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Un patto dei produttori e una seria rilettura di Keynes contro il governo della spesa pubblica assistenziale

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

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