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Raccontare l’impresa, così il lavoro si fonde con la drammaturgia

Questa sera in scena al Teatro Franco Parenti di Milano il progetto di formazione teatrale “L’umana impresa. La fabbrica degli attori” a cura dell’Associazione Pier Lombardo in collaborazione con Fondazione Pirelli.  Regia di Stefano De Luca, drammaturgia di Veronica Del Vecchio, e con Tobia Dal Corso Polzot, Elia Galeotti, Lorenzo Giovannetti, Claudia Grassi, Edoardo Rivoira, Emilia Tiburzi

Era la mia macchina

Eccola qua. È la mia macchina. Ci ho lavorato più di vent’anni”. Gira intorno alla calandra, passa la mano ruvida sulla vernice scrostata, muove una manopola, alza una leva, accarezza un ingranaggio. E poi insiste: “Più di vent’anni…”. Sorride, con una sorta d’affetto, come si fa parlando d’una amicizia o d’un legame di famiglia. E attacca con i ricordi.

Il magazzino sta in fondo alla vecchia fabbrica alla periferia occidentale di Settimo Torinese, chiusa oramai da qualche anno per lasciare il posto al nuovo stabilimento, architettura d’avanguardia, robot, computer, luce diffusa e impianti a norma di massima sicurezza, una “fabbrica bella”, sostenibile e quanto mai produttiva. E tutti i macchinari che sanno di Novecento e catena di montaggio, fumo e rumore, stanno ammassati in uno stanzone, in attesa d’essere rottamati, buoni per ridiventare, dopo i passaggi in fonderia, materia prima per il ferro e l’acciaio. Intanto, aspettando il riciclo, animano le memorie.

“Ero entrato in stabilimento a metà degli anni Ottanta. Operaio. E avevo imparato presto: precisione, abilità, sensibilità per i materiali, attenzione. Fare nei tempi. Fare bene”. Fatica, durezza, tensioni, conflitti, cambiamenti. Lavoro, comunque. E gioco di squadra. “Ci si incontrava, nella sala del cambio turno, per passarci le consegne, dire d’un problema a una macchina, fare il conto della produzione. E parlare di noi, delle famiglie, del contratto da firmare, degli obiettivi per il premio da raggiungere”.

Insieme, insomma. Per crescere, con la soddisfazione di un mestiere che non dà solo salario, ma orgoglio di solida manifattura. Un orgoglio che resta, anche adesso che tutto s’è rinnovato, seguendo le regole e i ritmi dell’industria digitale. Si impara, a usare le macchine e governarle con un iPad. Ci si incontra, tra generazioni.

“E’ il tempo dei giovani, tecnologici. Noi, operai anziani, però, abbiamo esperienza. E ci tocca consigliare, insegnare”.

Parla, ricorda, commenta. Ripassa la mano sul rullo attorno a cui girava la gomma. Si appoggia e si alza dal sediolino di servizio, rimemorando movimenti un tempo consueti. È padrone dei gesti, rivela abitudine e cura.

“Lei, mi ha insegnato un sacco di cose”, confida, guardando la calandra spenta e silenziosa, come fosse una persona. E racconta che la meccanica non è solo materiali e ingranaggi, ma ha anche una sorta di anima. “E la macchina, docile, lo aiuta…”, aveva scritto anni fa un ingegnere poeta che amava la fabbrica.

L’operaio non sa chi era quell’ingegnere, non ne ha mai letto le pagine. Ma capisce bene quelle sue parole, per conoscenza di vita vissuta. “Era la mia macchina…”, ripete. E inclina la testa, per un ultimo sguardo, prima di girarsi e andar via.

Antonio Calabrò

Questa sera in scena al Teatro Franco Parenti di Milano il progetto di formazione teatrale “L’umana impresa. La fabbrica degli attori” a cura dell’Associazione Pier Lombardo in collaborazione con Fondazione Pirelli.  Regia di Stefano De Luca, drammaturgia di Veronica Del Vecchio, e con Tobia Dal Corso Polzot, Elia Galeotti, Lorenzo Giovannetti, Claudia Grassi, Edoardo Rivoira, Emilia Tiburzi

Era la mia macchina

Eccola qua. È la mia macchina. Ci ho lavorato più di vent’anni”. Gira intorno alla calandra, passa la mano ruvida sulla vernice scrostata, muove una manopola, alza una leva, accarezza un ingranaggio. E poi insiste: “Più di vent’anni…”. Sorride, con una sorta d’affetto, come si fa parlando d’una amicizia o d’un legame di famiglia. E attacca con i ricordi.

Il magazzino sta in fondo alla vecchia fabbrica alla periferia occidentale di Settimo Torinese, chiusa oramai da qualche anno per lasciare il posto al nuovo stabilimento, architettura d’avanguardia, robot, computer, luce diffusa e impianti a norma di massima sicurezza, una “fabbrica bella”, sostenibile e quanto mai produttiva. E tutti i macchinari che sanno di Novecento e catena di montaggio, fumo e rumore, stanno ammassati in uno stanzone, in attesa d’essere rottamati, buoni per ridiventare, dopo i passaggi in fonderia, materia prima per il ferro e l’acciaio. Intanto, aspettando il riciclo, animano le memorie.

“Ero entrato in stabilimento a metà degli anni Ottanta. Operaio. E avevo imparato presto: precisione, abilità, sensibilità per i materiali, attenzione. Fare nei tempi. Fare bene”. Fatica, durezza, tensioni, conflitti, cambiamenti. Lavoro, comunque. E gioco di squadra. “Ci si incontrava, nella sala del cambio turno, per passarci le consegne, dire d’un problema a una macchina, fare il conto della produzione. E parlare di noi, delle famiglie, del contratto da firmare, degli obiettivi per il premio da raggiungere”.

Insieme, insomma. Per crescere, con la soddisfazione di un mestiere che non dà solo salario, ma orgoglio di solida manifattura. Un orgoglio che resta, anche adesso che tutto s’è rinnovato, seguendo le regole e i ritmi dell’industria digitale. Si impara, a usare le macchine e governarle con un iPad. Ci si incontra, tra generazioni.

“E’ il tempo dei giovani, tecnologici. Noi, operai anziani, però, abbiamo esperienza. E ci tocca consigliare, insegnare”.

Parla, ricorda, commenta. Ripassa la mano sul rullo attorno a cui girava la gomma. Si appoggia e si alza dal sediolino di servizio, rimemorando movimenti un tempo consueti. È padrone dei gesti, rivela abitudine e cura.

“Lei, mi ha insegnato un sacco di cose”, confida, guardando la calandra spenta e silenziosa, come fosse una persona. E racconta che la meccanica non è solo materiali e ingranaggi, ma ha anche una sorta di anima. “E la macchina, docile, lo aiuta…”, aveva scritto anni fa un ingegnere poeta che amava la fabbrica.

L’operaio non sa chi era quell’ingegnere, non ne ha mai letto le pagine. Ma capisce bene quelle sue parole, per conoscenza di vita vissuta. “Era la mia macchina…”, ripete. E inclina la testa, per un ultimo sguardo, prima di girarsi e andar via.

Antonio Calabrò

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