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Una seria lotta alla povertà, oltre l’emergenza, significa creare lavoro, soprattutto per le donne

La parola chiave, per cercare di costruire un futuro più equilibrato, è sempre “sostenibilità”. Quella ambientale, naturalmente (dobbiamo lasciare non solo una moneta migliore, ma soprattutto un mondo migliore, per usare l’efficace sintesi di Mario Draghi, capace banchiere e adesso per fortuna presidente del Consiglio). Ma anche quella sociale. E di genere. La pandemia e la recessione hanno aggravato una situazione economica che già risentiva pesantemente della Grande Crisi finanziaria del 2008 e del mancato “cambio di paradigma” dello sviluppo economico (una migliore governance della globalizzazione, un’economia meno distorta nello svantaggio dei ceti deboli, una diversa qualità della crescita). E oggi i dati ci rivelano con drammatica evidenza l’aumento della condizione di povertà, che tocca soprattutto i lavoratori precari, le donne, le giovani generazioni e i bambini, di cui viene compromessa la possibilità di costruire un futuro equo (rompendo ancora una volta il patto generazionale e tradendo le indicazioni della Costituzione). “5 milioni di precari scomparsi”, aveva notato il Censis nel suo Rapporto annuale del dicembre scorso, calcolando i posti di lavoro cancellati dalla pandemia e notando l’incremento allarmante del disagio sociale, ma anche del rancore e della frustrazione in chi si ritrova ai margini della società, per impoverimento progressivo e crollo della fiducia e delle speranze.

E’ una riflessione obbligata, per tutto il mondo politico e per gli attori sociali, proprio nel momento in cui, con i fondi del Recovery Plan Next Generation Ue e con le altre risorse pubbliche derivate dalla sospensione del Patto di Stabilità e dalle garanzie della Bce sui titoli pubblici l’Italia ha a disposizione risorse molto abbondanti per investire sia sui provvedimenti d’emergenza sia sui progetti di lungo periodo per green economy e digital economy sia, ancora, sulle riforme necessarie per ammodernare finalmente il Paese e rafforzare la formazione dei giovani, la ricerca, l’innovazione economica e sociale. Soldi in gran parte a debito, è necessario ricordare: da restituire, quindi, riavviando una macchina economica e sociale bloccata da più di vent’anni e garantendo una robusta crescita economica.
La lotta alla povertà, infatti, ha nella crescita equilibrata e sostenibile la sua molla fondamentale. Il lavoro, dunque, con una maggiore partecipazione, quantitativa e qualitativa, delle donne. La scuola e l’università, per un capitale umano qualificato. La valorizzazione dell’ambiente e della qualità della vita. I beni pubblici, a cominciare da salute e istruzione. Con una robusta convergenza tra investimenti pubblici e investimenti privati.

Abolire la miseria” era il titolo di un saggio, di grande impatto, scritto nel 1945 da Ernesto Rossi, uno dei più attivi intellettuali italiani dell’epoca, liberale con solidi valori sociali, “grande firma” de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e autore, con Artiero Spinelli ed Eugenio Colorni, del “Manifesto di Ventotene” che fu di grande ispirazione per la nascita dell’Europa Unita. Gli strumenti indicati erano, appunto, gli investimenti per la scuola, la sanità, le case popolari e un sistema di welfare, tra assistenza e previdenza, in grado di compensare gli squilibri sociali dei cicli economici. Era l’Italia in cui, nel 1946, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi sosteneva che “il nostro primo dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. La stagione degli aiuti del Piano Marshall ben impiegati, tra assistenza e investimenti per l’industria e il lavoro. E dell’intesa tra il presidente di Confindustria Angelo Costa e il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio sull’impegno comune così sintetizzato: “Prima le fabbriche, poi le case”, priorità al lavoro per recuperare risorse per tutti gli investimenti sociali.

Da lì, da quella intelligenza strategica sullo sviluppo, pur tra diversità, divergenze e aspri conflitti politici e sociali, sono nati la Ricostruzione, il boom economico, il rafforzamento dei diritti sociali e civili, una lunga stagione di benessere diffuso.
Oggi, in un contesto nazionale e internazionale radicalmente mutato, bisogna ripartire dalla condivisa assunzione di responsabilità per la ripresa. Con un’idea chiara: il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze, sociali, di genere e generazionali, non ha bisogno di slogan da piazze, spiagge, balconi e vocianti schermi Tv e digitali ma di buona e lungimirante politica. E di una sintesi tra misure d’emergenza e scelte d’investimento con lo sguardo lungo e ambizioso del riformismo. Il governo Draghi, sinora, si sta muovendo su questa strada.
Guardiamo bene i dati, allora. “Un milione di italiani piomba nella povertà. E’ allarme per il Nord”, scrive “La Stampa” (5 marzo). “Un milione di poveri in più nonostante la diga dei sussidi”, titola il “Corriere della Sera”. L’indice Istat della povertà assoluta è salito al 9,4% (la soglia è data dalla spesa minima indispensabile per cibo, casa e difesa dal freddo), il che vuol dire che 5,6 milioni di italiani non sono in grado nemmeno di mangiare decentemente (e infatti aumentano le file alla Caritas e negli altri centri di sostegno pubblici e privati per avere almeno un pasto). Tra loro, i minorenni sono 1 milione 346mila, 209mila in più dell’anno precedente.

Le famiglie crollate in povertà assoluta sono aumentate di 209mila unità nel Nord, di 53mila nel Centro e di 186mila nel Sud. Detti così, sono numeri, nell’aridità impietosa delle statistiche. A pensarci bene, sono persone in grandi difficoltà, uomini, donne, ragazzi umiliati e offesi, volti sofferenti, vite ferite dal degrado. Tante. Troppe. Che incontriamo per strada. Che chiedono una risposta, un intervento, una prospettiva che vadano molto oltre il gesto di carità e di solidarietà, la piccola momentanea scelta di assistenza.
Tra i 7 e i 9 milioni sono le persone “in povertà relativa”, che faticano ad arrivare alla fine del mese.
“Il welfare non raggiunge chi soffre e le nostre città si sono sfaldate”, commenta il sociologo Aldo Bonomi, aggiungendo che “con la retorica non si mangia” e che dunque bisogna intervenire rapidamente con riforme dei meccanismi del welfare e degli ammortizzatori sociali: “La cassa integrazione non può più essere solo o prevalentemente operaia: ci sono i precari, le colf, gli autonomi, le partite Iva, i creativi che vivono delle reti urbane ora sfaldate. E c’è bisogno di una medicina e di un welfare territoriale per ricostruire le comunità con figure pubbliche che colgano i segnali, intercettino i bisogni e intervengano”.
Il reddito di cittadinanza, con tutte le sue distorsioni, e il reddito di emergenza hanno alleviato le conseguenze più dure della caduta dei salari e della perdita del lavoro, soprattutto nel Sud. Ma la sfida, adesso, è di creare lavoro e occupare quei posti ancora liberi nelle imprese che sono ripartite ma non trovano persone formate da assumere. Riformare i centri del lavoro e dell’Anpal. Aumentare radicalmente la partecipazione femminile all’occupazione. Legare la formazione, non solo scolastica, ma nel corso di tutta la vita lavorativa, al cambio degli scenari economici e sociali. Considerare l’ambiente come una risorsa da valorizzare.
Ecco un altro punto chiave, nella lotta alla povertà. Il ruolo delle donne. Sotto il titolo “Il lavoro perduto delle donne”, proprio l’8 marzo “la Repubblica ha documentato come la crisi accelerata dalla pandemia abbia provocato la perdita di oltre 300mila posti, di fronte a 100 mila uomini. Sono stati colpiti, infatti, soprattutto i servizi, a prevalente mano d’opera femminile. Il tasso di occupazione è sceso a quota 48,6% (quello degli uomini è del 67,5) e il tasso di inattività (tra i 15 e i 64 anni) è salito al 45,9%, rispetto al 26,3% degli uomini. Un grandissimo capitale umano inattivo. Un mancato aumento del Pil pari a circa 88 miliardi di euro, secondo i calcoli di Eurostat. Ma anche un aggravarsi degli squilibri personali, familiari, sociali.
Dunque, è indispensabile riavviare l’economia e accelerare le riforme. Mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, scuola e servizi. La lotta alla povertà coincide, in gran parte, al di là dell’assistenza d’emergenza, con un nuovo e migliore ciclo dello sviluppo.

La parola chiave, per cercare di costruire un futuro più equilibrato, è sempre “sostenibilità”. Quella ambientale, naturalmente (dobbiamo lasciare non solo una moneta migliore, ma soprattutto un mondo migliore, per usare l’efficace sintesi di Mario Draghi, capace banchiere e adesso per fortuna presidente del Consiglio). Ma anche quella sociale. E di genere. La pandemia e la recessione hanno aggravato una situazione economica che già risentiva pesantemente della Grande Crisi finanziaria del 2008 e del mancato “cambio di paradigma” dello sviluppo economico (una migliore governance della globalizzazione, un’economia meno distorta nello svantaggio dei ceti deboli, una diversa qualità della crescita). E oggi i dati ci rivelano con drammatica evidenza l’aumento della condizione di povertà, che tocca soprattutto i lavoratori precari, le donne, le giovani generazioni e i bambini, di cui viene compromessa la possibilità di costruire un futuro equo (rompendo ancora una volta il patto generazionale e tradendo le indicazioni della Costituzione). “5 milioni di precari scomparsi”, aveva notato il Censis nel suo Rapporto annuale del dicembre scorso, calcolando i posti di lavoro cancellati dalla pandemia e notando l’incremento allarmante del disagio sociale, ma anche del rancore e della frustrazione in chi si ritrova ai margini della società, per impoverimento progressivo e crollo della fiducia e delle speranze.

E’ una riflessione obbligata, per tutto il mondo politico e per gli attori sociali, proprio nel momento in cui, con i fondi del Recovery Plan Next Generation Ue e con le altre risorse pubbliche derivate dalla sospensione del Patto di Stabilità e dalle garanzie della Bce sui titoli pubblici l’Italia ha a disposizione risorse molto abbondanti per investire sia sui provvedimenti d’emergenza sia sui progetti di lungo periodo per green economy e digital economy sia, ancora, sulle riforme necessarie per ammodernare finalmente il Paese e rafforzare la formazione dei giovani, la ricerca, l’innovazione economica e sociale. Soldi in gran parte a debito, è necessario ricordare: da restituire, quindi, riavviando una macchina economica e sociale bloccata da più di vent’anni e garantendo una robusta crescita economica.
La lotta alla povertà, infatti, ha nella crescita equilibrata e sostenibile la sua molla fondamentale. Il lavoro, dunque, con una maggiore partecipazione, quantitativa e qualitativa, delle donne. La scuola e l’università, per un capitale umano qualificato. La valorizzazione dell’ambiente e della qualità della vita. I beni pubblici, a cominciare da salute e istruzione. Con una robusta convergenza tra investimenti pubblici e investimenti privati.

Abolire la miseria” era il titolo di un saggio, di grande impatto, scritto nel 1945 da Ernesto Rossi, uno dei più attivi intellettuali italiani dell’epoca, liberale con solidi valori sociali, “grande firma” de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e autore, con Artiero Spinelli ed Eugenio Colorni, del “Manifesto di Ventotene” che fu di grande ispirazione per la nascita dell’Europa Unita. Gli strumenti indicati erano, appunto, gli investimenti per la scuola, la sanità, le case popolari e un sistema di welfare, tra assistenza e previdenza, in grado di compensare gli squilibri sociali dei cicli economici. Era l’Italia in cui, nel 1946, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi sosteneva che “il nostro primo dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. La stagione degli aiuti del Piano Marshall ben impiegati, tra assistenza e investimenti per l’industria e il lavoro. E dell’intesa tra il presidente di Confindustria Angelo Costa e il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio sull’impegno comune così sintetizzato: “Prima le fabbriche, poi le case”, priorità al lavoro per recuperare risorse per tutti gli investimenti sociali.

Da lì, da quella intelligenza strategica sullo sviluppo, pur tra diversità, divergenze e aspri conflitti politici e sociali, sono nati la Ricostruzione, il boom economico, il rafforzamento dei diritti sociali e civili, una lunga stagione di benessere diffuso.
Oggi, in un contesto nazionale e internazionale radicalmente mutato, bisogna ripartire dalla condivisa assunzione di responsabilità per la ripresa. Con un’idea chiara: il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze, sociali, di genere e generazionali, non ha bisogno di slogan da piazze, spiagge, balconi e vocianti schermi Tv e digitali ma di buona e lungimirante politica. E di una sintesi tra misure d’emergenza e scelte d’investimento con lo sguardo lungo e ambizioso del riformismo. Il governo Draghi, sinora, si sta muovendo su questa strada.
Guardiamo bene i dati, allora. “Un milione di italiani piomba nella povertà. E’ allarme per il Nord”, scrive “La Stampa” (5 marzo). “Un milione di poveri in più nonostante la diga dei sussidi”, titola il “Corriere della Sera”. L’indice Istat della povertà assoluta è salito al 9,4% (la soglia è data dalla spesa minima indispensabile per cibo, casa e difesa dal freddo), il che vuol dire che 5,6 milioni di italiani non sono in grado nemmeno di mangiare decentemente (e infatti aumentano le file alla Caritas e negli altri centri di sostegno pubblici e privati per avere almeno un pasto). Tra loro, i minorenni sono 1 milione 346mila, 209mila in più dell’anno precedente.

Le famiglie crollate in povertà assoluta sono aumentate di 209mila unità nel Nord, di 53mila nel Centro e di 186mila nel Sud. Detti così, sono numeri, nell’aridità impietosa delle statistiche. A pensarci bene, sono persone in grandi difficoltà, uomini, donne, ragazzi umiliati e offesi, volti sofferenti, vite ferite dal degrado. Tante. Troppe. Che incontriamo per strada. Che chiedono una risposta, un intervento, una prospettiva che vadano molto oltre il gesto di carità e di solidarietà, la piccola momentanea scelta di assistenza.
Tra i 7 e i 9 milioni sono le persone “in povertà relativa”, che faticano ad arrivare alla fine del mese.
“Il welfare non raggiunge chi soffre e le nostre città si sono sfaldate”, commenta il sociologo Aldo Bonomi, aggiungendo che “con la retorica non si mangia” e che dunque bisogna intervenire rapidamente con riforme dei meccanismi del welfare e degli ammortizzatori sociali: “La cassa integrazione non può più essere solo o prevalentemente operaia: ci sono i precari, le colf, gli autonomi, le partite Iva, i creativi che vivono delle reti urbane ora sfaldate. E c’è bisogno di una medicina e di un welfare territoriale per ricostruire le comunità con figure pubbliche che colgano i segnali, intercettino i bisogni e intervengano”.
Il reddito di cittadinanza, con tutte le sue distorsioni, e il reddito di emergenza hanno alleviato le conseguenze più dure della caduta dei salari e della perdita del lavoro, soprattutto nel Sud. Ma la sfida, adesso, è di creare lavoro e occupare quei posti ancora liberi nelle imprese che sono ripartite ma non trovano persone formate da assumere. Riformare i centri del lavoro e dell’Anpal. Aumentare radicalmente la partecipazione femminile all’occupazione. Legare la formazione, non solo scolastica, ma nel corso di tutta la vita lavorativa, al cambio degli scenari economici e sociali. Considerare l’ambiente come una risorsa da valorizzare.
Ecco un altro punto chiave, nella lotta alla povertà. Il ruolo delle donne. Sotto il titolo “Il lavoro perduto delle donne”, proprio l’8 marzo “la Repubblica ha documentato come la crisi accelerata dalla pandemia abbia provocato la perdita di oltre 300mila posti, di fronte a 100 mila uomini. Sono stati colpiti, infatti, soprattutto i servizi, a prevalente mano d’opera femminile. Il tasso di occupazione è sceso a quota 48,6% (quello degli uomini è del 67,5) e il tasso di inattività (tra i 15 e i 64 anni) è salito al 45,9%, rispetto al 26,3% degli uomini. Un grandissimo capitale umano inattivo. Un mancato aumento del Pil pari a circa 88 miliardi di euro, secondo i calcoli di Eurostat. Ma anche un aggravarsi degli squilibri personali, familiari, sociali.
Dunque, è indispensabile riavviare l’economia e accelerare le riforme. Mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, scuola e servizi. La lotta alla povertà coincide, in gran parte, al di là dell’assistenza d’emergenza, con un nuovo e migliore ciclo dello sviluppo.

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