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Le buone imprese sociali

Pubblicata una raccolta di ricerche su queste particolari organizzazioni della produzione con oltre cento esempi da conoscere

 

Imprese sociali capaci di “fare impresa” e di agire per il bene del territorio. Funzioni non incompatibili. Che, tuttavia, devono essere comprese a fondo, anche per essere riprodotte in realtà simili. E’ anche per questo che serve leggere la raccolta di ricerche “L’Impresa Sociale in Italia. Identità, ruoli e resilienza” curata da Iris Network, la rete che associa i principali attori della conoscenza in materia di impresa sociale in Italia e che dal 2006 promuove attività di riflessione teorica ed indagine empirica per alimentare una conoscenza approfondita delle imprese sociali, affermarne il ruolo e migliorarne la capacità di intervento.

Il IV Rapporto di Iris Network analizza i fattori principali che hanno determinato la risposta degli enti di terzo settore, e in particolare delle imprese sociali, durante la pandemia e mostra quali possono essere gli elementi di forza su cui puntare per il futuro.

La raccolta è composta da una serie di indagini specifiche che iniziano con l’inquadramento del fenomeno “impresa sociale” e terzo settore in Italia, per passare poi subito ad approfondire il contributo di questa forma di organizzazione per il Mezzogiorno e per la creazione di occupazione, successivamente vengono approfonditi aspetti importanti dell’agire dell’impresa sociale: la creazione di valore sociale, il cambiamento delle politiche per il territorio e della cultura. Altre tre ricerche sono poi dedicate a mettere a fuoco il contributo delle imprese sociali in Italia nella lotta a Covid-19. Chiude quindi l’insieme di indagini, un’ultima ricerca dedicata a fornire risposte ad una sola domanda: come fare per aiutare questo tipo di impresa? A corredo di tutto, poi, una raccolta di oltre cento esperienze di imprese sociali descritte sinteticamente e delle quali vengono fornite le informazioni per ulteriori approfondimenti.

L’indagine, descrive così anche una particolare cultura d’impresa nelle sue diverse declinazioni pratiche la cui conoscenza non può che far bene a molti (anche a chi, imprenditore o manager non è direttamente coinvolto in un’impresa sociale).

 

 

L’Impresa Sociale in Italia. Identità, ruoli e resilienza

AA.VV. (a cura di Carlo Borzaga e Marco Musella), IV Rapporto Iris Network, 2021

Pubblicata una raccolta di ricerche su queste particolari organizzazioni della produzione con oltre cento esempi da conoscere

 

Imprese sociali capaci di “fare impresa” e di agire per il bene del territorio. Funzioni non incompatibili. Che, tuttavia, devono essere comprese a fondo, anche per essere riprodotte in realtà simili. E’ anche per questo che serve leggere la raccolta di ricerche “L’Impresa Sociale in Italia. Identità, ruoli e resilienza” curata da Iris Network, la rete che associa i principali attori della conoscenza in materia di impresa sociale in Italia e che dal 2006 promuove attività di riflessione teorica ed indagine empirica per alimentare una conoscenza approfondita delle imprese sociali, affermarne il ruolo e migliorarne la capacità di intervento.

Il IV Rapporto di Iris Network analizza i fattori principali che hanno determinato la risposta degli enti di terzo settore, e in particolare delle imprese sociali, durante la pandemia e mostra quali possono essere gli elementi di forza su cui puntare per il futuro.

La raccolta è composta da una serie di indagini specifiche che iniziano con l’inquadramento del fenomeno “impresa sociale” e terzo settore in Italia, per passare poi subito ad approfondire il contributo di questa forma di organizzazione per il Mezzogiorno e per la creazione di occupazione, successivamente vengono approfonditi aspetti importanti dell’agire dell’impresa sociale: la creazione di valore sociale, il cambiamento delle politiche per il territorio e della cultura. Altre tre ricerche sono poi dedicate a mettere a fuoco il contributo delle imprese sociali in Italia nella lotta a Covid-19. Chiude quindi l’insieme di indagini, un’ultima ricerca dedicata a fornire risposte ad una sola domanda: come fare per aiutare questo tipo di impresa? A corredo di tutto, poi, una raccolta di oltre cento esperienze di imprese sociali descritte sinteticamente e delle quali vengono fornite le informazioni per ulteriori approfondimenti.

L’indagine, descrive così anche una particolare cultura d’impresa nelle sue diverse declinazioni pratiche la cui conoscenza non può che far bene a molti (anche a chi, imprenditore o manager non è direttamente coinvolto in un’impresa sociale).

 

 

L’Impresa Sociale in Italia. Identità, ruoli e resilienza

AA.VV. (a cura di Carlo Borzaga e Marco Musella), IV Rapporto Iris Network, 2021

Fondazione Pirelli a “Una Rete in viaggio. Storie, idee, progetti”

Dal 3 marzo al 28 aprile 2021 Rete Fotografia, Associazione per la valorizzazione della fotografia a cui anche Fondazione Pirelli aderisce, ha proposto il panel di incontri online Una rete in viaggio. Storie, idee, progetti”, format ideato per creare occasioni di valorizzazione della cultura fotografica attraverso la condivisione di esperienze tra i soci della Rete e il pubblico. Un calendario di appuntamenti per un confronto su temi comuni come ad esempio la committenza d’impresa e gli archivi privati, la fotografia come strumento didattico e la professione del fotografo.

Anche Fondazione Pirelli ha contribuito con due appuntamenti: il 10 marzo, “Paesaggio e architettura industriale”, in collaborazione con Fondazione AEM e Fondazione Fiera Milano, e il 14 aprile  Educazione all’immagine, formazione e percorsi didattici”, insieme a CFP Bauer e MUFOCO-Museo di Fotografia Contemporanea.

Nell’incontro del 10 marzo, in un dialogo con Fondazione AEM e Fondazione Fiera, sono stati esplorati attraverso gli archivi fotografici delle tre istituzioni i temi della nascente industria a Milano alla fine dell’Ottocento, le prime architetture dell’impresa nella Milano industriale, “Città che sale”, l’autoraffigurazione dell’industria nelle fiere internazionali come l’Expo del Sempione del 1906. È stato quindi documentato il periodo di cesura della seconda guerra mondiale, con l’impatto dei bombardamenti del 1943 sulla città di Milano e sull’industria, e poi le architetture simbolo del boom economico e della ricostruzione negli anni Sessanta, come il Grattacielo Pirelli, per arrivare all’oggi, con una riflessione sulla trasformazione urbanistica e il ruolo dell’impresa nelle città. Il 14 aprile è stato affrontato il tema dell’importanza dell’educazione all’immagine in un’epoca, come quella contemporanea, caratterizzata da una proliferazione di immagini e fotografie. Il discorso è stato articolato a partire dall’individuazione di tre parole chiave, “guardare”, “valorizzare” e “creare”, che hanno costituito il fil rouge del confronto aperto dalle diverse istituzioni. Fondazione Pirelli, CFP Bauer e il Museo di Fotografia Contemporanea hanno così presentato le metodologie didattiche, i percorsi formativi proposti per guidare il loro pubblico, ma in modo particolare bambini e ragazzi nella visione e nella decodifica delle fotografie e del patrimonio storico fotografico. Sono state inoltre analizzate le pratiche concrete in cui la fotografia diventa un valido strumento per veicolare e accrescere conoscenza, affinare sensibilità, immaginazione e intelligenza creativa.

Due occasioni di incontro per “fare rete”, ed esplorare il ruolo della fotografia come linguaggio per rappresentare l’arte, il paesaggio, l’architettura e la scienza, e come strumento con funzioni didattiche oltre che documentali e sociali. Tutti gli incontri sono disponibili sul Canale YouTube e sulla pagina Facebook di Rete Fotografia.

Dal 3 marzo al 28 aprile 2021 Rete Fotografia, Associazione per la valorizzazione della fotografia a cui anche Fondazione Pirelli aderisce, ha proposto il panel di incontri online Una rete in viaggio. Storie, idee, progetti”, format ideato per creare occasioni di valorizzazione della cultura fotografica attraverso la condivisione di esperienze tra i soci della Rete e il pubblico. Un calendario di appuntamenti per un confronto su temi comuni come ad esempio la committenza d’impresa e gli archivi privati, la fotografia come strumento didattico e la professione del fotografo.

Anche Fondazione Pirelli ha contribuito con due appuntamenti: il 10 marzo, “Paesaggio e architettura industriale”, in collaborazione con Fondazione AEM e Fondazione Fiera Milano, e il 14 aprile  Educazione all’immagine, formazione e percorsi didattici”, insieme a CFP Bauer e MUFOCO-Museo di Fotografia Contemporanea.

Nell’incontro del 10 marzo, in un dialogo con Fondazione AEM e Fondazione Fiera, sono stati esplorati attraverso gli archivi fotografici delle tre istituzioni i temi della nascente industria a Milano alla fine dell’Ottocento, le prime architetture dell’impresa nella Milano industriale, “Città che sale”, l’autoraffigurazione dell’industria nelle fiere internazionali come l’Expo del Sempione del 1906. È stato quindi documentato il periodo di cesura della seconda guerra mondiale, con l’impatto dei bombardamenti del 1943 sulla città di Milano e sull’industria, e poi le architetture simbolo del boom economico e della ricostruzione negli anni Sessanta, come il Grattacielo Pirelli, per arrivare all’oggi, con una riflessione sulla trasformazione urbanistica e il ruolo dell’impresa nelle città. Il 14 aprile è stato affrontato il tema dell’importanza dell’educazione all’immagine in un’epoca, come quella contemporanea, caratterizzata da una proliferazione di immagini e fotografie. Il discorso è stato articolato a partire dall’individuazione di tre parole chiave, “guardare”, “valorizzare” e “creare”, che hanno costituito il fil rouge del confronto aperto dalle diverse istituzioni. Fondazione Pirelli, CFP Bauer e il Museo di Fotografia Contemporanea hanno così presentato le metodologie didattiche, i percorsi formativi proposti per guidare il loro pubblico, ma in modo particolare bambini e ragazzi nella visione e nella decodifica delle fotografie e del patrimonio storico fotografico. Sono state inoltre analizzate le pratiche concrete in cui la fotografia diventa un valido strumento per veicolare e accrescere conoscenza, affinare sensibilità, immaginazione e intelligenza creativa.

Due occasioni di incontro per “fare rete”, ed esplorare il ruolo della fotografia come linguaggio per rappresentare l’arte, il paesaggio, l’architettura e la scienza, e come strumento con funzioni didattiche oltre che documentali e sociali. Tutti gli incontri sono disponibili sul Canale YouTube e sulla pagina Facebook di Rete Fotografia.

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Cultura della buona decisione

In un libro sintetizzato il percorso corretto per arrivare a decisioni efficaci, condivise e utili

Decidere. Compito fondamentale dell’imprenditore e del manager che vogliano dirsi davvero tali. Decidere e quindi scegliere, indicare “la strada”, guardare oltre al presente. Decidere per far crescere la propria impresa. Ma come? E in base a quale metodo? Il libro di Giulia Bussi – “Decidere bene. Un’educazione alla decisione in tempi difficili” -, serve per  capire quali passi compiere per arrivare alle decisioni d’impresa nel modo più efficace. Decisioni che la stessa autrice definisce “buone” e cioè in grado di accontentare il singolo senza scontentare gli altri.

Il libro – circa 150 pagine che si leggono con una certa facilità -, inizia con una precisazione importante: decidere sembra essere il gesto di un attimo, ma è in realtà il frutto di una lunga preparazione. E continua poi con una seconda sottolineatura: la chiave della sostenibilità, fattore da cui dipendono oggi l’efficacia e la credibilità dei manager, è la capacità di fare scelte nel rispetto degli interessi di tutti gli attori in gioco – azionisti, fornitori, clienti, dipendenti, enti locali, territorio.

Bussi quindi costruisce un “percorso” che consente di orientarsi per prendere buone decisioni, funzionali ai propri obiettivi e progetti e capaci di tenere conto degli altri. Tutto raccogliendo quanto serve da diverse discipline come la psicologia, la sociologia, la logica, l’etica e la filosofia. Perché ogni decisione è un fatto sociale ed emozionale. E come tale deve essere considerata.

Il libro è composto da quattro sezioni. Nella prima viene delineato “qual è il perimetro all’interno del quale ci muoviamo per decidere”; nella seconda, “si affrontano gli

elementi in gioco, a livello individuale e sociale, del processo decisionale”; nella terza, “si verifica se il ragionamento logico, l’analisi e l’utilizzo razionale dei dati possano facilitare decisioni efficaci”; infine, la quarta sezione cerca di rispondere alla domanda cruciale di tutto il libro: “È possibile favorire un’educazione personale e sociale che aiuti a prendere buone decisioni, a livello dell’individuo e del gruppo?”.

Il libro di Giulia Bussi è facile da leggere, anche se affronta un tema complesso, non certo definito ma assolutamente importante per una buona cultura del fare impresa.

Decidere bene. Un’educazione alla decisione in tempi difficili

Giulia Bussi

Franco Angeli, 2021

In un libro sintetizzato il percorso corretto per arrivare a decisioni efficaci, condivise e utili

Decidere. Compito fondamentale dell’imprenditore e del manager che vogliano dirsi davvero tali. Decidere e quindi scegliere, indicare “la strada”, guardare oltre al presente. Decidere per far crescere la propria impresa. Ma come? E in base a quale metodo? Il libro di Giulia Bussi – “Decidere bene. Un’educazione alla decisione in tempi difficili” -, serve per  capire quali passi compiere per arrivare alle decisioni d’impresa nel modo più efficace. Decisioni che la stessa autrice definisce “buone” e cioè in grado di accontentare il singolo senza scontentare gli altri.

Il libro – circa 150 pagine che si leggono con una certa facilità -, inizia con una precisazione importante: decidere sembra essere il gesto di un attimo, ma è in realtà il frutto di una lunga preparazione. E continua poi con una seconda sottolineatura: la chiave della sostenibilità, fattore da cui dipendono oggi l’efficacia e la credibilità dei manager, è la capacità di fare scelte nel rispetto degli interessi di tutti gli attori in gioco – azionisti, fornitori, clienti, dipendenti, enti locali, territorio.

Bussi quindi costruisce un “percorso” che consente di orientarsi per prendere buone decisioni, funzionali ai propri obiettivi e progetti e capaci di tenere conto degli altri. Tutto raccogliendo quanto serve da diverse discipline come la psicologia, la sociologia, la logica, l’etica e la filosofia. Perché ogni decisione è un fatto sociale ed emozionale. E come tale deve essere considerata.

Il libro è composto da quattro sezioni. Nella prima viene delineato “qual è il perimetro all’interno del quale ci muoviamo per decidere”; nella seconda, “si affrontano gli

elementi in gioco, a livello individuale e sociale, del processo decisionale”; nella terza, “si verifica se il ragionamento logico, l’analisi e l’utilizzo razionale dei dati possano facilitare decisioni efficaci”; infine, la quarta sezione cerca di rispondere alla domanda cruciale di tutto il libro: “È possibile favorire un’educazione personale e sociale che aiuti a prendere buone decisioni, a livello dell’individuo e del gruppo?”.

Il libro di Giulia Bussi è facile da leggere, anche se affronta un tema complesso, non certo definito ma assolutamente importante per una buona cultura del fare impresa.

Decidere bene. Un’educazione alla decisione in tempi difficili

Giulia Bussi

Franco Angeli, 2021

Contaminarsi per crescere

Il racconto e l’analisi del Contamination Lab Torino insegna il valore della condivisione e dell’apertura per lo sviluppo

Si cresce quando ci si contamina. Affermazione paradossale e “scandalosa” solo in apparenza. Perché è esperienza comune, invece, constatare come lo sviluppo umano, il progresso, la crescita delle società e delle organizzazioni (anche delle imprese), passano sempre dall’apertura verso l’esterno, dall’attenzione verso gli altri, dall’accortezza di recepire quanto di buono e stimolante può arrivare da luoghi e ambienti altri dal proprio. E’ con la “contaminazione” che si genera innovazione. E’ quindi bello e interessante leggere delle esperienze già compiute in questa direzione come quella in corso a Torino tra il Politecnico e l’Università.
“Design e sostenibilità per la formazione imprenditoriale. L’esperienza del Contamination Lab Torino” raccoglie la serie di studi e ricerche proprio sull’esperienza torinese che ha preso forma e contenuto partendo dal campo del design. Spiegano Eleonora Fiore, Chiara L. Remondino, Giuliano Sansone – curatrici della raccolta – che “il fatto di vivere una fase storica che pone con forza il tema della gestione del cambiamento e della continua ridefinizione e integrazione delle competenze pone importanti questioni al mondo universitario”. Da qui l’idea dei due atenei di dare vita ad un luogo di contaminazione di idee ed esperienze: il Contamination Lab Torino (CLabTo), appunto. “Un luogo – viene precisato -, per gli studenti, per i nostri ricercatori e docenti, aperto agli stakeholder del territorio e volto all’educazione imprenditoriale transdisciplinare”.
La serie di ricerche cerca quindi approfondire i tratti essenziali dell’esperienza iniziando da una analisi dei nuovi modelli di educazione all’impresa per passare poi a descrivere l’esperienza del CLabTo e quindi ad approfondire aspetti come la didattica necessaria e le tecniche di valutazione dei risultati arrivando così a delineare quali possano essere le professioni più adatte per conciliare esperienze diverse entro attività comuni.
La raccolta di indagini attorno al CLabTo ha il gran pregio di raccontare qualcosa di concreto e radicato nel territorio e di dimostrare quanto, come si diceva all’inizio, si possa crescere mettendo insieme stimoli ed esperienze diverse.

Design e sostenibilità per la formazione imprenditoriale. L’esperienza del Contamination Lab Torino
Eleonora Fiore, Chiara L. Remondino, Giuliano Sansone
Egea, 2021

Il racconto e l’analisi del Contamination Lab Torino insegna il valore della condivisione e dell’apertura per lo sviluppo

Si cresce quando ci si contamina. Affermazione paradossale e “scandalosa” solo in apparenza. Perché è esperienza comune, invece, constatare come lo sviluppo umano, il progresso, la crescita delle società e delle organizzazioni (anche delle imprese), passano sempre dall’apertura verso l’esterno, dall’attenzione verso gli altri, dall’accortezza di recepire quanto di buono e stimolante può arrivare da luoghi e ambienti altri dal proprio. E’ con la “contaminazione” che si genera innovazione. E’ quindi bello e interessante leggere delle esperienze già compiute in questa direzione come quella in corso a Torino tra il Politecnico e l’Università.
“Design e sostenibilità per la formazione imprenditoriale. L’esperienza del Contamination Lab Torino” raccoglie la serie di studi e ricerche proprio sull’esperienza torinese che ha preso forma e contenuto partendo dal campo del design. Spiegano Eleonora Fiore, Chiara L. Remondino, Giuliano Sansone – curatrici della raccolta – che “il fatto di vivere una fase storica che pone con forza il tema della gestione del cambiamento e della continua ridefinizione e integrazione delle competenze pone importanti questioni al mondo universitario”. Da qui l’idea dei due atenei di dare vita ad un luogo di contaminazione di idee ed esperienze: il Contamination Lab Torino (CLabTo), appunto. “Un luogo – viene precisato -, per gli studenti, per i nostri ricercatori e docenti, aperto agli stakeholder del territorio e volto all’educazione imprenditoriale transdisciplinare”.
La serie di ricerche cerca quindi approfondire i tratti essenziali dell’esperienza iniziando da una analisi dei nuovi modelli di educazione all’impresa per passare poi a descrivere l’esperienza del CLabTo e quindi ad approfondire aspetti come la didattica necessaria e le tecniche di valutazione dei risultati arrivando così a delineare quali possano essere le professioni più adatte per conciliare esperienze diverse entro attività comuni.
La raccolta di indagini attorno al CLabTo ha il gran pregio di raccontare qualcosa di concreto e radicato nel territorio e di dimostrare quanto, come si diceva all’inizio, si possa crescere mettendo insieme stimoli ed esperienze diverse.

Design e sostenibilità per la formazione imprenditoriale. L’esperienza del Contamination Lab Torino
Eleonora Fiore, Chiara L. Remondino, Giuliano Sansone
Egea, 2021

Università e conoscenza: le sfide del Piano di Draghi e i Politecnici impegnati a formare “ingegneri filosofi”

Ripartire dalla conoscenza”, sostiene Ferruccio Resta, per passare “dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università”. Resta è rettore del Politecnico di Milano e attuale presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. È un ingegnere, professore di Meccanica applicata alle Macchine (l’espressione “civiltà delle macchine” gli si adatta bene). E nelle pagine del nuovo libro, costruito attraverso un dialogo con Ferruccio de Bortoli e pubblicato da Bollati Boringhieri, ragiona non solo sulla necessità di investire massicciamente sulla formazione, per rendere l’Italia più competitiva, nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, ma anche sui contenuti della formazione, tenendo insieme, in modo originale, tecnologia e bellezza, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, matematica e letteratura, ingegneria e filosofia, come peraltro proprio la migliore storia culturale ed economica italiana ci insegna. Serve una “cultura politecnica”, con la straordinaria attualità di un “umanesimo industriale” che oggi, in tempi di digital economy e di Intelligenza Artificiale, va declinato anche come “umanesimo digitale” (tutti temi, peraltro, più volte affrontati in questo blog).

Il Pnrr (la sigla difficilmente pronunciabile che sta per “Piano nazionale di ripresa e resilienza”) e cioè la versione italiana del Recovery Plan della Ue, stanzia 31,9 miliardi per Istruzione e Ricerca, per rafforzare, cioè, “il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico”, come spiega Palazzo Chigi in un comunicato. In dettaglio, “il Piano investe negli asili nido, nelle scuole materne, nei servizi di educazione e cura per l’infanzia; crea 152.000 posti per i bambini fino a 3 anni e 76.000 per i bambini tra i 3 e i 6
anni”. Si investe nel risanamento strutturale degli edifici scolastici, con l’obiettivo di ristrutturare una superficie complessiva di 2.400.000 metri quadri. E, per quel che riguarda i contenuti, si prevede una riforma dell’orientamento, dei programmi di dottorato e dei corsi di laurea, per esempio con l’aggiornamento della disciplina dei dottorati e un loro aumento di circa 3.000 unità. Sempre un comunicato di Palazzo Chigi spiega che “si sviluppa l’istruzione professionalizzante e si rafforza la filiera della ricerca e del trasferimento tecnologico”. Con un’attenzione particolare per gli Its, gli Istituti tecnici superiori, per incrementare gli studenti iscritti, rafforzare i laboratori con tecnologie 4.0, formare i docenti e adattare i programmi formativi secondo le esigenze delle imprese in cerca di capitale umano qualificato, sviluppare una piattaforma nazionale per fare incontrare offerta e domanda di lavoro.

Siamo insomma di fronte a risorse di un certo livello, progetti ambiziosi, da realizzare in tempi brevi (il 2026, come scadenza massima). Il governo Draghi, insomma, s’è mosso. La Ue ritrova anche in questo capitolo il senso di fondo della sua strategia del Recovery Plan, in coerenza con l’orientamento di fondo indicato fin dal nome, “Next Generation”. L’impegno, adesso, è passare tempestivamente dalle pagine del Piano ai cantieri delle opere, alle scelte dei programmi didattici e alle realizzazioni.

Il libro di Resta e de Bortoli offre indicazioni preziose, su come fare funzionare meglio università e ricerca, su come rafforzare il dialogo tra università, comunità sui territori e imprese. E su come progettare una formazione superiore che tenga conto del rapido sviluppo delle nuove conoscenze e dunque sull’usura altrettanto intensa di quello che oggi si sa.

Bisogna insegnare a imparare. E tenere testa a una seconda sfida, proprio di fronte all’impetuoso cambiamento delle tecnologie: quella di capire il senso delle cose che si fanno, indagare sui valori di riferimento, sulle conseguenze umane ed etiche dei progressi tecnologici. Non solo, dunque, saper scrivere efficacemente gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, ma comprenderne, controllarne e governarne gli effetti. Per evitare manipolazioni occulte (il monito etico di Luciano Floridi, professore a Oxford di Filosofia dell’Informazione) e cercare di conciliare sviluppo hi tech, libertà, responsabilità. Come devono saper fare degli ingegneri filosofi, dei tecnologi poeti, appunto.

Le discipline universitarie, suggerisce Resta, non vanno più inquadrate in “gabbie rigide”. E, proprio pensando ai Politecnici, insiste: “Un ingegnere oggi non è più il tecnico che deve rispondere al singolo problema, ma deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie”. Proprio le indicazioni di fondo del Recovery Plan della Ue, ambiente e innovazione, sostenibilità ed economia digitale, hanno bisogno di persone, di figure professionali formate in modo multi-disciplinare, adatta a fare sintesi originali di saperi in continua mutazione.

Il nostro Paese, insomma, ha urgente bisogno di investire su conoscenza e formazione, ricerca e innovazione. Risorse finanziarie e riforme del Recovery Plan ne sono finalmente strumento adeguato. Per costruire cultura del futuro, competenze, produttività e competitività. Abbiamo la necessità di superare il gap dei 13 milioni di persone che hanno solo un titolo di studio di scuola media inferiore formazione e il limite del basso numero di laureati, soprattutto nelle materie scientifiche. E dobbiamo dunque costruire una formazione migliore, non solo nei cicli scolastici, ma nelle relazioni lunghe tra scuola e lavoro, quella che tecnicamente si chiama long life learning, un’attitudine a imparare che ci accompagni per tutta la vita. Anche da questo punto di vista le università colte, aperte, efficaci nei processi formativi sono, come dice Resta, “centrali”. La conoscenza è il nostro migliore futuro.

Ripartire dalla conoscenza”, sostiene Ferruccio Resta, per passare “dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università”. Resta è rettore del Politecnico di Milano e attuale presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. È un ingegnere, professore di Meccanica applicata alle Macchine (l’espressione “civiltà delle macchine” gli si adatta bene). E nelle pagine del nuovo libro, costruito attraverso un dialogo con Ferruccio de Bortoli e pubblicato da Bollati Boringhieri, ragiona non solo sulla necessità di investire massicciamente sulla formazione, per rendere l’Italia più competitiva, nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, ma anche sui contenuti della formazione, tenendo insieme, in modo originale, tecnologia e bellezza, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, matematica e letteratura, ingegneria e filosofia, come peraltro proprio la migliore storia culturale ed economica italiana ci insegna. Serve una “cultura politecnica”, con la straordinaria attualità di un “umanesimo industriale” che oggi, in tempi di digital economy e di Intelligenza Artificiale, va declinato anche come “umanesimo digitale” (tutti temi, peraltro, più volte affrontati in questo blog).

Il Pnrr (la sigla difficilmente pronunciabile che sta per “Piano nazionale di ripresa e resilienza”) e cioè la versione italiana del Recovery Plan della Ue, stanzia 31,9 miliardi per Istruzione e Ricerca, per rafforzare, cioè, “il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico”, come spiega Palazzo Chigi in un comunicato. In dettaglio, “il Piano investe negli asili nido, nelle scuole materne, nei servizi di educazione e cura per l’infanzia; crea 152.000 posti per i bambini fino a 3 anni e 76.000 per i bambini tra i 3 e i 6
anni”. Si investe nel risanamento strutturale degli edifici scolastici, con l’obiettivo di ristrutturare una superficie complessiva di 2.400.000 metri quadri. E, per quel che riguarda i contenuti, si prevede una riforma dell’orientamento, dei programmi di dottorato e dei corsi di laurea, per esempio con l’aggiornamento della disciplina dei dottorati e un loro aumento di circa 3.000 unità. Sempre un comunicato di Palazzo Chigi spiega che “si sviluppa l’istruzione professionalizzante e si rafforza la filiera della ricerca e del trasferimento tecnologico”. Con un’attenzione particolare per gli Its, gli Istituti tecnici superiori, per incrementare gli studenti iscritti, rafforzare i laboratori con tecnologie 4.0, formare i docenti e adattare i programmi formativi secondo le esigenze delle imprese in cerca di capitale umano qualificato, sviluppare una piattaforma nazionale per fare incontrare offerta e domanda di lavoro.

Siamo insomma di fronte a risorse di un certo livello, progetti ambiziosi, da realizzare in tempi brevi (il 2026, come scadenza massima). Il governo Draghi, insomma, s’è mosso. La Ue ritrova anche in questo capitolo il senso di fondo della sua strategia del Recovery Plan, in coerenza con l’orientamento di fondo indicato fin dal nome, “Next Generation”. L’impegno, adesso, è passare tempestivamente dalle pagine del Piano ai cantieri delle opere, alle scelte dei programmi didattici e alle realizzazioni.

Il libro di Resta e de Bortoli offre indicazioni preziose, su come fare funzionare meglio università e ricerca, su come rafforzare il dialogo tra università, comunità sui territori e imprese. E su come progettare una formazione superiore che tenga conto del rapido sviluppo delle nuove conoscenze e dunque sull’usura altrettanto intensa di quello che oggi si sa.

Bisogna insegnare a imparare. E tenere testa a una seconda sfida, proprio di fronte all’impetuoso cambiamento delle tecnologie: quella di capire il senso delle cose che si fanno, indagare sui valori di riferimento, sulle conseguenze umane ed etiche dei progressi tecnologici. Non solo, dunque, saper scrivere efficacemente gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, ma comprenderne, controllarne e governarne gli effetti. Per evitare manipolazioni occulte (il monito etico di Luciano Floridi, professore a Oxford di Filosofia dell’Informazione) e cercare di conciliare sviluppo hi tech, libertà, responsabilità. Come devono saper fare degli ingegneri filosofi, dei tecnologi poeti, appunto.

Le discipline universitarie, suggerisce Resta, non vanno più inquadrate in “gabbie rigide”. E, proprio pensando ai Politecnici, insiste: “Un ingegnere oggi non è più il tecnico che deve rispondere al singolo problema, ma deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie”. Proprio le indicazioni di fondo del Recovery Plan della Ue, ambiente e innovazione, sostenibilità ed economia digitale, hanno bisogno di persone, di figure professionali formate in modo multi-disciplinare, adatta a fare sintesi originali di saperi in continua mutazione.

Il nostro Paese, insomma, ha urgente bisogno di investire su conoscenza e formazione, ricerca e innovazione. Risorse finanziarie e riforme del Recovery Plan ne sono finalmente strumento adeguato. Per costruire cultura del futuro, competenze, produttività e competitività. Abbiamo la necessità di superare il gap dei 13 milioni di persone che hanno solo un titolo di studio di scuola media inferiore formazione e il limite del basso numero di laureati, soprattutto nelle materie scientifiche. E dobbiamo dunque costruire una formazione migliore, non solo nei cicli scolastici, ma nelle relazioni lunghe tra scuola e lavoro, quella che tecnicamente si chiama long life learning, un’attitudine a imparare che ci accompagni per tutta la vita. Anche da questo punto di vista le università colte, aperte, efficaci nei processi formativi sono, come dice Resta, “centrali”. La conoscenza è il nostro migliore futuro.

L’impresa umanistica alle prese con il cambiamento

Una tesi discussa all’Università di Pisa prende in considerazione un aspetto particolare della Olivetti

Impresa umanistica eppure tecnologicamente avanzata. Luogo dove si lavora, ma si cresce come persone. L’Italia industriale è zeppa di esempi di questo genere, che continuano a fare scuola. E uno di questi è certamente il caso della Olivetti di Adriano. Che non smette di essere studiata sotto ogni aspetto, ma che ogni volta propone spunti di lettura nuovi. E’ quanto ha fatto Luca Manuguerra con la sua tesi discussa presso l’Università degli studi di Pisa nell’ambito del corso di studi in Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane. Manuguerra, tuttavia, parte un particolare punto di vista che merita di essere esplorato: il Centro Formazione Meccanici della Olivetti e cioè quella scuola aziendale che fornisce, nell’ambito dell’impresa olivettiana, conoscenze sia tecniche sia di natura umanistica.

Manuguerra inizia la sua ricerca partendo dalla sintesi dei fatti: “L’Olivetti – spiega -, diventa un’azienda leader nel settore dei prodotti meccanici grazie alla genialità di alcune sue soluzioni progettuali, che rendono il prodotto difficile da imitare per i concorrenti. L’azienda investe sia in nuove tecnologie sia nella crescita professionale delle sue maestranze. Per mantenere un profilo competitivo e di successo, è necessario avere personale qualificato e preparato, ma anche creativo, aperto al dialogo e alla condivisione dell’esperienza lavorativa”.

Funzionaltà e bellezza. Tecnica e umanesimo. “Per l’azienda – scrive ancora l’autore di questa indagine -, l’estetica e il design sono fondamentali per la funzionalità del prodotto, quindi è indispensabile saper disegnare forme capaci di comunicare in modo immediato la funzione del prodotto”.

Accanto a tutto questo, è l’attenzione alla formazione globale di chi lavora in Olivetti. Materie umanistiche, quindi, accanto all’eccellenza tecnica. “La formazione – precisa ancora Manuguerra -, sviluppa un forte senso di appartenenza, che (fa sentire i dipendenti) parte di una comunità, e li incoraggia a intraprendere ed esprimere le loro idee”.

Poi il cambio di passo che Manuguerra sintetizza così: “Nel corso degli anni ’50, l’Olivetti s’interessa all’ elettronica, ma essa viene percepita dal resto dell’azienda come un corpo estraneo, poiché la quasi totalità del management di Olivetti non condivide la visione dell’elettronica nel futuro aziendale”. Si profila a questo punto, secondo l’indagine svolta da Manuguerra, una “incoerenza interna tra i lavoratori, cioè si realizza una disuguaglianza nel trattamento dei diversi lavoratori. Il personale addetto all’elettronica viene osteggiato, sia da quello meccanico sia dal management. La ricerca per lo sviluppo dei prodotti elettronici viene accolta con diffidenza o indifferenza, e le competenze meccaniche, irrigiditesi dal punto di vista tecnico e cognitivo, rigettano qualunque innovazione radicale”.

Una delle conseguenze in azienda è una discrasia tra la formazione destinata a chi si occupa di meccanica e quella fornita a chi deve occuparsi di elettronica. “La formazione – spiega Manuguerra -, perciò, si rivela incoerente rispetto sia alla strategia sia alla cultura d’impresa. Quest’ultima, incline alla collaborazione, alla tendenza sperimentale, viene limitata al solo settore meccanico”.

Ma quindi che fare? L’indagine prosegue spiegando che il tentativo di superare la frattura si traduce  nell’utilizzo del “dispositivo gruppale”. I dipendenti, sia meccanici sia elettronici, costituiscono dei gruppi, sospendendo le rispettive mansioni e lavorando insieme. Un percorso non facile, che la Olivetti tenta comunque e che l’indagine racconta bene.

La tesi di Luca Manuguerra è una buona lettura per capire di più della vicenda di un’azienda che ha segnato – comunque la si voglia giudicare -, la cultura dell’impresa italiana nel ‘900

La formazione e la coerenza interna nella gestione delle risorse umane: cosa insegna il caso Olivetti

Luca Manuguerra

Tesi, Università degli studi di Pisa, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2021

Una tesi discussa all’Università di Pisa prende in considerazione un aspetto particolare della Olivetti

Impresa umanistica eppure tecnologicamente avanzata. Luogo dove si lavora, ma si cresce come persone. L’Italia industriale è zeppa di esempi di questo genere, che continuano a fare scuola. E uno di questi è certamente il caso della Olivetti di Adriano. Che non smette di essere studiata sotto ogni aspetto, ma che ogni volta propone spunti di lettura nuovi. E’ quanto ha fatto Luca Manuguerra con la sua tesi discussa presso l’Università degli studi di Pisa nell’ambito del corso di studi in Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane. Manuguerra, tuttavia, parte un particolare punto di vista che merita di essere esplorato: il Centro Formazione Meccanici della Olivetti e cioè quella scuola aziendale che fornisce, nell’ambito dell’impresa olivettiana, conoscenze sia tecniche sia di natura umanistica.

Manuguerra inizia la sua ricerca partendo dalla sintesi dei fatti: “L’Olivetti – spiega -, diventa un’azienda leader nel settore dei prodotti meccanici grazie alla genialità di alcune sue soluzioni progettuali, che rendono il prodotto difficile da imitare per i concorrenti. L’azienda investe sia in nuove tecnologie sia nella crescita professionale delle sue maestranze. Per mantenere un profilo competitivo e di successo, è necessario avere personale qualificato e preparato, ma anche creativo, aperto al dialogo e alla condivisione dell’esperienza lavorativa”.

Funzionaltà e bellezza. Tecnica e umanesimo. “Per l’azienda – scrive ancora l’autore di questa indagine -, l’estetica e il design sono fondamentali per la funzionalità del prodotto, quindi è indispensabile saper disegnare forme capaci di comunicare in modo immediato la funzione del prodotto”.

Accanto a tutto questo, è l’attenzione alla formazione globale di chi lavora in Olivetti. Materie umanistiche, quindi, accanto all’eccellenza tecnica. “La formazione – precisa ancora Manuguerra -, sviluppa un forte senso di appartenenza, che (fa sentire i dipendenti) parte di una comunità, e li incoraggia a intraprendere ed esprimere le loro idee”.

Poi il cambio di passo che Manuguerra sintetizza così: “Nel corso degli anni ’50, l’Olivetti s’interessa all’ elettronica, ma essa viene percepita dal resto dell’azienda come un corpo estraneo, poiché la quasi totalità del management di Olivetti non condivide la visione dell’elettronica nel futuro aziendale”. Si profila a questo punto, secondo l’indagine svolta da Manuguerra, una “incoerenza interna tra i lavoratori, cioè si realizza una disuguaglianza nel trattamento dei diversi lavoratori. Il personale addetto all’elettronica viene osteggiato, sia da quello meccanico sia dal management. La ricerca per lo sviluppo dei prodotti elettronici viene accolta con diffidenza o indifferenza, e le competenze meccaniche, irrigiditesi dal punto di vista tecnico e cognitivo, rigettano qualunque innovazione radicale”.

Una delle conseguenze in azienda è una discrasia tra la formazione destinata a chi si occupa di meccanica e quella fornita a chi deve occuparsi di elettronica. “La formazione – spiega Manuguerra -, perciò, si rivela incoerente rispetto sia alla strategia sia alla cultura d’impresa. Quest’ultima, incline alla collaborazione, alla tendenza sperimentale, viene limitata al solo settore meccanico”.

Ma quindi che fare? L’indagine prosegue spiegando che il tentativo di superare la frattura si traduce  nell’utilizzo del “dispositivo gruppale”. I dipendenti, sia meccanici sia elettronici, costituiscono dei gruppi, sospendendo le rispettive mansioni e lavorando insieme. Un percorso non facile, che la Olivetti tenta comunque e che l’indagine racconta bene.

La tesi di Luca Manuguerra è una buona lettura per capire di più della vicenda di un’azienda che ha segnato – comunque la si voglia giudicare -, la cultura dell’impresa italiana nel ‘900

La formazione e la coerenza interna nella gestione delle risorse umane: cosa insegna il caso Olivetti

Luca Manuguerra

Tesi, Università degli studi di Pisa, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2021

La Giornata della Terra, la sostenibilità sociale e un’utile rilettura di Keynes su occupazione e libertà

Le ricorrenze, così come i monumenti, hanno una funzione simbolica fondamentale: rimemorare. Ridare attualità critica alla storia, per esempio. O sottolineare la necessità di confermare un impegno, rilanciare un progetto. Possono, certamente, diventare presenze degradate nella banalità o riti vuoti, quando viene meno l’impegno a fare vivere il loro senso profondo. Un pericolo che va evitato. Ne sarebbe ferita la nostra stessa condizione umana, che si nutre di memoria attiva e di futuro.

Il 22 aprile è un giorno importante. La Giornata della Terra. E proprio adesso, in tempi di pandemia e recessione, ragionare di Climate Change e di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, significa usare bene ricorrenze e riti e insistere, al di là delle date simboliche, su progetti e scelte di salvaguardia e cambiamenti, sui necessari cambi di paradigma per vivere e lavorare meglio, sulle riforme indispensabili per un benessere più ampio, inclusivo, equilibrato (“Pianeta Terra chiama uomo”, nella “giornata della casa di noi tutti”, ha titolato efficacemente, in copertina, sabato scorso, “Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”). Papa Francesco, con le sue encicliche e, da tempo, la migliore letteratura economica internazionale, insistono su questi temi. E proprio la pandemia da Covid19, una malattia che non conosce confini e a cui si stanno dando, con vaccini e nuove terapie, risposte globali, sta facendo da straordinario acceleratore dell’urgenza di risposte concrete e lungimiranti alla crisi. Risposte scientifiche, politiche, tecnologiche, sociali.

Le due dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale, sono interconnesse. Vanno considerate insieme, nella costruzione delle politiche, sia nazionali che globali, per raggiungerle. I 17 Sustainable Development Goals degli Accordi di Parigi per l’Agenda 2030 le tengono bene in stretta relazione. Il Recovery Plan della Ue, oramai in avanzato stato di elaborazione in tutti i paesi europei, insiste su Green Economy e Digital economy, ambiente e innovazione e sulle riforme per formazione ed economia della conoscenza, a vantaggio della Next Generation (il patto generazionale, da riscrivere, è una componente essenziale della sostenibilità sociale). E anche per il mondo della finanza i parametri Esg (Environmental, Social e Governance) su cui giudicare gli investimenti finanziari e le scelte societarie tengono in primo piano l’ambiente e le persone, oltre che la trasparenza e la correttezza della gestione delle imprese, a cominciare da quelle quotate in Borsa. C’è un mondo in movimento, insomma. Cui continuare a guardare con molta attenzione.

La competitività, e la produttività necessaria per raggiungerla, hanno proprio la sostenibilità come asset fondamentale. E le strategie delle aziende più dinamiche e di successo si muovono in questa direzione, come conferma l’andamento positivo del Dow Jones Sustainability Index (ne fanno parte undici italiane, Generali, Intesa, Leonardo, Pirelli, Poste, Telecom, Prysmian, etc.). Un’economia più responsabile, dunque. E un’idea dello sviluppo in cui profitti, cultura del mercato ben regolato, senso della comunità e democrazia possono stare insieme.

“Unire etica sociale ed economia”, sostiene Ronald Cohen, finanziere e filantropo, in un colloquio con Mario Calderini, professore del Politecnico di Milano (“la Repubblica”, 13 aprile). Cohen è leader del Global Steering Group for Impact Investment, quel tipo di investimenti “con cui, insieme al profitto, ci si propone di conseguire un miglioramento concreto e misurabile nella condizione di vita delle persone e nell’ambiente”: “Un grande cambiamento valoriale, grazie al quale oggi nel mondo 30mila miliardi di dollari sono investiti per ottenere di più del solo guadagno finanziario”. E gli enti che fissano i principi contabili internazionali per calcolare il valore delle imprese “stanno introducendo la sostenibilità tra gli elementi indispensabile”. Dal valore economico ai valori sociali e ambientali.

Larry Fink, Ceo di BlackRock, il maggiore fondo di investimenti del mondo (9mila miliardi di dollari gestiti, compresi quelli dei fondi pensione di milioni di lavoratori), si muove da tempo secondo queste idee. Ne è stato anzi uno dei precursori. La sua “Lettera annuale agli investitori”, uno dei documenti guida dell’opinione pubblica finanziaria mondiale, ha proprio la sostenibilità come linea guida degli investimenti. E con Bill Gates sta programmando una serie di nuove iniziative sul fronte dell’energia sostenibile, seguendo le linee guida del recente libro di Gates (“Come evitare il disastro climatico”, appena pubblicato in Italia da La nave di Teseo). Adesso, pensando alle reazioni alla pandemia, Fink dice: “Il capitalismo ci ha salvati dal virus” (intervista a “la Repubblica”, di Mario Platero, 16 aprile), ricordando lo sforzo straordinario per arrivare in tempi brevi ai vaccini (una collaborazione tra ricerca scientifica e produzione industriale) ma anche le relazioni virtuose per fare fronte ai nuovi problemi della comunicazione tra le persone, del lavoro, della distribuzione di prodotti e servizi in tempi di malattia, clausura, mobilità ridotta. Auspica “una globalizzazione equilibrata”. E un’economia attenta ai profitti, certo, impegnata a rischiare e innovare, ma anche a tenere in primo piano i temi della solidarietà. E dunque sensibile soprattutto agli interessi e ai valori degli stakeholders , i lavoratori, i consumatori, le comunità, la società civile.

C’è un’altra testimonianza su cui vale la pena riflettere, a proposito di globalizzazione positiva e di sostenibilità sociale, di inclusione e di confronto tra culture diverse. Ed è quella di Albert Bourla, presidente e amministratore delegato di Pfizer (intervista a Federico Fubini del “Corriere della Sera”, 16 aprile): l’esperienza che ha portato al vaccino Pfizer “è un messaggio meraviglioso al mondo: un ebreo greco a capo di una multinazionale americana e i responsabili di BioNTech, turchi musulmani immigrati in Germania, collaborano senza nemmeno un contratto, per salvare il mondo. Il fatto di essere un immigrato penso sia la caratteristica più importante. In Pfizer con i miei figli abbiamo vissuto in otto città diverse di cinque Paesi. Questo ci ha dato il regalo più bello: essere esposti a culture diverse”.

La sostenibilità è una condizione dialogante. Particolarmente favorita dalle culture democratiche e di mercato. Anche in questo caso, vale la pena riprendere in mano i classici, per ritrovarne radici e conferme. Per esempio, nelle pagine della “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di John Maynard Keynes: “I sistemi statali autoritari odierni sembrano risolvere il problema della disoccupazione a spese dell’efficienza e della libertà. Quello che è certo è che il mondo non potrà sopportare ancora per molto una disoccupazione che, salvo alcuni momenti di euforia, è associata – e, a mio avviso, inevitabilmente associata – all’individualismo capitalistico di oggi. Ma è possibile invece, con una corretta analisi del problema, curare la malattia preservando, nello stesso tempo, l’efficienza e la libertà”.

Keynes morì giusto 75 anni fa, il 21 aprile. Il suo pensiero ha profondamente influenzato il dibattito politico ed economico della seconda metà del Novecento. In tempi di centralità crescente della sostenibilità, soprattutto sul piano sociale, ha ancora molto da dirci.

Le ricorrenze, così come i monumenti, hanno una funzione simbolica fondamentale: rimemorare. Ridare attualità critica alla storia, per esempio. O sottolineare la necessità di confermare un impegno, rilanciare un progetto. Possono, certamente, diventare presenze degradate nella banalità o riti vuoti, quando viene meno l’impegno a fare vivere il loro senso profondo. Un pericolo che va evitato. Ne sarebbe ferita la nostra stessa condizione umana, che si nutre di memoria attiva e di futuro.

Il 22 aprile è un giorno importante. La Giornata della Terra. E proprio adesso, in tempi di pandemia e recessione, ragionare di Climate Change e di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, significa usare bene ricorrenze e riti e insistere, al di là delle date simboliche, su progetti e scelte di salvaguardia e cambiamenti, sui necessari cambi di paradigma per vivere e lavorare meglio, sulle riforme indispensabili per un benessere più ampio, inclusivo, equilibrato (“Pianeta Terra chiama uomo”, nella “giornata della casa di noi tutti”, ha titolato efficacemente, in copertina, sabato scorso, “Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”). Papa Francesco, con le sue encicliche e, da tempo, la migliore letteratura economica internazionale, insistono su questi temi. E proprio la pandemia da Covid19, una malattia che non conosce confini e a cui si stanno dando, con vaccini e nuove terapie, risposte globali, sta facendo da straordinario acceleratore dell’urgenza di risposte concrete e lungimiranti alla crisi. Risposte scientifiche, politiche, tecnologiche, sociali.

Le due dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale, sono interconnesse. Vanno considerate insieme, nella costruzione delle politiche, sia nazionali che globali, per raggiungerle. I 17 Sustainable Development Goals degli Accordi di Parigi per l’Agenda 2030 le tengono bene in stretta relazione. Il Recovery Plan della Ue, oramai in avanzato stato di elaborazione in tutti i paesi europei, insiste su Green Economy e Digital economy, ambiente e innovazione e sulle riforme per formazione ed economia della conoscenza, a vantaggio della Next Generation (il patto generazionale, da riscrivere, è una componente essenziale della sostenibilità sociale). E anche per il mondo della finanza i parametri Esg (Environmental, Social e Governance) su cui giudicare gli investimenti finanziari e le scelte societarie tengono in primo piano l’ambiente e le persone, oltre che la trasparenza e la correttezza della gestione delle imprese, a cominciare da quelle quotate in Borsa. C’è un mondo in movimento, insomma. Cui continuare a guardare con molta attenzione.

La competitività, e la produttività necessaria per raggiungerla, hanno proprio la sostenibilità come asset fondamentale. E le strategie delle aziende più dinamiche e di successo si muovono in questa direzione, come conferma l’andamento positivo del Dow Jones Sustainability Index (ne fanno parte undici italiane, Generali, Intesa, Leonardo, Pirelli, Poste, Telecom, Prysmian, etc.). Un’economia più responsabile, dunque. E un’idea dello sviluppo in cui profitti, cultura del mercato ben regolato, senso della comunità e democrazia possono stare insieme.

“Unire etica sociale ed economia”, sostiene Ronald Cohen, finanziere e filantropo, in un colloquio con Mario Calderini, professore del Politecnico di Milano (“la Repubblica”, 13 aprile). Cohen è leader del Global Steering Group for Impact Investment, quel tipo di investimenti “con cui, insieme al profitto, ci si propone di conseguire un miglioramento concreto e misurabile nella condizione di vita delle persone e nell’ambiente”: “Un grande cambiamento valoriale, grazie al quale oggi nel mondo 30mila miliardi di dollari sono investiti per ottenere di più del solo guadagno finanziario”. E gli enti che fissano i principi contabili internazionali per calcolare il valore delle imprese “stanno introducendo la sostenibilità tra gli elementi indispensabile”. Dal valore economico ai valori sociali e ambientali.

Larry Fink, Ceo di BlackRock, il maggiore fondo di investimenti del mondo (9mila miliardi di dollari gestiti, compresi quelli dei fondi pensione di milioni di lavoratori), si muove da tempo secondo queste idee. Ne è stato anzi uno dei precursori. La sua “Lettera annuale agli investitori”, uno dei documenti guida dell’opinione pubblica finanziaria mondiale, ha proprio la sostenibilità come linea guida degli investimenti. E con Bill Gates sta programmando una serie di nuove iniziative sul fronte dell’energia sostenibile, seguendo le linee guida del recente libro di Gates (“Come evitare il disastro climatico”, appena pubblicato in Italia da La nave di Teseo). Adesso, pensando alle reazioni alla pandemia, Fink dice: “Il capitalismo ci ha salvati dal virus” (intervista a “la Repubblica”, di Mario Platero, 16 aprile), ricordando lo sforzo straordinario per arrivare in tempi brevi ai vaccini (una collaborazione tra ricerca scientifica e produzione industriale) ma anche le relazioni virtuose per fare fronte ai nuovi problemi della comunicazione tra le persone, del lavoro, della distribuzione di prodotti e servizi in tempi di malattia, clausura, mobilità ridotta. Auspica “una globalizzazione equilibrata”. E un’economia attenta ai profitti, certo, impegnata a rischiare e innovare, ma anche a tenere in primo piano i temi della solidarietà. E dunque sensibile soprattutto agli interessi e ai valori degli stakeholders , i lavoratori, i consumatori, le comunità, la società civile.

C’è un’altra testimonianza su cui vale la pena riflettere, a proposito di globalizzazione positiva e di sostenibilità sociale, di inclusione e di confronto tra culture diverse. Ed è quella di Albert Bourla, presidente e amministratore delegato di Pfizer (intervista a Federico Fubini del “Corriere della Sera”, 16 aprile): l’esperienza che ha portato al vaccino Pfizer “è un messaggio meraviglioso al mondo: un ebreo greco a capo di una multinazionale americana e i responsabili di BioNTech, turchi musulmani immigrati in Germania, collaborano senza nemmeno un contratto, per salvare il mondo. Il fatto di essere un immigrato penso sia la caratteristica più importante. In Pfizer con i miei figli abbiamo vissuto in otto città diverse di cinque Paesi. Questo ci ha dato il regalo più bello: essere esposti a culture diverse”.

La sostenibilità è una condizione dialogante. Particolarmente favorita dalle culture democratiche e di mercato. Anche in questo caso, vale la pena riprendere in mano i classici, per ritrovarne radici e conferme. Per esempio, nelle pagine della “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di John Maynard Keynes: “I sistemi statali autoritari odierni sembrano risolvere il problema della disoccupazione a spese dell’efficienza e della libertà. Quello che è certo è che il mondo non potrà sopportare ancora per molto una disoccupazione che, salvo alcuni momenti di euforia, è associata – e, a mio avviso, inevitabilmente associata – all’individualismo capitalistico di oggi. Ma è possibile invece, con una corretta analisi del problema, curare la malattia preservando, nello stesso tempo, l’efficienza e la libertà”.

Keynes morì giusto 75 anni fa, il 21 aprile. Il suo pensiero ha profondamente influenzato il dibattito politico ed economico della seconda metà del Novecento. In tempi di centralità crescente della sostenibilità, soprattutto sul piano sociale, ha ancora molto da dirci.

Luoghi d’impresa

Una raccolta di racconti-reportages descrive il passato e il presente di alcuni spazi industriali italiani

Il presente che si nutre anche del passato e che, anzi, di questo fa buona scorta per guardare al futuro. E luoghi – fabbriche, uffici, spazi -, che sono stati un tempo vivi e che oggi lo sono ancora, ma in altro modo. La cultura industriale italiana che voglia davvero dirsi tale, deve rifarsi anche a questo. Senza rimpianti e senza nostalgie, ma con grande obiettività (e forse un pizzico di riconoscenza). E’ questa una delle possibili chiavi di lettura di “Le fabbriche che costruirono l’Italia”, bellissimo libro di Giuseppe Lupo, nato dalla raccolta di una serie di reportages nati in giro per il Paese a raccontare, come dice lo stesso titolo, le fabbriche che hanno dato vita alla società italiana di oggi.

Il viaggio letterario di Lupo –  viaggio anche reale perché condotto tra il luglio e il settembre del 2019 -, propone, attraverso il racconto di alcuni luoghi simbolici, un’idea di modernità vissuta che non può essere dimenticata. L’autore racconta, in capitoli brevi e leggibilissimi tutti, i luoghi dell’industria a Settimo Torinese, Genova, Arese, Rescaldina, Sesto San Giovanni, Bagnoli, Pozzuoli, Torviscosa, Porto Marghera, Ivrea, Terni, Valdagno, Torino. Ogni luogo corrisponde ad un nome d’impresa che ha fatto la storia industriale nazionale e che, molto spesso, è ancora sulla ribalta dell’economia. Lupo racconta così di fabbriche ancora in funzione e altre dismesse, descrive autogrill, villaggi operai, strutture urbanistiche, aree abbandonate. E lo fa affidandosi a due strumenti insostituibili: ciò che vede e ciò che la cultura del Novecento ha prodotto. Tutto arricchito da una sensibilità raffinata che non cede nulla alla retorica.

Ne deriva una lettura che solo in apparenza è facile, ma che in realtà tocca temi complessi e difficili, che punta il dito contro le “dimenticanze” di molti e ricorda, di contro, la necessità di non perdere una storia che è utile ancora oggi a tutti. Lupo, così, recupera non solo dimensioni fisiche, economiche e produttive, ma anche, come lui stesso scrive, una “dimensione morale” che non può essere in alcun modo persa. Ne emerge l’identità di un’Italia che è stata capace in breve tempo di farsi moderna.

Lupo scrive bene e si fa leggere: scrive da giornalista vero, capace di farsi capire, e da letterato autentico, capace di trasmettere il senso profondo di luoghi di vita pressoché unici. Tutto da leggere.

 

 

Le fabbriche che costruirono l’Italia

Giuseppe Lupo

Il Sole 24 Ore, 2020

Una raccolta di racconti-reportages descrive il passato e il presente di alcuni spazi industriali italiani

Il presente che si nutre anche del passato e che, anzi, di questo fa buona scorta per guardare al futuro. E luoghi – fabbriche, uffici, spazi -, che sono stati un tempo vivi e che oggi lo sono ancora, ma in altro modo. La cultura industriale italiana che voglia davvero dirsi tale, deve rifarsi anche a questo. Senza rimpianti e senza nostalgie, ma con grande obiettività (e forse un pizzico di riconoscenza). E’ questa una delle possibili chiavi di lettura di “Le fabbriche che costruirono l’Italia”, bellissimo libro di Giuseppe Lupo, nato dalla raccolta di una serie di reportages nati in giro per il Paese a raccontare, come dice lo stesso titolo, le fabbriche che hanno dato vita alla società italiana di oggi.

Il viaggio letterario di Lupo –  viaggio anche reale perché condotto tra il luglio e il settembre del 2019 -, propone, attraverso il racconto di alcuni luoghi simbolici, un’idea di modernità vissuta che non può essere dimenticata. L’autore racconta, in capitoli brevi e leggibilissimi tutti, i luoghi dell’industria a Settimo Torinese, Genova, Arese, Rescaldina, Sesto San Giovanni, Bagnoli, Pozzuoli, Torviscosa, Porto Marghera, Ivrea, Terni, Valdagno, Torino. Ogni luogo corrisponde ad un nome d’impresa che ha fatto la storia industriale nazionale e che, molto spesso, è ancora sulla ribalta dell’economia. Lupo racconta così di fabbriche ancora in funzione e altre dismesse, descrive autogrill, villaggi operai, strutture urbanistiche, aree abbandonate. E lo fa affidandosi a due strumenti insostituibili: ciò che vede e ciò che la cultura del Novecento ha prodotto. Tutto arricchito da una sensibilità raffinata che non cede nulla alla retorica.

Ne deriva una lettura che solo in apparenza è facile, ma che in realtà tocca temi complessi e difficili, che punta il dito contro le “dimenticanze” di molti e ricorda, di contro, la necessità di non perdere una storia che è utile ancora oggi a tutti. Lupo, così, recupera non solo dimensioni fisiche, economiche e produttive, ma anche, come lui stesso scrive, una “dimensione morale” che non può essere in alcun modo persa. Ne emerge l’identità di un’Italia che è stata capace in breve tempo di farsi moderna.

Lupo scrive bene e si fa leggere: scrive da giornalista vero, capace di farsi capire, e da letterato autentico, capace di trasmettere il senso profondo di luoghi di vita pressoché unici. Tutto da leggere.

 

 

Le fabbriche che costruirono l’Italia

Giuseppe Lupo

Il Sole 24 Ore, 2020

Quale sostenibilità d’impresa

Un buon libro fornisce gli elementi conoscitivi essenziali per capire un tema complesso e mutevole

L’impresa come “volano di una cultura della sostenibilità” capace di toccare tutti gli aspetti del vivere civile. L’obiettivo non è facile da raggiungere, ma è possibile. Ed è attorno al percorso per raggiungere questo traguardo che ragiona Chiara Mio, professoressa ordinaria di Economia aziendale all’Università Ca’ Foscari di Venezia oltre che componente di una serie di consigli di amministrazione.

Mio con il suo “L’azienda sostenibile” riesce in un numero contenuto di pagine a condensare quanto è stato raggiunto in tema di sostenibilità collegata al fare impresa. Con un assunto di base: il rispetto delle persone e dell’ambiente deve essere al centro dell’impresa che guarda al futuro. Una condizione che coinvolge tutti gli attori del sistema sociale e produttivo, comprese, quindi, le istituzioni così come i singoli lavoratori.

L’indagine parte quindi dal chiarire cosa si debba intendere per sostenibilità e continua poi dichiarando come sia “convinzione dell’autrice (…), che le imprese possano agire, in questo periodo storico, da vero e proprio motore della transizione verso la sostenibilità”.

La struttura del libro prevede quindi cinque capitoli. Nel primo sono affrontati i  concetti base che riguardano la sostenibilità nella prospettiva economico-aziendale. Nel secondo capitolo è analizzato il ruolo dello Stato quale veicolo “dei principi e degli obiettivi della sostenibilità”, oltre che della “ricerca di migliori modalità di svolgimento dei processi economici da parte delle imprese attraverso i modelli di business”. Si passa poi ad esaminare il “potenziale contributo dei consumatori allo sviluppo sostenibile”. Nel quarto capitolo, invece, viene effettuata una sintesi dell’economia circolare per arrivare poi al quinto capitolo che prende in considerazione la “finanza sostenibile” oltre che gli indicatori economico-finanziari per una corretta individuazione della sostenibilità d’impresa.

Ogni capitolo – ed è uno dei tratti interessanti del libro -, oltre agli aspetti teorici contiene anche “casi” reali come quelli di Erg, OVS, Treedom, Alessi, Unilever Italia, Piovan, Unipol.

Quanto scritto da Chiara Mio è una lettura utile per tutti quelli che hanno bisogno di avere idee chiare e affidabili su un tema complesso e mutevole. Da leggere e annotare.

L’azienda sostenibile

Chiara Mio

Laterza, 2021

Un buon libro fornisce gli elementi conoscitivi essenziali per capire un tema complesso e mutevole

L’impresa come “volano di una cultura della sostenibilità” capace di toccare tutti gli aspetti del vivere civile. L’obiettivo non è facile da raggiungere, ma è possibile. Ed è attorno al percorso per raggiungere questo traguardo che ragiona Chiara Mio, professoressa ordinaria di Economia aziendale all’Università Ca’ Foscari di Venezia oltre che componente di una serie di consigli di amministrazione.

Mio con il suo “L’azienda sostenibile” riesce in un numero contenuto di pagine a condensare quanto è stato raggiunto in tema di sostenibilità collegata al fare impresa. Con un assunto di base: il rispetto delle persone e dell’ambiente deve essere al centro dell’impresa che guarda al futuro. Una condizione che coinvolge tutti gli attori del sistema sociale e produttivo, comprese, quindi, le istituzioni così come i singoli lavoratori.

L’indagine parte quindi dal chiarire cosa si debba intendere per sostenibilità e continua poi dichiarando come sia “convinzione dell’autrice (…), che le imprese possano agire, in questo periodo storico, da vero e proprio motore della transizione verso la sostenibilità”.

La struttura del libro prevede quindi cinque capitoli. Nel primo sono affrontati i  concetti base che riguardano la sostenibilità nella prospettiva economico-aziendale. Nel secondo capitolo è analizzato il ruolo dello Stato quale veicolo “dei principi e degli obiettivi della sostenibilità”, oltre che della “ricerca di migliori modalità di svolgimento dei processi economici da parte delle imprese attraverso i modelli di business”. Si passa poi ad esaminare il “potenziale contributo dei consumatori allo sviluppo sostenibile”. Nel quarto capitolo, invece, viene effettuata una sintesi dell’economia circolare per arrivare poi al quinto capitolo che prende in considerazione la “finanza sostenibile” oltre che gli indicatori economico-finanziari per una corretta individuazione della sostenibilità d’impresa.

Ogni capitolo – ed è uno dei tratti interessanti del libro -, oltre agli aspetti teorici contiene anche “casi” reali come quelli di Erg, OVS, Treedom, Alessi, Unilever Italia, Piovan, Unipol.

Quanto scritto da Chiara Mio è una lettura utile per tutti quelli che hanno bisogno di avere idee chiare e affidabili su un tema complesso e mutevole. Da leggere e annotare.

L’azienda sostenibile

Chiara Mio

Laterza, 2021

Cultura dell’impresa sostenibile

Una tesi discussa presso l’Università di Pisa ragiona e sull’economia circolare e sulle sue concrete possibilità di realizzazione

 

Responsabilità d’impresa anche dal punto di vista ambientale. Questione spinosa e non completamente risolta. E che quindi va sempre affrontata con attenzione. E’ questo che fa Stefano Merciadri con il suo lavoro di tesi “Il ruolo delle imprese verso uno sviluppo sostenibile: analisi di eccellenze italiane e strategia “Rifiuti Zero”” discusso recentemente nell’ambito del corso di studi Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane presso l’Università di Pisa.

L’indagine di Merciadri ha un obiettivo: dimostrare come, partendo dalle imprese e da nuove prospettive economiche, sia possibile invertire la rotta del rapporto negativo tra impresa e ambiente ripristinando un rapporto positivo con il secondo e, al tempo stesso, garantire il benessere delle generazioni future.

L’autore, inizia quindi con l’esaminare i concetti fondamentali sui quali si basa l’indagine: dalla sostenibilità alla green economy fino ad aspetti strettamente organizzativi come la strategia aziendale e la responsabilità sociale d’impresa. Particolare attenzione viene quindi posta alla strategia nota come “Rifiuti Zero”. La ricerca poi approfondisce da un lato le modalità organizzative delle imprese attive nella green economy e, dall’altro, le relazioni che queste creano con i portatori di interessi e i clienti. E’ in questo passaggio della ricerca che viene sottolineata “l’importanza della cultura organizzativa nel trasmettere i nuovi ideali green nei vari livelli gerarchici”. L’indagine si conclude con l’approfondimento delle contraddizioni insite nel modello di sviluppo fondato sull’idea di illimitatezza delle risorse e sull’economia lineare. Per meglio caratterizzare i passaggi fondamentali della ricerca, Merciadri usa anche i casi di alcune imprese particolarmente impegnate nella sostenibilità: Contarina Spa, Alia Servizi Ambientali Spa, ASCIT Spa, Sea Risorse Spa.

Scrive l’autore nelle conclusioni: “In tutte le aziende considerate ho trovato dei fattori di successo. Il primo da evidenziare è rappresentato dalla comunicazione e dalla cultura organizzativa. (…) Un altro aspetto di assoluto rilievo nel perseguire la sostenibilità è dato dalla progettazione e realizzazione di impianti d’avanguardia”. Ciò che più conta, tuttavia, è la dimostrazione della possibilità di effettuare un salto di livello della cultura d’impresa verso una maggiore pervasività dei principi dell’economia circolare e della sostenibilità ambientale.

Il ruolo delle imprese verso uno sviluppo sostenibile: analisi di eccellenze italiane e strategia “Rifiuti Zero”

Stefano Merciadri

Tesi, Università degli studi di Pisa, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2021

Una tesi discussa presso l’Università di Pisa ragiona e sull’economia circolare e sulle sue concrete possibilità di realizzazione

 

Responsabilità d’impresa anche dal punto di vista ambientale. Questione spinosa e non completamente risolta. E che quindi va sempre affrontata con attenzione. E’ questo che fa Stefano Merciadri con il suo lavoro di tesi “Il ruolo delle imprese verso uno sviluppo sostenibile: analisi di eccellenze italiane e strategia “Rifiuti Zero”” discusso recentemente nell’ambito del corso di studi Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane presso l’Università di Pisa.

L’indagine di Merciadri ha un obiettivo: dimostrare come, partendo dalle imprese e da nuove prospettive economiche, sia possibile invertire la rotta del rapporto negativo tra impresa e ambiente ripristinando un rapporto positivo con il secondo e, al tempo stesso, garantire il benessere delle generazioni future.

L’autore, inizia quindi con l’esaminare i concetti fondamentali sui quali si basa l’indagine: dalla sostenibilità alla green economy fino ad aspetti strettamente organizzativi come la strategia aziendale e la responsabilità sociale d’impresa. Particolare attenzione viene quindi posta alla strategia nota come “Rifiuti Zero”. La ricerca poi approfondisce da un lato le modalità organizzative delle imprese attive nella green economy e, dall’altro, le relazioni che queste creano con i portatori di interessi e i clienti. E’ in questo passaggio della ricerca che viene sottolineata “l’importanza della cultura organizzativa nel trasmettere i nuovi ideali green nei vari livelli gerarchici”. L’indagine si conclude con l’approfondimento delle contraddizioni insite nel modello di sviluppo fondato sull’idea di illimitatezza delle risorse e sull’economia lineare. Per meglio caratterizzare i passaggi fondamentali della ricerca, Merciadri usa anche i casi di alcune imprese particolarmente impegnate nella sostenibilità: Contarina Spa, Alia Servizi Ambientali Spa, ASCIT Spa, Sea Risorse Spa.

Scrive l’autore nelle conclusioni: “In tutte le aziende considerate ho trovato dei fattori di successo. Il primo da evidenziare è rappresentato dalla comunicazione e dalla cultura organizzativa. (…) Un altro aspetto di assoluto rilievo nel perseguire la sostenibilità è dato dalla progettazione e realizzazione di impianti d’avanguardia”. Ciò che più conta, tuttavia, è la dimostrazione della possibilità di effettuare un salto di livello della cultura d’impresa verso una maggiore pervasività dei principi dell’economia circolare e della sostenibilità ambientale.

Il ruolo delle imprese verso uno sviluppo sostenibile: analisi di eccellenze italiane e strategia “Rifiuti Zero”

Stefano Merciadri

Tesi, Università degli studi di Pisa, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2021

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