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Votare con i piedi: i giovani in fuga dall’Italia e le politiche necessarie contro il declino

“Votare con i piedi”, si dice nel gergo della politica economica. Non per stigmatizzare una scelta elettorale mal definita. Semmai, per indicare il fenomeno secondo cui un cittadino insoddisfatto della politica adottata da una certa amministrazione pubblica può dimostrare il proprio disaccordo, cioè le proprie preferenze, emigrando altrove. La frase, centrale negli studi dell’economista americano Charles Thiebaut, era stata spesso usata dal presidente Usa Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso, per raccomandare la competizione sulle politiche fiscali tra gli stati americani, nella corsa a ridurre le tasse e attrarre così persone e investimenti. Ne avevano scritto autorevoli economisti come Friedrich von Hayek e Milton Friedman. E anche il dibattito contemporaneo italiano sull’autonomia differenziata per le regioni risente di quell’impostazione culturale liberal-liberista.

Votano con i piedi”, per esempio, gli italiani delle città meridionali che scelgono di farsi curarsi a Milano, ma anche a Torino o a Bologna, in cerca di migliori prestazioni negli ospedali pubblici e privati del Nord (ma con costi a carico delle regioni del Sud, con una sanità malandata e comunque costosa). Votano con i piedi tutti i milanesi che preferiscono andare a vivere a Pavia o a Magenta, a Corbetta o a Monza, piuttosto che subire un intollerabile aumento del costo della vita. Votano con i piedi i pensionati che hanno preferito trasferire la residenza in Tunisia e in Portogallo (e adesso, dopo le riforme portoghesi, guardano alla Grecia o perfino a San Marino) per avere un robusto abbattimento del carico fiscale sui loro redditi. Votano con i piedi, e con profonda fatica e grande dolore nel distacco, quelli che abbandonano i loro comuni privi di servizi e scelgono altri paesi e città meglio serviti: sono il 49,3% i comuni italiani con variazione della popolazione negativa, con punte dell’89,3% in Basilicata, rispetto all’appena 15,2% del Trentino, provincia autonoma ben governata in termini di qualità della vita (“L’Italia spopolata dei comuni interni: gli abitanti fuggono, restano gli over 80”, titola IlSole24Ore, 17 marzo).

E votano con i piedi anche le imprese che lasciano l’Italia e scelgono altri territori per i loro investimenti (le cronache economiche ne offrono ampie testimonianze).

Hanno votato con i piedi, soprattutto, quel milione e ottocentomila giovani italiani (il 32% della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni) che, secondo il Censis, hanno lasciato negli ultimi vent’anni l’Italia per cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. E quegli altri loro coetanei che continuano a farlo. Come testimonia, tra l’altro, anche un report condotto da Astraricerche per ManagerItalia e Kilpatrick e pubblicato da “Il Sole24Ore” (13 marzo), secondo cui tra i dirigenti d’azienda espatriati, solo il 22,8% vuole tornare in Italia (erano il 43,6% in una analoga rilevazione di dieci anni fa) e tutti gli altri restano volentieri all’estero (il 33,7% con particolare convinzione) perché nel nostro paese “mancano opportunità professionali valide rispetto alle mine esigenze” oppure “perché l’Italia è in declino e non potrà mai riprendersi” oppure “perché non c’è meritocrazia”.

Tanti “voti con i piedi”, per la qualità della sanità, il peso fiscale, la qualità della vita o le opportunità personali e familiari di crescita, dovrebbero essere altrettanti sonori campanelli d’allarme sui rischi di declino da evitare, gli squilibri da sanare e le riforme da avviare. Ma nel nostro discorso pubblico ce n’è scarsa traccia. Irresponsabilmente.

Guardando al futuro, il dato che impressiona di più è quello dei giovani.

L’Italia, infatti, è in pieno inverno demografico, e il tasso di fertilità di ogni donna è appena 1,24, tra i più bassi del mondo e comunque ben lontano dal tasso di sostituzione del 2,1% (servirebbero cioè 2,1 figli per ogni donna per non fare regredire numericamente la popolazione). Nel ‘23, per la prima volta, sono nati meno di 400mila bambini (nel 2008 erano 600mila, nel 1964, subito dopo il culmine del boom economico, erano 1 milione).

Da oltre trent’anni, insomma, nel paese che invecchia, si registrano più morti che nascite (746mila, nel 2020). “Un’Italia senza bambini”, sintetizza “Il Foglio” (11 marzo).

Ecco, non solo diminuisce demograficamente il peso delle nuove generazioni, ma in tanti se ne vanno via, aggravando il quadro generale. E meno giovani, in prospettiva, significa minore produttività, minore innovazione, maggiore carico sulle casse pubbliche (sulle nostre tasse, di conseguenza o sul nostro debito) per oneri del sistema previdenziale e di quello sanitario.

E’ vero che l’ingegnosità degli italiani tiene comunque in piedi la macchina produttiva, come documenta Marco Fortis, mostrando, dati alla mano, come “l’Italia sia prima in Europa per la crescita del Pil pro capite, nonostante il calo delle nascite” (IlSole24Ore, 12 marzo) e dunque abbia ancora energie innovative e produttive. Ma si tratta di situazioni che non possono andare avanti nel lungo periodo.

E dunque?

Occorrono scelte politiche con lo sguardo ambizioso, orientate alla crescita. Per rendere finalmente il nostro Paese attrattivo non solo per i nostri giovani, ma anche per tutti coloro che possono guardare all’Italia come il posto in cui trovare migliori occasioni di lavoro, vita, intraprendenza, inclusione, sviluppo sostenibile.

Politiche per la famiglia, con tutte le conseguenze in termini di servizi e di stimoli a conciliare il lavoro con paternità e maternità. Politiche dell’immigrazione ben governata. E un generale impegno, trasversale a tutte le forze politiche, per ricostruire un solido capitale sociale di fiducia, per sollecitare una cultura positiva sullo sviluppo. E’ la fiducia, la chiave della scelta demografica positiva. E’ la fiducia, su cui si costruiscono famiglie e figli.

Senza giocare irresponsabilmente sulle paure. Ma testimoniando, soprattutto al mondo delle ragazze e dei ragazzi, che si lavora per un loro futuro migliore.

Era il clima diffuso nell’Italia del dopoguerra, l’Italia della Ricostruzione e della Ripresa. In cui, nonostante le preoccupazioni per i rischi della Guerra Fredda tra l’Occidente e il mondo sovietico, i problemi sociali e le tensioni politiche, si investiva, si lavorava, si costruivano famiglie e case in cui farle vivere, si migliorava la scuola e, nel tempo, si varava la sanità pubblica. Tutti consapevoli, pur con diversità di accenti e posizioni culturali, economiche e politiche, del fatto che lo sviluppo di un Paese dipende dalla risorse investite, dall’innovazione, dalla diffusione di nuove tecnologie, ma soprattutto dal ruolo e dalle volontà dei cittadini che vanno, restano, arrivano. Progettano. Fanno.

Si votava con i piedi anche allora, insomma. Verso quei cantieri in cui si costruiva un’Italia migliore.

(foto Getty Images)

“Votare con i piedi”, si dice nel gergo della politica economica. Non per stigmatizzare una scelta elettorale mal definita. Semmai, per indicare il fenomeno secondo cui un cittadino insoddisfatto della politica adottata da una certa amministrazione pubblica può dimostrare il proprio disaccordo, cioè le proprie preferenze, emigrando altrove. La frase, centrale negli studi dell’economista americano Charles Thiebaut, era stata spesso usata dal presidente Usa Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso, per raccomandare la competizione sulle politiche fiscali tra gli stati americani, nella corsa a ridurre le tasse e attrarre così persone e investimenti. Ne avevano scritto autorevoli economisti come Friedrich von Hayek e Milton Friedman. E anche il dibattito contemporaneo italiano sull’autonomia differenziata per le regioni risente di quell’impostazione culturale liberal-liberista.

Votano con i piedi”, per esempio, gli italiani delle città meridionali che scelgono di farsi curarsi a Milano, ma anche a Torino o a Bologna, in cerca di migliori prestazioni negli ospedali pubblici e privati del Nord (ma con costi a carico delle regioni del Sud, con una sanità malandata e comunque costosa). Votano con i piedi tutti i milanesi che preferiscono andare a vivere a Pavia o a Magenta, a Corbetta o a Monza, piuttosto che subire un intollerabile aumento del costo della vita. Votano con i piedi i pensionati che hanno preferito trasferire la residenza in Tunisia e in Portogallo (e adesso, dopo le riforme portoghesi, guardano alla Grecia o perfino a San Marino) per avere un robusto abbattimento del carico fiscale sui loro redditi. Votano con i piedi, e con profonda fatica e grande dolore nel distacco, quelli che abbandonano i loro comuni privi di servizi e scelgono altri paesi e città meglio serviti: sono il 49,3% i comuni italiani con variazione della popolazione negativa, con punte dell’89,3% in Basilicata, rispetto all’appena 15,2% del Trentino, provincia autonoma ben governata in termini di qualità della vita (“L’Italia spopolata dei comuni interni: gli abitanti fuggono, restano gli over 80”, titola IlSole24Ore, 17 marzo).

E votano con i piedi anche le imprese che lasciano l’Italia e scelgono altri territori per i loro investimenti (le cronache economiche ne offrono ampie testimonianze).

Hanno votato con i piedi, soprattutto, quel milione e ottocentomila giovani italiani (il 32% della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni) che, secondo il Censis, hanno lasciato negli ultimi vent’anni l’Italia per cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. E quegli altri loro coetanei che continuano a farlo. Come testimonia, tra l’altro, anche un report condotto da Astraricerche per ManagerItalia e Kilpatrick e pubblicato da “Il Sole24Ore” (13 marzo), secondo cui tra i dirigenti d’azienda espatriati, solo il 22,8% vuole tornare in Italia (erano il 43,6% in una analoga rilevazione di dieci anni fa) e tutti gli altri restano volentieri all’estero (il 33,7% con particolare convinzione) perché nel nostro paese “mancano opportunità professionali valide rispetto alle mine esigenze” oppure “perché l’Italia è in declino e non potrà mai riprendersi” oppure “perché non c’è meritocrazia”.

Tanti “voti con i piedi”, per la qualità della sanità, il peso fiscale, la qualità della vita o le opportunità personali e familiari di crescita, dovrebbero essere altrettanti sonori campanelli d’allarme sui rischi di declino da evitare, gli squilibri da sanare e le riforme da avviare. Ma nel nostro discorso pubblico ce n’è scarsa traccia. Irresponsabilmente.

Guardando al futuro, il dato che impressiona di più è quello dei giovani.

L’Italia, infatti, è in pieno inverno demografico, e il tasso di fertilità di ogni donna è appena 1,24, tra i più bassi del mondo e comunque ben lontano dal tasso di sostituzione del 2,1% (servirebbero cioè 2,1 figli per ogni donna per non fare regredire numericamente la popolazione). Nel ‘23, per la prima volta, sono nati meno di 400mila bambini (nel 2008 erano 600mila, nel 1964, subito dopo il culmine del boom economico, erano 1 milione).

Da oltre trent’anni, insomma, nel paese che invecchia, si registrano più morti che nascite (746mila, nel 2020). “Un’Italia senza bambini”, sintetizza “Il Foglio” (11 marzo).

Ecco, non solo diminuisce demograficamente il peso delle nuove generazioni, ma in tanti se ne vanno via, aggravando il quadro generale. E meno giovani, in prospettiva, significa minore produttività, minore innovazione, maggiore carico sulle casse pubbliche (sulle nostre tasse, di conseguenza o sul nostro debito) per oneri del sistema previdenziale e di quello sanitario.

E’ vero che l’ingegnosità degli italiani tiene comunque in piedi la macchina produttiva, come documenta Marco Fortis, mostrando, dati alla mano, come “l’Italia sia prima in Europa per la crescita del Pil pro capite, nonostante il calo delle nascite” (IlSole24Ore, 12 marzo) e dunque abbia ancora energie innovative e produttive. Ma si tratta di situazioni che non possono andare avanti nel lungo periodo.

E dunque?

Occorrono scelte politiche con lo sguardo ambizioso, orientate alla crescita. Per rendere finalmente il nostro Paese attrattivo non solo per i nostri giovani, ma anche per tutti coloro che possono guardare all’Italia come il posto in cui trovare migliori occasioni di lavoro, vita, intraprendenza, inclusione, sviluppo sostenibile.

Politiche per la famiglia, con tutte le conseguenze in termini di servizi e di stimoli a conciliare il lavoro con paternità e maternità. Politiche dell’immigrazione ben governata. E un generale impegno, trasversale a tutte le forze politiche, per ricostruire un solido capitale sociale di fiducia, per sollecitare una cultura positiva sullo sviluppo. E’ la fiducia, la chiave della scelta demografica positiva. E’ la fiducia, su cui si costruiscono famiglie e figli.

Senza giocare irresponsabilmente sulle paure. Ma testimoniando, soprattutto al mondo delle ragazze e dei ragazzi, che si lavora per un loro futuro migliore.

Era il clima diffuso nell’Italia del dopoguerra, l’Italia della Ricostruzione e della Ripresa. In cui, nonostante le preoccupazioni per i rischi della Guerra Fredda tra l’Occidente e il mondo sovietico, i problemi sociali e le tensioni politiche, si investiva, si lavorava, si costruivano famiglie e case in cui farle vivere, si migliorava la scuola e, nel tempo, si varava la sanità pubblica. Tutti consapevoli, pur con diversità di accenti e posizioni culturali, economiche e politiche, del fatto che lo sviluppo di un Paese dipende dalla risorse investite, dall’innovazione, dalla diffusione di nuove tecnologie, ma soprattutto dal ruolo e dalle volontà dei cittadini che vanno, restano, arrivano. Progettano. Fanno.

Si votava con i piedi anche allora, insomma. Verso quei cantieri in cui si costruiva un’Italia migliore.

(foto Getty Images)

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