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Premio Campiello Junior,
nasce con le Biblioteche Pirelli
un nuovo riconoscimento letterario
Per il secondo anno consecutivo Pirelli sostiene il Premio Campiello, il prestigioso riconoscimento letterario assegnato a opere di narrativa italiana e istituito nel 1962. Il rinnovo della collaborazione con un’istituzione che nella sua lunga storia ha consolidato la relazione tra il mondo delle imprese e quello della cultura conferma l’impegno di Pirelli nella promozione della lettura, testimoniato in particolare dalle tre biblioteche aziendali di Bicocca, Bollate e Settimo Torinese, e nel sostegno dei progetti e delle iniziative culturali.
Quest’anno le Biblioteche Pirelli hanno ideato insieme alla Fondazione Campiello un nuovo premio dedicato a bambini e ragazzi nella convinzione che la lettura sia un elemento fondamentale nella formazione delle giovani generazioni. E’ il Premio Campiello Junior che verrà lanciato nella sua prima edizione, un riconoscimento per opere italiane di narrativa e poesia per ragazzi tra i 10 e i 14 anni.
Il regolamento con tutti i dettagli del concorso, è pubblicato sul sito del Premio Campiello e la selezione dei tre libri finalisti sarà affidata a una Giuria composta da esperti di letteratura per ragazzi e specialisti del settore. Lo scrittore Roberto Piumini sarà chiamato a presiedere la Giuria, composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro della giuria Campiello Giovani e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.
I veri protagonisti chiamati a scegliere il vincitore di questa prima edizione del Premio Campiello Junior saranno i giovani lettori di tutta Italia: una giuria popolare composta da 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado. Il vincitore sarà annunciato a maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.
Per questa prima edizione Fondazione Pirelli ha pensato, insieme al Premio Campiello, a un viaggio ricco di appuntamenti e di sorprese per tutti i ragazzi che faranno parte della giuria e per tutti i giovani appassionati di lettura, con una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, a cui parteciperanno anche gli autori dei libri finalisti. Le iniziative verranno annunciate nei prossimi mesi, per rimanere aggiornati è possibile iscriversi alla newsletter di Fondazione Pirelli.
È possibile guardare la presentazione della 59a edizione del Premio Campiello a questo link.






Per il secondo anno consecutivo Pirelli sostiene il Premio Campiello, il prestigioso riconoscimento letterario assegnato a opere di narrativa italiana e istituito nel 1962. Il rinnovo della collaborazione con un’istituzione che nella sua lunga storia ha consolidato la relazione tra il mondo delle imprese e quello della cultura conferma l’impegno di Pirelli nella promozione della lettura, testimoniato in particolare dalle tre biblioteche aziendali di Bicocca, Bollate e Settimo Torinese, e nel sostegno dei progetti e delle iniziative culturali.
Quest’anno le Biblioteche Pirelli hanno ideato insieme alla Fondazione Campiello un nuovo premio dedicato a bambini e ragazzi nella convinzione che la lettura sia un elemento fondamentale nella formazione delle giovani generazioni. E’ il Premio Campiello Junior che verrà lanciato nella sua prima edizione, un riconoscimento per opere italiane di narrativa e poesia per ragazzi tra i 10 e i 14 anni.
Il regolamento con tutti i dettagli del concorso, è pubblicato sul sito del Premio Campiello e la selezione dei tre libri finalisti sarà affidata a una Giuria composta da esperti di letteratura per ragazzi e specialisti del settore. Lo scrittore Roberto Piumini sarà chiamato a presiedere la Giuria, composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro della giuria Campiello Giovani e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.
I veri protagonisti chiamati a scegliere il vincitore di questa prima edizione del Premio Campiello Junior saranno i giovani lettori di tutta Italia: una giuria popolare composta da 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado. Il vincitore sarà annunciato a maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.
Per questa prima edizione Fondazione Pirelli ha pensato, insieme al Premio Campiello, a un viaggio ricco di appuntamenti e di sorprese per tutti i ragazzi che faranno parte della giuria e per tutti i giovani appassionati di lettura, con una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, a cui parteciperanno anche gli autori dei libri finalisti. Le iniziative verranno annunciate nei prossimi mesi, per rimanere aggiornati è possibile iscriversi alla newsletter di Fondazione Pirelli.
È possibile guardare la presentazione della 59a edizione del Premio Campiello a questo link.
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Saggezza della buona impresa
Il percorso per arrivare ad organizzazione della produzione nelle quali il “capitale umano” è sempre più fondamentale e irrinunciabile
Capitale umano. E quindi grande attenzione alle donne e agli uomini che vivono e lavorano nelle imprese. Tema non nuovo, quello dell’attenzione al “contenuto umano” delle organizzazioni della produzione. Eppure tema che non si finisce mai di esplorare. E così non può che essere, vista l’infinità varietà delle relazioni umane e delle imprese nelle quali queste prendono forma. “L’impresa saggia. Come le imprese creano l’innovazione continua” di Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi appena pubblicato in Italia, è una lettura da fare proprio per chi voglia approfondire ed esplorare – in modo serio -, il vasto insieme degli argomenti che legano insieme produzione e sue componenti umane.
Il contenuto del libro ruota davvero tutto intorno al suo titolo. Per i due autori, le “imprese sagge” sono quelle capaci di incidere sulle relazioni umane per infondere nuove conoscenze nelle pratiche organizzative, convertendole in azione e innovazione continua a livello individuale, aziendale e sociale. E’ da questa saggezza che nasce la capacità delle imprese di affrontare il cambiamento. Soprattutto oggi, epoca nella quale da un lato occorre “cambiare ad alta velocità” e, dall’altro, è necessario non solo concentrarsi sui propri risultati ma anche assicurarsi che gli interessi dell’impresa siano allineati con quelli della società. Per Nonaka e Takeuchi, la chiave di volta per lo sviluppo di una innovazione continua è riuscire a sviluppare una saggezza pratica, plasmata dai valori, dall’etica e dalla morale.
Ragionamento complesso, tuttavia, quello che i due studiosi conducono, ma che i due – riconosciuti come i padri intellettuali del knowledge management, in particolare con l’opera The knowledge-creating company – declinano attraverso le storie di gruppi dinamici, longevi e sostenibili: da Honda a Shimano, da Eisai a Toyota, da Apple a MIT Media Lab. Il minimo comune denominatore di queste realtà è la qualità dei loro “capi”, che hanno saputo attivare le intere strutture di cui erano al vertice per creare nuovi prodotti e nuovi processi, dai quali si sono generati benefici per i collaboratori, i clienti, la comunità e la società.
Il libro è composto da due parti ben distinte. Nella prima vengono poste le base teoriche per “passare dalla conoscenza alla saggezza”; nella seconda sono approfondite “sei pratiche” per dare forma e contenuto all’impresa saggia.
Dal libro di Nonaka eTakeuchi emerge un modello umano-centrico di organizzazione della produzione e di gestione della stessa, capace di innescare circoli virtuosi di creazione di conoscenza e di attivare l’innovazione quale leva del cambiamento. Occorre però affrontarne la lettura con grande apertura mentale e pronti a mettere in discussione molti principi di gestione che appaiono consolidati.
L’impresa saggia. Come le imprese creano l’innovazione continua
Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi
Guerini Next, 2021






Il percorso per arrivare ad organizzazione della produzione nelle quali il “capitale umano” è sempre più fondamentale e irrinunciabile
Capitale umano. E quindi grande attenzione alle donne e agli uomini che vivono e lavorano nelle imprese. Tema non nuovo, quello dell’attenzione al “contenuto umano” delle organizzazioni della produzione. Eppure tema che non si finisce mai di esplorare. E così non può che essere, vista l’infinità varietà delle relazioni umane e delle imprese nelle quali queste prendono forma. “L’impresa saggia. Come le imprese creano l’innovazione continua” di Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi appena pubblicato in Italia, è una lettura da fare proprio per chi voglia approfondire ed esplorare – in modo serio -, il vasto insieme degli argomenti che legano insieme produzione e sue componenti umane.
Il contenuto del libro ruota davvero tutto intorno al suo titolo. Per i due autori, le “imprese sagge” sono quelle capaci di incidere sulle relazioni umane per infondere nuove conoscenze nelle pratiche organizzative, convertendole in azione e innovazione continua a livello individuale, aziendale e sociale. E’ da questa saggezza che nasce la capacità delle imprese di affrontare il cambiamento. Soprattutto oggi, epoca nella quale da un lato occorre “cambiare ad alta velocità” e, dall’altro, è necessario non solo concentrarsi sui propri risultati ma anche assicurarsi che gli interessi dell’impresa siano allineati con quelli della società. Per Nonaka e Takeuchi, la chiave di volta per lo sviluppo di una innovazione continua è riuscire a sviluppare una saggezza pratica, plasmata dai valori, dall’etica e dalla morale.
Ragionamento complesso, tuttavia, quello che i due studiosi conducono, ma che i due – riconosciuti come i padri intellettuali del knowledge management, in particolare con l’opera The knowledge-creating company – declinano attraverso le storie di gruppi dinamici, longevi e sostenibili: da Honda a Shimano, da Eisai a Toyota, da Apple a MIT Media Lab. Il minimo comune denominatore di queste realtà è la qualità dei loro “capi”, che hanno saputo attivare le intere strutture di cui erano al vertice per creare nuovi prodotti e nuovi processi, dai quali si sono generati benefici per i collaboratori, i clienti, la comunità e la società.
Il libro è composto da due parti ben distinte. Nella prima vengono poste le base teoriche per “passare dalla conoscenza alla saggezza”; nella seconda sono approfondite “sei pratiche” per dare forma e contenuto all’impresa saggia.
Dal libro di Nonaka eTakeuchi emerge un modello umano-centrico di organizzazione della produzione e di gestione della stessa, capace di innescare circoli virtuosi di creazione di conoscenza e di attivare l’innovazione quale leva del cambiamento. Occorre però affrontarne la lettura con grande apertura mentale e pronti a mettere in discussione molti principi di gestione che appaiono consolidati.
L’impresa saggia. Come le imprese creano l’innovazione continua
Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi
Guerini Next, 2021
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Gli orizzonti cinesi per le imprese italiane
Una tesi discussa presso l’Università di Padova riassume tendenze di mercato e strumenti commerciali per esplorare con successo la Cina
Nuovi mercati per far crescere di più e meglio la propria impresa. Voglia di esplorare, ma con avvedutezza. E’ anche composta da questo la buona cultura d’impresa, che deve nutrirsi di informazioni e attenzione particolari, oltre che di strumenti adeguati. E’ una condizione importante, quella dell’avere notizie chiare sui propri interlocutori. Leggere allora “Il Made in Italy in vetrina: alla conquista del Mercato del Dragone” – tesi di ricerca di Rossella Longi discussa presso l’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari -, è certamente un buon modo per farsi un’idea affidabile della Cina e del suo mercato e cioè di una delle aree più promettenti del momento dal punto di vista commerciale ed economico.
L’indagine di Longi – viene spiegato all’inizio -, ha l’obiettivo di realizzare un confronto fra il mondo dei marketplace europei e cinesi e unirlo al concetto di export del Made in Italy, tutto tenendo conto delle piattaforme e-commerce e marketplace asiatici.
Il lavoro, quindi, analizza prima l’evoluzione delle esportazioni italiane in Cina, poi approfondisce le strategie di promozione messe in atto dall’ICE in particolare e successivamente effettua una valutazione degli impatti della pandemia di Covid-19 sull’andamento degli scambi. Proprio partendo dalle conseguenze che la crisi pandemica ha avuto sui comportamenti di acquisto, abitudini e stili di vita nel consumo sia in oriente che in occidente, Longi delinea da una parte i profili di consumo che stanno sempre più prendendo forma e, dall’altra, approfondisce le caratteristiche delle principali piattaforme a disposizione delle imprese per costruire una solida presenza sul mercato cinese.
La ricerca di Rossella Longi condensa in un numero limitato di pagine un tema complesso e in continua evoluzione, costruendo una sintesi utile non solo alle imprese, ma anche chi voglia farsi un’idea precisa di cosa si muove in Asia.
Il Made in Italy in vetrina: alla conquista del Mercato del Dragone
Rossella Longi
Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2021
Una tesi discussa presso l’Università di Padova riassume tendenze di mercato e strumenti commerciali per esplorare con successo la Cina
Nuovi mercati per far crescere di più e meglio la propria impresa. Voglia di esplorare, ma con avvedutezza. E’ anche composta da questo la buona cultura d’impresa, che deve nutrirsi di informazioni e attenzione particolari, oltre che di strumenti adeguati. E’ una condizione importante, quella dell’avere notizie chiare sui propri interlocutori. Leggere allora “Il Made in Italy in vetrina: alla conquista del Mercato del Dragone” – tesi di ricerca di Rossella Longi discussa presso l’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari -, è certamente un buon modo per farsi un’idea affidabile della Cina e del suo mercato e cioè di una delle aree più promettenti del momento dal punto di vista commerciale ed economico.
L’indagine di Longi – viene spiegato all’inizio -, ha l’obiettivo di realizzare un confronto fra il mondo dei marketplace europei e cinesi e unirlo al concetto di export del Made in Italy, tutto tenendo conto delle piattaforme e-commerce e marketplace asiatici.
Il lavoro, quindi, analizza prima l’evoluzione delle esportazioni italiane in Cina, poi approfondisce le strategie di promozione messe in atto dall’ICE in particolare e successivamente effettua una valutazione degli impatti della pandemia di Covid-19 sull’andamento degli scambi. Proprio partendo dalle conseguenze che la crisi pandemica ha avuto sui comportamenti di acquisto, abitudini e stili di vita nel consumo sia in oriente che in occidente, Longi delinea da una parte i profili di consumo che stanno sempre più prendendo forma e, dall’altra, approfondisce le caratteristiche delle principali piattaforme a disposizione delle imprese per costruire una solida presenza sul mercato cinese.
La ricerca di Rossella Longi condensa in un numero limitato di pagine un tema complesso e in continua evoluzione, costruendo una sintesi utile non solo alle imprese, ma anche chi voglia farsi un’idea precisa di cosa si muove in Asia.
Il Made in Italy in vetrina: alla conquista del Mercato del Dragone
Rossella Longi
Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2021
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Europa in cerca d’una nuova politica comune sui diritti sociali: riforme per lavoro e welfare
La dialettica povera dei social media schiaccia la realtà in due schematiche dimensioni: il pollice alzato dei like o il pollice verso il basso, come nei feroci giochi gladiatorii da Circo Massimo, la vita o la morte. Gli haters o i followers, senza margini di critica ragionata e consapevole. I no vax integralisti, ostili a scienza e competenza e gli adoratori plaudenti di qualunque cosa dica uno scienziato su twitter o in Tv, dimenticando che proprio la scienza è ricerca, dubbio, esperimento, percorso per trials and errors, conquiste ogni volta da ridiscutere e superare. Apocalittici o integrati, come avrebbe detto Umberto Eco.
La realtà che ogni giorno ci tocca vivere, invece, è sempre più complessa, refrattaria alle retoriche della banale semplificazione. Ci impone di pensare e decidere non per le opposizioni nette dell’aut aut ma secondo le composizioni dell’et et: costruire sintesi originali che tengano insieme elementi, tensioni, interessi diversi.
E’ proprio ciò che sta cercando di fare adesso l’Europa mentre, sotto le spinte di pandemia e recessione che ne hanno evidenziato la fragilità dei modelli economici e sociali, ha cominciato a discutere al Social Summit di Oporto una nuova “Dichiarazione sui diritti sociali” che adegui i sistemi di welfare e dunque la spesa pubblica dei paesi Ue alle modifiche del mondo del lavoro, alle esigenze della salute come bene comune di dimensioni globali, ai bisogni di istruzione e conoscenza non solo delle nuove generazioni, ma anche di quelle persone di mezza età che rischiano di essere travolte dal digital divide e dunque tagliate fuori sia dai processi di occupazione, sia dal godimento dei servizi pubblici e privati e, più in generale, dall’incrocio dei diritti e doveri della cittadinanza.
Un’Europa che componga diversità, lungo un cammino comune. Non certo un’Europa che allarghi discriminazioni e differenze, in un mondo in cui comunque crescono tensioni politiche ed economiche sui grandi temi: l’ambiente, le diseguaglianze sociali, gli interessi legati alla crescita economica, il governo dell’innovazione digitale, la sicurezza anche nella sofisticata dimensione della cyber security. Nell’età delle incertezze in cui stiamo vivendo, proprio l’Europa, ridisegnando ruoli e responsabilità di sviluppo al suo interno e verso l’esterno, può dare un contributo determinante agli equilibri di nuove civiltà.
Sta qui, il senso del cammino intrapreso nei giorni scorsi a Oporto. Abbiamo di fronte tre grandi divari: generazionale, di genere, tra territori. Senza cercare di sanarli, con solido senso di responsabilità pragmatica dei buoni riformisti e con sguardo ambizioso verso il futuro, il “modello sociale europeo” di cui siamo giustamente orgogliosi (economia di mercato e welfare, intraprendenza personale e intervento pubblico sui grandi temi, diritti individuali e spirito di comunità, competitività e solidarietà) rischia di non reggere di fronte alle sfide dei tempi nuovi.
Ne sono ben consapevoli alcuni dei maggiori capi di Stato della Ue, da Sergio Mattarella al francese Macron e al tedesco Steinmeier che in una lettera inviata nei giorni scorsi “ai cittadini europei”, hanno chiarito: “Abbiamo bisogno di una Unione europea forte, ed efficace, che sia leader globale nella transizione verso uno sviluppo sostenibile, climaticamente neutrale e trainato dal digitale. Occorre un’Unione nella quale ci possiamo tutti identificare, certi di avere fatto tutto il possibile a beneficio delle generazioni future”.
La lettera (nata da un’iniziativa del presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e subito condivisa dal Quirinale) insiste su quanto siano importanti oggi i temi della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, della “reciproca solidarietà e collaborazione”. Ci si chiede “come possiamo assicurare collettivamente che i principi fondanti dell’integrazione (libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e libertà di espressione, solidarietà, democrazia e lealtà tra gli Stati membri) restino rilevanti per il futuro”. E si risponde che “nonostante l’Unione europea a volte sembri non equipaggiata per fare fronte alle molte sfide emerse nell’ultimo decennio – dalla crisi economica e finanziaria alle sfide nel perseguire un sistema migratorio europeo giusto ed equo, sino all’attuale pandemia – siamo ben consapevoli che sarebbe molto più difficile per ciascuno di noi se fossimo da soli”.
“Insieme”, dunque, è la parola chiave per una Ue “forte ed efficace”.
La traduzione in scelte politiche di queste indicazioni strategiche ha occupato l’attenzione del vertice di Oporto. Con Mario Draghi impegnato a fare da riferimento per le spinte a una maggiore solidarietà contro le resistenze di coloro (Olanda e paesi scandinavi in primo piano) restii a un impegno finanziario comune sui temi sociali. Le politiche nazionali, da sole, non bastano a disegnare un nuovo welfare, ha detto Draghi. E ha sostenuto il piano, definito dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni, per un uso più estero del “Sure”, il fondo europeo che finanzia la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali, da rafforzare nel tempo con bond Ue (offerti e garantiti da Bruxelles sui mercati mondiali) proprio per avere risorse utili a seguire le evoluzioni del mercato del lavoro in rapido e impetuoso cambiamento, investendo in sostegni temporanei e in formazione. La strada, per quanto impervia, è aperta.
Siamo di fronte a una grande partita politica, di democrazia e cambiamento, a una sfida di fiducia.
Populismi di opposto colore e sovranismi di vario tipo (compresi quelli purtroppo interni al complesso mondo Ue) si sono rivelati totalmente incapaci di dare risposte efficaci ai bisogni di lavoro, sicurezza sociale, fiducia nel futuro, se si va al di là dalle parole d’ordine della propaganda che, naturalmente, non “aboliscono la povertà” né assicurano benefici duraturi secondo i proclami del “prima gli americani”, o gli inglesi, o gli italiani. Serve, invece, tornare alle passioni e alle scelte della buona politica, “a una nuova stagione di impegno civile e di lotta politica”, come suggerisce Antonio Scurati sul “Corriere della Sera” (9 maggio). Una politica di valori e interessi legittimi. Era buona politica il whatever it takes con cui Mario Draghi, presidente della Bce, ha salvato l’euro. Buona politica il Recovery Plan della Ue guidata da Ursula von der Layen e il green new deal voluto anche da Angela Merkel. Adesso è buona politica l’attuazione della “Dichiarazione sui diritti sociali” di Oporto. Sono tutte scelte che dobbiamo alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti, con la memoria grata di avere ereditato, dai nostri padri, un’Europa segnata dall’ambizione della pace e dello sviluppo.






La dialettica povera dei social media schiaccia la realtà in due schematiche dimensioni: il pollice alzato dei like o il pollice verso il basso, come nei feroci giochi gladiatorii da Circo Massimo, la vita o la morte. Gli haters o i followers, senza margini di critica ragionata e consapevole. I no vax integralisti, ostili a scienza e competenza e gli adoratori plaudenti di qualunque cosa dica uno scienziato su twitter o in Tv, dimenticando che proprio la scienza è ricerca, dubbio, esperimento, percorso per trials and errors, conquiste ogni volta da ridiscutere e superare. Apocalittici o integrati, come avrebbe detto Umberto Eco.
La realtà che ogni giorno ci tocca vivere, invece, è sempre più complessa, refrattaria alle retoriche della banale semplificazione. Ci impone di pensare e decidere non per le opposizioni nette dell’aut aut ma secondo le composizioni dell’et et: costruire sintesi originali che tengano insieme elementi, tensioni, interessi diversi.
E’ proprio ciò che sta cercando di fare adesso l’Europa mentre, sotto le spinte di pandemia e recessione che ne hanno evidenziato la fragilità dei modelli economici e sociali, ha cominciato a discutere al Social Summit di Oporto una nuova “Dichiarazione sui diritti sociali” che adegui i sistemi di welfare e dunque la spesa pubblica dei paesi Ue alle modifiche del mondo del lavoro, alle esigenze della salute come bene comune di dimensioni globali, ai bisogni di istruzione e conoscenza non solo delle nuove generazioni, ma anche di quelle persone di mezza età che rischiano di essere travolte dal digital divide e dunque tagliate fuori sia dai processi di occupazione, sia dal godimento dei servizi pubblici e privati e, più in generale, dall’incrocio dei diritti e doveri della cittadinanza.
Un’Europa che componga diversità, lungo un cammino comune. Non certo un’Europa che allarghi discriminazioni e differenze, in un mondo in cui comunque crescono tensioni politiche ed economiche sui grandi temi: l’ambiente, le diseguaglianze sociali, gli interessi legati alla crescita economica, il governo dell’innovazione digitale, la sicurezza anche nella sofisticata dimensione della cyber security. Nell’età delle incertezze in cui stiamo vivendo, proprio l’Europa, ridisegnando ruoli e responsabilità di sviluppo al suo interno e verso l’esterno, può dare un contributo determinante agli equilibri di nuove civiltà.
Sta qui, il senso del cammino intrapreso nei giorni scorsi a Oporto. Abbiamo di fronte tre grandi divari: generazionale, di genere, tra territori. Senza cercare di sanarli, con solido senso di responsabilità pragmatica dei buoni riformisti e con sguardo ambizioso verso il futuro, il “modello sociale europeo” di cui siamo giustamente orgogliosi (economia di mercato e welfare, intraprendenza personale e intervento pubblico sui grandi temi, diritti individuali e spirito di comunità, competitività e solidarietà) rischia di non reggere di fronte alle sfide dei tempi nuovi.
Ne sono ben consapevoli alcuni dei maggiori capi di Stato della Ue, da Sergio Mattarella al francese Macron e al tedesco Steinmeier che in una lettera inviata nei giorni scorsi “ai cittadini europei”, hanno chiarito: “Abbiamo bisogno di una Unione europea forte, ed efficace, che sia leader globale nella transizione verso uno sviluppo sostenibile, climaticamente neutrale e trainato dal digitale. Occorre un’Unione nella quale ci possiamo tutti identificare, certi di avere fatto tutto il possibile a beneficio delle generazioni future”.
La lettera (nata da un’iniziativa del presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e subito condivisa dal Quirinale) insiste su quanto siano importanti oggi i temi della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, della “reciproca solidarietà e collaborazione”. Ci si chiede “come possiamo assicurare collettivamente che i principi fondanti dell’integrazione (libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e libertà di espressione, solidarietà, democrazia e lealtà tra gli Stati membri) restino rilevanti per il futuro”. E si risponde che “nonostante l’Unione europea a volte sembri non equipaggiata per fare fronte alle molte sfide emerse nell’ultimo decennio – dalla crisi economica e finanziaria alle sfide nel perseguire un sistema migratorio europeo giusto ed equo, sino all’attuale pandemia – siamo ben consapevoli che sarebbe molto più difficile per ciascuno di noi se fossimo da soli”.
“Insieme”, dunque, è la parola chiave per una Ue “forte ed efficace”.
La traduzione in scelte politiche di queste indicazioni strategiche ha occupato l’attenzione del vertice di Oporto. Con Mario Draghi impegnato a fare da riferimento per le spinte a una maggiore solidarietà contro le resistenze di coloro (Olanda e paesi scandinavi in primo piano) restii a un impegno finanziario comune sui temi sociali. Le politiche nazionali, da sole, non bastano a disegnare un nuovo welfare, ha detto Draghi. E ha sostenuto il piano, definito dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni, per un uso più estero del “Sure”, il fondo europeo che finanzia la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali, da rafforzare nel tempo con bond Ue (offerti e garantiti da Bruxelles sui mercati mondiali) proprio per avere risorse utili a seguire le evoluzioni del mercato del lavoro in rapido e impetuoso cambiamento, investendo in sostegni temporanei e in formazione. La strada, per quanto impervia, è aperta.
Siamo di fronte a una grande partita politica, di democrazia e cambiamento, a una sfida di fiducia.
Populismi di opposto colore e sovranismi di vario tipo (compresi quelli purtroppo interni al complesso mondo Ue) si sono rivelati totalmente incapaci di dare risposte efficaci ai bisogni di lavoro, sicurezza sociale, fiducia nel futuro, se si va al di là dalle parole d’ordine della propaganda che, naturalmente, non “aboliscono la povertà” né assicurano benefici duraturi secondo i proclami del “prima gli americani”, o gli inglesi, o gli italiani. Serve, invece, tornare alle passioni e alle scelte della buona politica, “a una nuova stagione di impegno civile e di lotta politica”, come suggerisce Antonio Scurati sul “Corriere della Sera” (9 maggio). Una politica di valori e interessi legittimi. Era buona politica il whatever it takes con cui Mario Draghi, presidente della Bce, ha salvato l’euro. Buona politica il Recovery Plan della Ue guidata da Ursula von der Layen e il green new deal voluto anche da Angela Merkel. Adesso è buona politica l’attuazione della “Dichiarazione sui diritti sociali” di Oporto. Sono tutte scelte che dobbiamo alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti, con la memoria grata di avere ereditato, dai nostri padri, un’Europa segnata dall’ambizione della pace e dello sviluppo.
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Scuola, i divari digitali che mettono fuori gioco i bambini del Sud e delle periferie metropolitane
La pandemia ha messo in evidenza vecchie fragilità, personali e sociali. E ne ha fatte emergere di nuove. I divari digitali, tra gli altri. Che diventano rapidamente, se non affrontati e bloccati, divari di istruzione, lavoro, reddito, partecipazione, cittadinanza. C’è un dato particolare, su cui vale la pena riflettere: nel Mezzogiorno, un bambino e una bambina, una ragazza e un ragazzo su tre non hanno né un Pc né un tablet (sono per l’esattezza il 34%, secondo dati della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). Sono dunque tagliati fuori dal mondo delle relazioni digitali, dal web e, ovviamente, proprio in questi tempi oramai lunghi di chiusure e restrizioni, sono stati messi ai margini della scuola: niente computer, niente didattica a distanza. Il quadro è ancora più grave se si considerano pure le carenze delle banda larga, ma anche la scarsa dimestichezza dei familiari di questi bambini con i vari elementi della cultura informatica, con le app per seguire le lezioni, per fare i compiti, per tenersi in collegamento con maestri e professori e con i compagni. “La scuola perduta dai ragazzi del Sud”, ha documentato efficacemente Goffredo Buccini sul “Corriere della Sera” (30 aprile), calcolando, oltre al divario digitale, la differenza di frequenza in classe tra gli studenti di Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria e Palermo: nelle città del Sud (tranne che a Palermo) è andata molto peggio. “Negli asili di Bari finora 66 giorni in classe contro i 135 di Milano”.
Il divario tra bambini, digitale e non, ha dunque una dimensione geografica che conferma le tradizionali diseguaglianze (“Le due Italie. Perché il Paese è sempre più diseguale”, è il titolo del nuovo libro di Alberto Magnani per Castelvecchi, denso di analisi aggiornate). Ma anche una dimensione interna alle metropoli del Nord, tra zone benestanti e aree povere delle città, tra chi vive e frequenta scuole nei quartieri con redditi e abitudini culturali e sociali più elevati e periferie marginali.
Il risultato è allarmante: il nostro paese sta rischiando di perdere per strada milioni di bambini, già in crisi nei rapporti con la scuola (l’Italia ha un primato negativo in Europa per gli abbandoni scolastici) e adesso ancora più nettamente tagliati fuori dalle lezioni, dallo studio, dalla relazioni fondamentali con insegnanti e coetanei. Generazioni a rischio, che in futuro potranno vedere accentuate le difficoltà per il lavoro e l’inserimento sociale, per la conoscenza, per il pieno godimento dei diritti politici e civili. Una ferita sociale. E un’aperta violazione della Costituzione, dei suoi principi di uguaglianza e pari opportunità.
L’intero panorama italiano, proprio dal punto di vista dei rapporti con le nuove tecnologie informatiche, è sconfortante. Siamo al 25° posto tra i 27 paesi Ue per livello di digitalizzazione. Il 17% degli Italiani tra i 16 e i 74 anni non ha mai usato Internet (la media Ue è del 9%). Le connessioni veloci in moltissime zone del paese sono un miraggio. La dimestichezza con tutto ciò che circola di appena sofisticato sulla rete è carente (eccezion fatta per social, giochi e porno).
C’è dunque da fare un grande salto, sul fronte dell’innovazione tecnologica. Giustamente il Pnrr (la versione italiana del Recovery Plan della Ue) stanzia risorse imponenti e si pone obiettivi ambiziosi, per superare il divario con il resto della Ue. E Vittorio Colao, adesso ministro per la transizione digitale del governo Draghi, dopo un passato di top manager internazionale, sostiene: “Con il digitale un’Italia più giusta per giovani e donne. Connettività per tutti significa aumentare le opportunità di apprendere, di cercare lavoro e di fare impresa” (“la Repubblica”, 1 maggio).
Tecnologie da sviluppare e applicare, dunque. Una nuova e migliore coscienza dei diritti e dei doveri digitali, per abitare con consapevolezza “l’infosfera” (ne ha scritto con lucidità il 1° maggio Maurizio Molinari su “la Repubblica”: “Sicurezza e prosperità collettive dipendono dalla nostra capacità di essere protagonisti responsabili delle attività digitali… E’ nello spazio digitale la nuova frontiera del lavoro”). Una robusta sinergia tra investimenti pubblici e investimenti privati per l’innovazione. Un ambizioso salto culturale.
Ma proprio pensando ai nostri bambini e alle nostre bambine delle aree del Sud e dei quartieri più fragili di tutte le città italiane, è indispensabile fare di più. Elaborare una strategia che coinvolga enti locali, fondazioni, imprese, strutture del terzo settore per mettere le nuove generazioni, partendo proprio dalle scuole elementari, in condizione di non subire i disagi del divario digitale scolastico. Fornire computer e tablet, dunque. E impegnarsi nell’insegnare come usarli, per la formazione e, più in generale, per i processi di conoscenza. E’ una scelta urgente, proprio mentre l’anno scolastico va a finire, per non dare per scontata la differenza di frequentazione delle lezioni e di apprendimento da cui siamo partiti in questo ragionamento e per prepararsi bene all’anno che verrà.
I vaccini – si spera – terranno a bada la pandemia. Ma l’esperienza digitale, in un modo o nell’altro, andrà avanti. E sarebbe gravissimo se disparità e diseguaglianze si approfondissero e si aggravassero.






La pandemia ha messo in evidenza vecchie fragilità, personali e sociali. E ne ha fatte emergere di nuove. I divari digitali, tra gli altri. Che diventano rapidamente, se non affrontati e bloccati, divari di istruzione, lavoro, reddito, partecipazione, cittadinanza. C’è un dato particolare, su cui vale la pena riflettere: nel Mezzogiorno, un bambino e una bambina, una ragazza e un ragazzo su tre non hanno né un Pc né un tablet (sono per l’esattezza il 34%, secondo dati della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). Sono dunque tagliati fuori dal mondo delle relazioni digitali, dal web e, ovviamente, proprio in questi tempi oramai lunghi di chiusure e restrizioni, sono stati messi ai margini della scuola: niente computer, niente didattica a distanza. Il quadro è ancora più grave se si considerano pure le carenze delle banda larga, ma anche la scarsa dimestichezza dei familiari di questi bambini con i vari elementi della cultura informatica, con le app per seguire le lezioni, per fare i compiti, per tenersi in collegamento con maestri e professori e con i compagni. “La scuola perduta dai ragazzi del Sud”, ha documentato efficacemente Goffredo Buccini sul “Corriere della Sera” (30 aprile), calcolando, oltre al divario digitale, la differenza di frequenza in classe tra gli studenti di Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria e Palermo: nelle città del Sud (tranne che a Palermo) è andata molto peggio. “Negli asili di Bari finora 66 giorni in classe contro i 135 di Milano”.
Il divario tra bambini, digitale e non, ha dunque una dimensione geografica che conferma le tradizionali diseguaglianze (“Le due Italie. Perché il Paese è sempre più diseguale”, è il titolo del nuovo libro di Alberto Magnani per Castelvecchi, denso di analisi aggiornate). Ma anche una dimensione interna alle metropoli del Nord, tra zone benestanti e aree povere delle città, tra chi vive e frequenta scuole nei quartieri con redditi e abitudini culturali e sociali più elevati e periferie marginali.
Il risultato è allarmante: il nostro paese sta rischiando di perdere per strada milioni di bambini, già in crisi nei rapporti con la scuola (l’Italia ha un primato negativo in Europa per gli abbandoni scolastici) e adesso ancora più nettamente tagliati fuori dalle lezioni, dallo studio, dalla relazioni fondamentali con insegnanti e coetanei. Generazioni a rischio, che in futuro potranno vedere accentuate le difficoltà per il lavoro e l’inserimento sociale, per la conoscenza, per il pieno godimento dei diritti politici e civili. Una ferita sociale. E un’aperta violazione della Costituzione, dei suoi principi di uguaglianza e pari opportunità.
L’intero panorama italiano, proprio dal punto di vista dei rapporti con le nuove tecnologie informatiche, è sconfortante. Siamo al 25° posto tra i 27 paesi Ue per livello di digitalizzazione. Il 17% degli Italiani tra i 16 e i 74 anni non ha mai usato Internet (la media Ue è del 9%). Le connessioni veloci in moltissime zone del paese sono un miraggio. La dimestichezza con tutto ciò che circola di appena sofisticato sulla rete è carente (eccezion fatta per social, giochi e porno).
C’è dunque da fare un grande salto, sul fronte dell’innovazione tecnologica. Giustamente il Pnrr (la versione italiana del Recovery Plan della Ue) stanzia risorse imponenti e si pone obiettivi ambiziosi, per superare il divario con il resto della Ue. E Vittorio Colao, adesso ministro per la transizione digitale del governo Draghi, dopo un passato di top manager internazionale, sostiene: “Con il digitale un’Italia più giusta per giovani e donne. Connettività per tutti significa aumentare le opportunità di apprendere, di cercare lavoro e di fare impresa” (“la Repubblica”, 1 maggio).
Tecnologie da sviluppare e applicare, dunque. Una nuova e migliore coscienza dei diritti e dei doveri digitali, per abitare con consapevolezza “l’infosfera” (ne ha scritto con lucidità il 1° maggio Maurizio Molinari su “la Repubblica”: “Sicurezza e prosperità collettive dipendono dalla nostra capacità di essere protagonisti responsabili delle attività digitali… E’ nello spazio digitale la nuova frontiera del lavoro”). Una robusta sinergia tra investimenti pubblici e investimenti privati per l’innovazione. Un ambizioso salto culturale.
Ma proprio pensando ai nostri bambini e alle nostre bambine delle aree del Sud e dei quartieri più fragili di tutte le città italiane, è indispensabile fare di più. Elaborare una strategia che coinvolga enti locali, fondazioni, imprese, strutture del terzo settore per mettere le nuove generazioni, partendo proprio dalle scuole elementari, in condizione di non subire i disagi del divario digitale scolastico. Fornire computer e tablet, dunque. E impegnarsi nell’insegnare come usarli, per la formazione e, più in generale, per i processi di conoscenza. E’ una scelta urgente, proprio mentre l’anno scolastico va a finire, per non dare per scontata la differenza di frequentazione delle lezioni e di apprendimento da cui siamo partiti in questo ragionamento e per prepararsi bene all’anno che verrà.
I vaccini – si spera – terranno a bada la pandemia. Ma l’esperienza digitale, in un modo o nell’altro, andrà avanti. E sarebbe gravissimo se disparità e diseguaglianze si approfondissero e si aggravassero.
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Una buona mappa
Un libro di Maurizio Ferraris fornisce una lettura diversa e importante dell’oggi e soprattutto di un possibile domani
Buone mappe per capire dove si è; buone bussole per trovare il cammino migliore per andare avanti. Necessità per tutti. Anche per chi – imprenditore o manager -, si trova ad essere non sono responsabile di se stesso ma anche di donne e uomini che con lui affrontano l’avventura di un’impresa. Una buona mappa per capire, che è anche bussola per orientarsi, è certamente l’ultimo libro di Maurizio Ferraris – “Documanità. Filosofia del mondo nuovo” -, che descrive il presente e soprattutto il futuro con un approccio assolutamente stimolante e da apprezzare.
Punto di partenza dell’autore è la constatazione del fatto che pensare al futuro basandosi sul passato è ormai cosa desueta e inutile perché la “rivoluzione tecnologica” che stiamo vivendo ha radicalmente cambiato tutti i termini della questione.
Il web – spiega Ferraris -, è il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l’importanza dei cambiamenti che ha prodotto. Basti pensare che sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto.
Da qui, appunto, il libro di Ferraris che inizia con un prologo dedicato proprio a descrivere il “mondo nuovo” per proseguire poi con una prima parte dedicata alla descrizione della natura del web e con una seconda e una terza parte dedicate a raccontare noi stessi e la nostra origine. La quarta e ultima parte, infine, affronta la domanda cruciale: dove andiamo? Ferraris ha scritto un gran libro. Nel mezzo del percorso di lettura, certo, si trovano passaggi affascinanti ma non sempre facili, ma ci si può calare con lo scrittore in un mondo – che è quello nostro – visto con occhi diversi. Ritrovando anche punti di riferimento conosciuti come quelli dedicati all’automazione, all’informazione, all’ambiente, alla biosfera, al significato del lavoro, al merito, alla produzione, ai beni, all’educazione, al consumo.
Ne emerge una radicale revisione della costruzione concettuale dei nostri modi di guardare alla tecnica, all’umanità e al capitale. Bellissimo libro da leggere e rileggere.
Documanità. Filosofia del mondo nuovo
Maurizio Ferraris
Laterza, 2021






Un libro di Maurizio Ferraris fornisce una lettura diversa e importante dell’oggi e soprattutto di un possibile domani
Buone mappe per capire dove si è; buone bussole per trovare il cammino migliore per andare avanti. Necessità per tutti. Anche per chi – imprenditore o manager -, si trova ad essere non sono responsabile di se stesso ma anche di donne e uomini che con lui affrontano l’avventura di un’impresa. Una buona mappa per capire, che è anche bussola per orientarsi, è certamente l’ultimo libro di Maurizio Ferraris – “Documanità. Filosofia del mondo nuovo” -, che descrive il presente e soprattutto il futuro con un approccio assolutamente stimolante e da apprezzare.
Punto di partenza dell’autore è la constatazione del fatto che pensare al futuro basandosi sul passato è ormai cosa desueta e inutile perché la “rivoluzione tecnologica” che stiamo vivendo ha radicalmente cambiato tutti i termini della questione.
Il web – spiega Ferraris -, è il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l’importanza dei cambiamenti che ha prodotto. Basti pensare che sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto.
Da qui, appunto, il libro di Ferraris che inizia con un prologo dedicato proprio a descrivere il “mondo nuovo” per proseguire poi con una prima parte dedicata alla descrizione della natura del web e con una seconda e una terza parte dedicate a raccontare noi stessi e la nostra origine. La quarta e ultima parte, infine, affronta la domanda cruciale: dove andiamo? Ferraris ha scritto un gran libro. Nel mezzo del percorso di lettura, certo, si trovano passaggi affascinanti ma non sempre facili, ma ci si può calare con lo scrittore in un mondo – che è quello nostro – visto con occhi diversi. Ritrovando anche punti di riferimento conosciuti come quelli dedicati all’automazione, all’informazione, all’ambiente, alla biosfera, al significato del lavoro, al merito, alla produzione, ai beni, all’educazione, al consumo.
Ne emerge una radicale revisione della costruzione concettuale dei nostri modi di guardare alla tecnica, all’umanità e al capitale. Bellissimo libro da leggere e rileggere.
Documanità. Filosofia del mondo nuovo
Maurizio Ferraris
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