze sociali, le organizzazioni dell’impresa e del lavoro, chiedendo un linguaggio migliore e più in sintonia con le sfide che ci tocca affrontare e una maggiore e migliore pertinenza nelle analisi e nelle proposte. Stare ai fatti, guardare agli interessi di parte ma solo nell’orizzonte dell’interesse generale, approfondire i dossier dei problemi e avanzare proposte concrete. Come peraltro è già successo negli snodi cruciali, nelle pagine più drammatiche della nostra storia.

Nell’immediato dopoguerra, quando il presidente della Confindustria Costa e il segretario della Cgil Di Vittorio trovarono l’accordo su “prima le fabbriche e poi le case”, per fare ripartire il Paese, davanti all’impegno del governo guidato da Alcide De Gasperi. Poi negli anni bui del terrorismo e delle drammatiche tensioni politiche e sociali, con i dialoghi tra Gianni Agnelli per le imprese e Luciano Lama per le organizzazioni dei lavoratori. Con la “concertazione” di Carlo Azeglio Ciampi dopo quel drammatico 1992 all’incrocio tra crisi politica (Tangentopoli), finanziaria (il crollo della lira) e istituzionale (le stragi mafiose contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). E con le intese generali per entrare nell’euro.

Anche adesso, è tempo di svolte e intese lungimiranti, di un impegno comune sullo sviluppo e la sicurezza, nella grande prospettiva europea. Un passaggio drammatico, eppur carico di speranze, proprio grazie al senso di responsabilità mostrato dal Quirinale e dai nuovi abitanti di Palazzo Chigi. E a quello che sapranno fare gli italiani.

Fuori dalle angustie del populismo, bisogna sentirsi di nuovo cittadini. Saper essere persone, non gente. Assumere la consapevolezza che non si è più pubblico degli show del potere e nemmeno soltanto consumatori. Cittadini consapevoli, appunto. D’altronde, non avevamo dato ragione a Francesco De Gregori, in una delle sue più struggenti e civili canzoni? “La storia siamo noi”.

“La conoscenza e i suoi nemici”, di Tom Nichols, professore alla Harvard University, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2017 e l’anno dopo, in Italia, dalla Luiss, ha animato per qualche tempo il discorso pubblico internazionale, su “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Negli Usa di Trump e nel Regno Unito di Johnson, nell’Europa dei populismi e dei sovranismi insidiosi, il libro è stato letto, discusso, contestato ma anche e soprattutto apprezzato da parte di tutti coloro che non volevano cedere all’illusione dell’”uno vale uno” e alle contestazioni ignoranti contro le competenze. Adesso la portata devastante della crisi determinata dall’incrocio tra pandemia da Covid19 e recessione economica ha rafforzato la necessità di risposte serie e lungimiranti, per affrontare e provare a risolvere i grandi temi della salute, della sicurezza e dello sviluppo.

Si prende finalmente atto che il mondo è troppo complesso per essere ridotto a uno slogan, a un tweet, a un proclama da un balcone o a una chiacchiera da bar trasformata in atto di governo. E così finalmente si ritorna alla “conoscenza e ai suoi amici” e dunque a dare spazio e responsabilità a chi sa, sa fare e può fare del bene. Il governo Draghi ne è un chiaro esempio.

“Se ora è il popolo a volere un’élite”, ha scritto Antonio Polito sul “Corriere della Sera” (9 febbraio), documentando come “il sostegno a Draghi di quasi tutte le forze politiche è una conseguenza dell’ampio favore dei cittadini”. E il governo che ha giurato al Quirinale e adesso si presenta alle Camere ha un forte sogno di svolta rispetto al passato, ricco com’è di personalità di solida competenza, credibilità internazionale, capacità maturata nella gestione di problemi complessi, a cavallo tra l’economia, la pubblica amministrazione, la scienza, la ricerca, la cultura politecnica. Conoscenze e competenze che s’incrociano, costruiscono sintesi originali in grado di decrittare le nuove dimensioni del mondo, scrivono mappe aggiornate per governare realtà in radicale cambiamento, quasi una metamorfosi. Tutti i cosiddetti “tecnici” scelti dal presidente del Consiglio Draghi, con il sostegno del quirinale, hanno queste fondamentali caratteristiche.

Il governo Draghi non ha, naturalmente, la bacchetta magica. Né potrà rispondere a tutte le aspettative (perfino un po’ eccessive) maturate in questi giorni di entusiasmo per il cambiamento: è un gabinetto guidato da un riformista d’esperienza e dunque senza alcuna inclinazione alla palingenesi. Ma sappiamo fin d’ora che si muoverà scegliendo e decidendo, senza proclami né illusorie promesse.

Ora facciamo parlare i fatti”, ha detto il premier ai suoi ministri, durante la prima riunione di governo, sabato mattina. Nessun “faremo”. Piuttosto, ascolteremo gli “abbiamo fatto”. Il passo di un nuovo stile di guida del Paese, dopo anni di chiacchiere, passerelle vanitose, battute, comparsate in tv, inondazioni di twitt e post sui social media, furbe “location” e sovrabbondanza di eventi luccicosi, insomma trucchi di abile comunicazione per velare la povertà delle idee.

E’ uno stile che, naturalmente, rivela anche un cambio di sostanza: niente liste della spesa, con sussidi e contributi, ma un vero e proprio piano di azione per investire i 200 miliardi del Recovery Plan e gli altri fondi del bilancio della Ue e dello Stato, in modo da rimettere in movimento la macchina economica e sociale italiana inceppata dalla pandemia ma già in affanno da moltissimo tempo (la produttività è ferma da vent’anni).

Siamo di fronte, infatti, a un governo molto “politico”, che arriva dopo l’evidenza di una profonda e preoccupante incapacità dei partiti e dei movimenti organizzati (i 5Stelle) di portare l’Italia fuori dalla crisi. “Politico” nel senso delle esperienze e delle competenze delle personalità chiamate a guidare l’economia, la transizione ecologica e digitale, le infrastrutture, la giustizia e la sicurezza (tutti “tecnici” con una visione ampia dei problemi da affrontare, una visione appunto “politica”).

“Politico” perché deve definire e decidere “policy” e cioè indirizzi, progetti, programmi da tradurre in “politics”.

“Politico” perché, come ci hanno insegnato Max Weber e John Maynard Keynes, si muoverà secondo l’idea forte di un interesse generale del Paese: lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la scuola, il lavoro, l’abbattimento delle diseguaglianze di genere, il futuro per la “Next Generation” messa al centro dell’attenzione di tutta l’Europa: i nostri figli e nipoti.

Ecco perché, dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites: per farsi carico di una migliore condizione economica e sociale, di una più articolata e sicura navigazione della nostra democrazia.

Élites ma non casta. Piuttosto, un insieme di donne e uomini che hanno maturato, nel corso della loro storia di impegno professionale e civile (basta leggerne le biografie, per trovarne ampio riscontro) un forte senso di responsabilità da classe dirigente, una acuta consapevolezza dell’intreccio dei diritti e dei doveri, la consapevolezza dell’urgenza, proprio nella notte della crisi, di ritessere la trama del destino generale di un’Italia che merita molto di più di quanto le sue rappresentanze politiche siano state finora in grado di darle. Tutt’altro che gli “uomini nuovi” carichi di ambizioni personali e generosi di illusioni che hanno animato una troppo lunga stagione della recente storia italiana.

Semmai, ecco un insieme di personalità che ricordano i grandi civil servants alla Ciampi e alla Carli, i banchieri alla Raffaele Mattioli, gli uomini d’impresa come Olivetti, Agnelli, Pirelli e Mattei, gli scienziati come Giulio Natta e Rita Levi Montalcini che hanno saputo fare rinascere questo Paese dopo il disastro del fascismo e della guerra e farlo crescere nelle nuove dinamiche della democrazia liberale e dello sviluppo.

Un governo di competenti, ma non di tecnocrati. Ha colto bene il punto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, quando ha avvertito i suoi colleghi sindacalisti: adesso bisognerà studiare. Poca propaganda, molta concretezza.

Le caratteristiche e le qualità della squadra guidata da Mario Draghi interpellano direttamente anche le rappresentanze sociali, le organizzazioni dell’impresa e del lavoro, chiedendo un linguaggio migliore e più in sintonia con le sfide che ci tocca affrontare e una maggiore e migliore pertinenza nelle analisi e nelle proposte. Stare ai fatti, guardare agli interessi di parte ma solo nell’orizzonte dell’interesse generale, approfondire i dossier dei problemi e avanzare proposte concrete. Come peraltro è già successo negli snodi cruciali, nelle pagine più drammatiche della nostra storia.

Nell’immediato dopoguerra, quando il presidente della Confindustria Costa e il segretario della Cgil Di Vittorio trovarono l’accordo su “prima le fabbriche e poi le case”, per fare ripartire il Paese, davanti all’impegno del governo guidato da Alcide De Gasperi. Poi negli anni bui del terrorismo e delle drammatiche tensioni politiche e sociali, con i dialoghi tra Gianni Agnelli per le imprese e Luciano Lama per le organizzazioni dei lavoratori. Con la “concertazione” di Carlo Azeglio Ciampi dopo quel drammatico 1992 all’incrocio tra crisi politica (Tangentopoli), finanziaria (il crollo della lira) e istituzionale (le stragi mafiose contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). E con le intese generali per entrare nell’euro.

Anche adesso, è tempo di svolte e intese lungimiranti, di un impegno comune sullo sviluppo e la sicurezza, nella grande prospettiva europea. Un passaggio drammatico, eppur carico di speranze, proprio grazie al senso di responsabilità mostrato dal Quirinale e dai nuovi abitanti di Palazzo Chigi. E a quello che sapranno fare gli italiani.

Fuori dalle angustie del populismo, bisogna sentirsi di nuovo cittadini. Saper essere persone, non gente. Assumere la consapevolezza che non si è più pubblico degli show del potere e nemmeno soltanto consumatori. Cittadini consapevoli, appunto. D’altronde, non avevamo dato ragione a Francesco De Gregori, in una delle sue più struggenti e civili canzoni? “La storia siamo noi”.

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