La “vita spericolata” di Antonio Ascari, padre d’arte
Il Gran Premio d’Italia disputato a Monza domenica 2 settembre 2018 era dedicato ad Alberto Ascari, uno dei più grandi piloti nella storia dell’automobilismo di tutti i tempi. Era detto “ascarino” – nonostante la mole – perchè a sua volta figlio di un altro pilota diventato leggenda nei ruggenti anni Venti: Antonio Ascari. Antonio era nato a Bonferraro, provincia di Verona, nel 1888. E non può essere solo un caso se quattro anni dopo, a Castel d’Ario – una manciata di chilometri più in là, quanto basta per essere provincia di Mantova – sarebbe nato un certo Tazio Nuvolari: per questo il giornalista Orio Vergani, nel suo ritratto del “mantovano volante” pubblicato sul primo numero della rivista “Pirelli”, definì quell’area una sorta di “geografia del coraggio”. Riparava i motori dei trattori, Antonio, e nell’officina in mezzo ai campi aveva imparato a maneggiare carburatori, bielle e pistoni. Fu il fratello a instillargli il dubbio che avrebbe potuto anche occuparsi di automobili. E forse auto da corsa. E forse anche salirci sopra e guidarle…
Così Antonio si trasferì a Milano, prima alla De Vecchi ad imparare come erano fatte le macchine e poi all’Alfa Romeo: prima meccanico, poi collaudatore. E infine pilota. Ascari era pronto a dimostrare a tutti il suo valore già alla vigilia del Gran Premio d’Italia del 1923, da correre sull’Autodromo di Monza al volante della nuovissima Alfa P1. Doveva essere imbattibile, lo squadrone Alfa Romeo: numero 6 per Ascari, il 12 per Giuseppe Campari, il 17 per Ugo Sivocci. E quando Sivocci ebbe il mortale incidente durante le prove, qualcuno notò che sulla sua macchina non era montato il quadrifoglio verde ormai diventato simbolo dell’Alfa. Squadra ritirata, e mai più un numero 17 in gara.
L’anno successivo fu “quello buono”. Con l’Alfa P2 8C gommata Pirelli Cord, Ascari riuscì finalmente a vincere il Gran Premio d’Italia – che quell’anno era anche Gran Premio d’Europa – disputato a Monza nell’ottobre del 1924: con 3 minuti e 34 secondi, il pilota Alfa Romeo stabilì un record del giro più veloce destinato a restare a lungo imbattuto. Al suo fianco sempre l’inseparabile Giuseppe Campari, l’amico-avversario compagno di squadra. Consueto il trionfo dell’Alfa (Ascari al primo posto e Campari secondo) – anche l’anno successivo al Gran Premio del Belgio a Spa. L’ultimo.
Forse fu troppo irruento Ascari quel giorno sulla pista di Monthléry, Gran Premio di Francia 1925. Qualcuno diede la colpa alla troppa velocità in curva, altri sostennero che non doveva esserci quella palizzata che si incastrò nel mozzo facendo impennare la macchina scaraventando a terra il pilota. Antonio Ascari morì il 26 luglio del 1925. Quasi trentasettenne. Suo figlio Alberto, che allora aveva sette anni, giurò a se stesso che – qualora avesse fatto lo stesso mestiere del padre – mai avrebbe corso il giorno 26. E poi, quando diventò pilota, aggiunse che mai si sarebbe separato dal suo casco azzurro portafortuna. Perse la vita a Monza nel 1955 – pressochè trent’anni esatti dopo il padre, anche lui quasi trentasettenne –provando una Ferrari 750. L’avevano chiamato al circuito di Monza gli amici e colleghi Gigi Villoresi ed Eugenio Castellotti e lui, Alberto, aveva accettato volentieri di salire in macchina, per fare semplice qualche giro di pista. Anche se aveva lasciato a casa il casco azzurro portafortuna, anche se era il giorno 26 di maggio.
Il Gran Premio d’Italia disputato a Monza domenica 2 settembre 2018 era dedicato ad Alberto Ascari, uno dei più grandi piloti nella storia dell’automobilismo di tutti i tempi. Era detto “ascarino” – nonostante la mole – perchè a sua volta figlio di un altro pilota diventato leggenda nei ruggenti anni Venti: Antonio Ascari. Antonio era nato a Bonferraro, provincia di Verona, nel 1888. E non può essere solo un caso se quattro anni dopo, a Castel d’Ario – una manciata di chilometri più in là, quanto basta per essere provincia di Mantova – sarebbe nato un certo Tazio Nuvolari: per questo il giornalista Orio Vergani, nel suo ritratto del “mantovano volante” pubblicato sul primo numero della rivista “Pirelli”, definì quell’area una sorta di “geografia del coraggio”. Riparava i motori dei trattori, Antonio, e nell’officina in mezzo ai campi aveva imparato a maneggiare carburatori, bielle e pistoni. Fu il fratello a instillargli il dubbio che avrebbe potuto anche occuparsi di automobili. E forse auto da corsa. E forse anche salirci sopra e guidarle…
Così Antonio si trasferì a Milano, prima alla De Vecchi ad imparare come erano fatte le macchine e poi all’Alfa Romeo: prima meccanico, poi collaudatore. E infine pilota. Ascari era pronto a dimostrare a tutti il suo valore già alla vigilia del Gran Premio d’Italia del 1923, da correre sull’Autodromo di Monza al volante della nuovissima Alfa P1. Doveva essere imbattibile, lo squadrone Alfa Romeo: numero 6 per Ascari, il 12 per Giuseppe Campari, il 17 per Ugo Sivocci. E quando Sivocci ebbe il mortale incidente durante le prove, qualcuno notò che sulla sua macchina non era montato il quadrifoglio verde ormai diventato simbolo dell’Alfa. Squadra ritirata, e mai più un numero 17 in gara.
L’anno successivo fu “quello buono”. Con l’Alfa P2 8C gommata Pirelli Cord, Ascari riuscì finalmente a vincere il Gran Premio d’Italia – che quell’anno era anche Gran Premio d’Europa – disputato a Monza nell’ottobre del 1924: con 3 minuti e 34 secondi, il pilota Alfa Romeo stabilì un record del giro più veloce destinato a restare a lungo imbattuto. Al suo fianco sempre l’inseparabile Giuseppe Campari, l’amico-avversario compagno di squadra. Consueto il trionfo dell’Alfa (Ascari al primo posto e Campari secondo) – anche l’anno successivo al Gran Premio del Belgio a Spa. L’ultimo.
Forse fu troppo irruento Ascari quel giorno sulla pista di Monthléry, Gran Premio di Francia 1925. Qualcuno diede la colpa alla troppa velocità in curva, altri sostennero che non doveva esserci quella palizzata che si incastrò nel mozzo facendo impennare la macchina scaraventando a terra il pilota. Antonio Ascari morì il 26 luglio del 1925. Quasi trentasettenne. Suo figlio Alberto, che allora aveva sette anni, giurò a se stesso che – qualora avesse fatto lo stesso mestiere del padre – mai avrebbe corso il giorno 26. E poi, quando diventò pilota, aggiunse che mai si sarebbe separato dal suo casco azzurro portafortuna. Perse la vita a Monza nel 1955 – pressochè trent’anni esatti dopo il padre, anche lui quasi trentasettenne –provando una Ferrari 750. L’avevano chiamato al circuito di Monza gli amici e colleghi Gigi Villoresi ed Eugenio Castellotti e lui, Alberto, aveva accettato volentieri di salire in macchina, per fare semplice qualche giro di pista. Anche se aveva lasciato a casa il casco azzurro portafortuna, anche se era il giorno 26 di maggio.