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Le parole forti, seducenti e ambigue svelano il senso di crisi e pandemia

“Adesso si comincia. Ci mutiamo”, prescrive seria l’organizzatrice del dibattito su Zoom, d’un webinar, come s’usa dire. “Ci mutiamo? In cosa?”, ribatte il partecipante anziano, con acidula ironia. Qualcuno sorride, mentre tutti comunque cliccano sull’icona del mute.

Dettagli della quotidianità di questi tempi difficili di pandemia, con le cautele, i distanziamenti e le clausure (tutti dicono lockdown), di vita digitale e di legami che comunque siamo riusciti a mantenere, tra riunioni a distanza, lezioni in video e lavoro da casa (tutti dicono smart working, anche se di smart molto spesso questo modo di lavorare ha ben poco). Ma perché, proprio nel tempo della malattia, della recessione, del dolore dei lutti e della paura per l’occupazione e i redditi, vale la pena di occuparsi delle parole? Perché ragionare sul mute ma anche sui mutamenti?

Viviamo di parole. Siamo fatti delle nostre stesse parole che pronunciamo, leggiamo, scriviamo, ascoltiamo, ricordiamo. Le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino delle donne e degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Nominando, danno un senso ai fatti e alle cose.

Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i romani, gente pratica. Ma sono anche altro, al di là della denotazione della realtà. Lo strumento del potere, soprattutto, con una forza straordinaria. La leva della politica. “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in battaglia”, dice lord Halifax, l’avversario più tenace dello statista britannico, dopo il discorso che trascina i parlamentari a bocciare ogni idea di trattativa con i nazisti di Hitler, ne “L’ora più buia” d’una Londra ferita dai bombardamenti tedeschi e minacciata dall’invasione (“L’ora più buia” è appunto il titolo d’un gran bel film di Joe Wright, interpretato da uno straordinario Gary Oldman).

Le parole abitano “La voce delle sirene”, per usare il titolo d’un arguto libro di Laura Pepe, professoressa all’Università Statale di Milano su “i greci e l’arte della persuasione”, Laterza: “Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e fare breccia nel cuore di chi le ascolta”.

I greci costruiscono la lingua dei filosofi e dei poeti, degli scienziati e dei grandi narratori. Fanno vivere, in parole, concetti astratti e formidabili miti che fondano civiltà di cui ancora oggi, per fortuna, portiamo il segno. E la loro sapienza ci aiuta a vivere, a progettare, a fare e a raccontare. Insiste Laura Pepe: “Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma soprattutto, di ingannare e di illudere”.

Le parole sono pietre, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma sono pure ambigue, duttili, scivolose. Tagliano, lasciando il segno. E distraggono, sviano, tradiscono. Ulisse, che di quest’attitudine è astuto maestro, si fa legare all’albero della nave, per non cedere alla malia delle Sirene.

Le parole, insomma, sono salvifiche, divine. E pericolose. Vanno dunque usate con cautela. E con conoscenza. La parole vanno rispettate.

Ecco perché, proprio in tempi incerti e sdrucciolevoli, è necessario anche concentrarsi sulle parole. E imparare a usarle. Una questione di civiltà. E, in fin dei conti, di buon uso della Retorica, come sapevano bene Aristotele e poi Cicerone. E cioè di democrazia (ai dittatori e agli impostori, le parole libere e critiche non piacciono affatto). Una questione di responsabilità.

“Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”, sostiene Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la Letteratura nel 1990. E, ancora più netto: “Un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”. La sua è una lezione culturale e civile che ancora risuona.

Le parole, è vero, risentono dei cambiamenti del tempo. E la lingua è un meccanismo mobile, che si evolve, come ci hanno insegnato Antonio Gramsci, don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini e Tullio De Mauro. Ma l’evoluzione è tutt’altro che il degrado d’una lingua e la sua riduzione a stereotipi e banalità.

La lingua è un prodotto meticcio, risente di altre lingue, ne incorpora vocaboli e strutture sintattiche, costruisce così forme espressive nuove. Ha una natura open source. E contemporaneamente ha un’identità forte, radicata ma anche mobile e molteplice, come tutte le identità aperte e fertili, peraltro. Quell’identità va dunque conosciuta, studiata, seguita con accortezza. Tra la modifica e la corruzione d’una lingua, c’è differenza.

Nell’anno del settimo centenario di Dante, rileggerlo significa vale ragionare sulla lingua (proprio lui ne era stato uno straordinario innovatore) e sulle evoluzioni, ma stando attenti a non cadere nella trappola banale degli adattamenti scarsi di senso e funzione. Meglio il racconto, d’uno storytelling. Meglio consegnare, che “deliverare”.

Mario Draghi, uomo d’esperienza e di cultura internazionale, un ottimo ed elegante uso dell’inglese, ha ammonito anche lui sull’ossessione linguistica di far finta di parlare inglese, soprattutto nei gerghi delle tecnologie digitali e dell’economia, adulterando l’italiano.

Così, vale davvero la pena provare a stare in silenzio, senza “mutarsi”. E imparare a costruire e nominare meglio i cambiamenti.

“Adesso si comincia. Ci mutiamo”, prescrive seria l’organizzatrice del dibattito su Zoom, d’un webinar, come s’usa dire. “Ci mutiamo? In cosa?”, ribatte il partecipante anziano, con acidula ironia. Qualcuno sorride, mentre tutti comunque cliccano sull’icona del mute.

Dettagli della quotidianità di questi tempi difficili di pandemia, con le cautele, i distanziamenti e le clausure (tutti dicono lockdown), di vita digitale e di legami che comunque siamo riusciti a mantenere, tra riunioni a distanza, lezioni in video e lavoro da casa (tutti dicono smart working, anche se di smart molto spesso questo modo di lavorare ha ben poco). Ma perché, proprio nel tempo della malattia, della recessione, del dolore dei lutti e della paura per l’occupazione e i redditi, vale la pena di occuparsi delle parole? Perché ragionare sul mute ma anche sui mutamenti?

Viviamo di parole. Siamo fatti delle nostre stesse parole che pronunciamo, leggiamo, scriviamo, ascoltiamo, ricordiamo. Le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino delle donne e degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Nominando, danno un senso ai fatti e alle cose.

Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i romani, gente pratica. Ma sono anche altro, al di là della denotazione della realtà. Lo strumento del potere, soprattutto, con una forza straordinaria. La leva della politica. “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in battaglia”, dice lord Halifax, l’avversario più tenace dello statista britannico, dopo il discorso che trascina i parlamentari a bocciare ogni idea di trattativa con i nazisti di Hitler, ne “L’ora più buia” d’una Londra ferita dai bombardamenti tedeschi e minacciata dall’invasione (“L’ora più buia” è appunto il titolo d’un gran bel film di Joe Wright, interpretato da uno straordinario Gary Oldman).

Le parole abitano “La voce delle sirene”, per usare il titolo d’un arguto libro di Laura Pepe, professoressa all’Università Statale di Milano su “i greci e l’arte della persuasione”, Laterza: “Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e fare breccia nel cuore di chi le ascolta”.

I greci costruiscono la lingua dei filosofi e dei poeti, degli scienziati e dei grandi narratori. Fanno vivere, in parole, concetti astratti e formidabili miti che fondano civiltà di cui ancora oggi, per fortuna, portiamo il segno. E la loro sapienza ci aiuta a vivere, a progettare, a fare e a raccontare. Insiste Laura Pepe: “Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma soprattutto, di ingannare e di illudere”.

Le parole sono pietre, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma sono pure ambigue, duttili, scivolose. Tagliano, lasciando il segno. E distraggono, sviano, tradiscono. Ulisse, che di quest’attitudine è astuto maestro, si fa legare all’albero della nave, per non cedere alla malia delle Sirene.

Le parole, insomma, sono salvifiche, divine. E pericolose. Vanno dunque usate con cautela. E con conoscenza. La parole vanno rispettate.

Ecco perché, proprio in tempi incerti e sdrucciolevoli, è necessario anche concentrarsi sulle parole. E imparare a usarle. Una questione di civiltà. E, in fin dei conti, di buon uso della Retorica, come sapevano bene Aristotele e poi Cicerone. E cioè di democrazia (ai dittatori e agli impostori, le parole libere e critiche non piacciono affatto). Una questione di responsabilità.

“Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”, sostiene Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la Letteratura nel 1990. E, ancora più netto: “Un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”. La sua è una lezione culturale e civile che ancora risuona.

Le parole, è vero, risentono dei cambiamenti del tempo. E la lingua è un meccanismo mobile, che si evolve, come ci hanno insegnato Antonio Gramsci, don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini e Tullio De Mauro. Ma l’evoluzione è tutt’altro che il degrado d’una lingua e la sua riduzione a stereotipi e banalità.

La lingua è un prodotto meticcio, risente di altre lingue, ne incorpora vocaboli e strutture sintattiche, costruisce così forme espressive nuove. Ha una natura open source. E contemporaneamente ha un’identità forte, radicata ma anche mobile e molteplice, come tutte le identità aperte e fertili, peraltro. Quell’identità va dunque conosciuta, studiata, seguita con accortezza. Tra la modifica e la corruzione d’una lingua, c’è differenza.

Nell’anno del settimo centenario di Dante, rileggerlo significa vale ragionare sulla lingua (proprio lui ne era stato uno straordinario innovatore) e sulle evoluzioni, ma stando attenti a non cadere nella trappola banale degli adattamenti scarsi di senso e funzione. Meglio il racconto, d’uno storytelling. Meglio consegnare, che “deliverare”.

Mario Draghi, uomo d’esperienza e di cultura internazionale, un ottimo ed elegante uso dell’inglese, ha ammonito anche lui sull’ossessione linguistica di far finta di parlare inglese, soprattutto nei gerghi delle tecnologie digitali e dell’economia, adulterando l’italiano.

Così, vale davvero la pena provare a stare in silenzio, senza “mutarsi”. E imparare a costruire e nominare meglio i cambiamenti.

“L’architettura pubblicitaria” nelle fiere degli anni Cinquanta

La partecipazione di Pirelli a esposizioni e fiere per la presentazione dei propri prodotti risale alle origini della sua storia. All’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, quando l’azienda non ha ancora compiuto dieci anni di attività, seguono le partecipazioni a fiere in tutto il mondo: da Parigi (1900) a Osaka (1903), da Saint Louis (1904) a Buenos Aires (1910). Se anche in queste fiere di primo Novecento non mancano le sperimentazioni allestitive, come la gigantografia dell’uscita delle maestranze realizzata dal fotografo Luca Comerio per l’esposizione del Sempione del 1906, è negli anni Cinquanta che l’architettura fieristica sperimenta soluzioni davvero innovative, affidate a grandi nomi dell’architettura in collaborazione con grandi autori della grafica. A partire dal 1948, con la consulenza di Leonardo Sinisgalli, la Pirelli riprende l’attività pubblicitaria, nelle sue diverse manifestazioni. Tra queste, le fiere rivestono un ruolo importante  nella presentazione, a livello internazionale, dei numerosi prodotti dell’azienda, come testimoniano le tante fotografie conservate nel nostro Archivio Storico e consultabili on line. Tra le prime partecipazioni del dopoguerra, degno di nota è lo stand Pirelli realizzato nel 1951 alla Fiera Campionaria di Milano, che riapriva i battenti dopo la ricostruzione in seguito ai bombardamenti del 1943. Se l’ideazione è molto probabilmente dovuta a Sinisgalli, la progettazione architettonica dello stand viene affidata a Luigi Gargantini, che realizza un “castello pubblicitario”, come lo definisce la rivista Domus sul numero di luglio-agosto 1951: un’installazione dove non è esposto alcun prodotto ma sono mostrate solo le pubblicità realizzate dalla Pirelli nel corso della sua storia, riprodotte su cubi e parallelepipedi ancorati a pali all’interno di una struttura aperta su quattro lati. “Raramente un prodotto della vita moderna ha trovato altrettanta eleganza di esposizione” – afferma Vittorio Bonicelli nell’articolo “Architettura pubblicitaria” sulla Rivista Pirelli – “Ma non è tanto questo che conta […]: piuttosto l’equilibrio dei vuoti e dei pieni, e come lo spazio, la luce, il colore abbiano un posto ben preciso, immutabile. Tutto ciò significa stile”, conclude Bonicelli.

Nel corso degli anni Cinquanta, quando, dopo l’uscita di Leonardo Sinisgalli, la Propaganda Pirelli passa sotto la guida di Arrigo Castellani, il fenomeno delle fiere cresce a dismisura, sia per numero di visitatori, sia come luogo di sperimentazione architettonica. Gli allestimenti sono sempre più spettacolari per soddisfare il desiderio del pubblico di “un po’ di  fantascienza e un po’ di luna park” come afferma Francesco Mafera nell’articolo per la Rivista Pirelli Settantacinque fiere in un anno, nel quale l’autore si interroga sull’opportunità della grandiosità e del costo di alcuni stand fieristici di quegli anni. Come esempio di allestimento “sensazionale” viene mostrata nell’articolo la struttura progettata dall’architetto Roberto Menghi per la Fiera Campionaria del 1955: una piscina pensile, frutto della collaborazione tra Pirelli e il Comitato organizzativo della Fiera, realizzata con una gabbia in cemento armato dalle pareti di cristallo, sorretta da dieci piedistalli, nella quale i sommozzatori del Gruppo Sportivo Pirelli danno una dimostrazione dell’utilizzo dei prodotti dell’azienda per il mare. Tra i padiglioni spettacolari ricordiamo anche quello allestito dalla Pirelli alla Fiera del Levante di Bari dello stesso anno: una vera e propria opera ingegneristica affidata ancora una volta a Luigi Gargantini con la supervisione dell’ingegnere Giuseppe Valtolina. Un enorme pneumatico da trattore del diametro di 16 metri e del peso 20 tonnellate è posto in equilibrio su una mensola posizionata a sbalzo sulla via principale della Fiera, a sovrastare il passaggio del pubblico e a significare la forza del contributo dato da Pirelli allo sviluppo del Mezzogiorno. Notevoli gli accorgimenti tecnici sia per mantenere in equilibrio la struttura sotto la spinta del vento, sia per ottenere le eccezionali dimensioni della ruota. Anche a questo allestimento viene dedicato un articolo dalla Rivista Pirelli, che ne esalta il valore architettonico,  risultato “dal contrasto fra le strutture della mensola semplice, lineare […] e la gonfia rotondità plastica del pneumatico con la girandola del suo battistrada molto marcato”. Intorno alla struttura i prodotti Pirelli per l’agricoltura vengono presentati a cura di Pino Tovaglia, con “un gioco decorativo a forte risalto plastico”.

Degni di nota in questi anni sono anche alcuni esempi di allestimenti meno spettacolari, ma caratterizzati da un’elevata qualità nel design. È il caso della Fiera del Ciclo e del Motociclo del 1956, dove la Pirelli presenta i propri prodotti con un progetto firmato da Franco Albini e Franca Helg, con il contributo di Pino Tovaglia. Lo stand ricostruisce la storia della bicicletta con la presentazione di pezzi storici all’interno di una struttura che ricorda la forma di una grande ruota. Un pilastro al centro sostiene quattro telai radiali con le grafiche di Tovaglia, al di sotto dei quali sono disposti i pneumatici e gli accessori per bici e motociclette che hanno fatto la storia del trasporto su due ruote. Un allestimento caratterizzato dal razionalismo e dal rigore tipici di Franco Albini, che viene salutato dalla rivista Ciclismo come lo stand “più commovente, più poetico, il più grande inno alla bicicletta che grande o piccola ditta (e questa è grandissima, inarrivabile) ebbero mai dedicato alla regina della strada”.

Tra i nomi coinvolti nella progettazione delle fiere in questi anni e nei successivi anni Sessanta anche Erberto Carboni, Bruno Munari, Bob Noorda, oltre a Renato Guttuso, autore dello straordinario mosaico esposto nel padiglione progettato per Pirelli da Franco Albini e Franca Helg per l’Esposizione Internazionale del Lavoro  a Torino nel 1961, dedicato alla ricerca scientifica e oggi esposto presso la Fondazione Pirelli.

La partecipazione di Pirelli a esposizioni e fiere per la presentazione dei propri prodotti risale alle origini della sua storia. All’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, quando l’azienda non ha ancora compiuto dieci anni di attività, seguono le partecipazioni a fiere in tutto il mondo: da Parigi (1900) a Osaka (1903), da Saint Louis (1904) a Buenos Aires (1910). Se anche in queste fiere di primo Novecento non mancano le sperimentazioni allestitive, come la gigantografia dell’uscita delle maestranze realizzata dal fotografo Luca Comerio per l’esposizione del Sempione del 1906, è negli anni Cinquanta che l’architettura fieristica sperimenta soluzioni davvero innovative, affidate a grandi nomi dell’architettura in collaborazione con grandi autori della grafica. A partire dal 1948, con la consulenza di Leonardo Sinisgalli, la Pirelli riprende l’attività pubblicitaria, nelle sue diverse manifestazioni. Tra queste, le fiere rivestono un ruolo importante  nella presentazione, a livello internazionale, dei numerosi prodotti dell’azienda, come testimoniano le tante fotografie conservate nel nostro Archivio Storico e consultabili on line. Tra le prime partecipazioni del dopoguerra, degno di nota è lo stand Pirelli realizzato nel 1951 alla Fiera Campionaria di Milano, che riapriva i battenti dopo la ricostruzione in seguito ai bombardamenti del 1943. Se l’ideazione è molto probabilmente dovuta a Sinisgalli, la progettazione architettonica dello stand viene affidata a Luigi Gargantini, che realizza un “castello pubblicitario”, come lo definisce la rivista Domus sul numero di luglio-agosto 1951: un’installazione dove non è esposto alcun prodotto ma sono mostrate solo le pubblicità realizzate dalla Pirelli nel corso della sua storia, riprodotte su cubi e parallelepipedi ancorati a pali all’interno di una struttura aperta su quattro lati. “Raramente un prodotto della vita moderna ha trovato altrettanta eleganza di esposizione” – afferma Vittorio Bonicelli nell’articolo “Architettura pubblicitaria” sulla Rivista Pirelli – “Ma non è tanto questo che conta […]: piuttosto l’equilibrio dei vuoti e dei pieni, e come lo spazio, la luce, il colore abbiano un posto ben preciso, immutabile. Tutto ciò significa stile”, conclude Bonicelli.

Nel corso degli anni Cinquanta, quando, dopo l’uscita di Leonardo Sinisgalli, la Propaganda Pirelli passa sotto la guida di Arrigo Castellani, il fenomeno delle fiere cresce a dismisura, sia per numero di visitatori, sia come luogo di sperimentazione architettonica. Gli allestimenti sono sempre più spettacolari per soddisfare il desiderio del pubblico di “un po’ di  fantascienza e un po’ di luna park” come afferma Francesco Mafera nell’articolo per la Rivista Pirelli Settantacinque fiere in un anno, nel quale l’autore si interroga sull’opportunità della grandiosità e del costo di alcuni stand fieristici di quegli anni. Come esempio di allestimento “sensazionale” viene mostrata nell’articolo la struttura progettata dall’architetto Roberto Menghi per la Fiera Campionaria del 1955: una piscina pensile, frutto della collaborazione tra Pirelli e il Comitato organizzativo della Fiera, realizzata con una gabbia in cemento armato dalle pareti di cristallo, sorretta da dieci piedistalli, nella quale i sommozzatori del Gruppo Sportivo Pirelli danno una dimostrazione dell’utilizzo dei prodotti dell’azienda per il mare. Tra i padiglioni spettacolari ricordiamo anche quello allestito dalla Pirelli alla Fiera del Levante di Bari dello stesso anno: una vera e propria opera ingegneristica affidata ancora una volta a Luigi Gargantini con la supervisione dell’ingegnere Giuseppe Valtolina. Un enorme pneumatico da trattore del diametro di 16 metri e del peso 20 tonnellate è posto in equilibrio su una mensola posizionata a sbalzo sulla via principale della Fiera, a sovrastare il passaggio del pubblico e a significare la forza del contributo dato da Pirelli allo sviluppo del Mezzogiorno. Notevoli gli accorgimenti tecnici sia per mantenere in equilibrio la struttura sotto la spinta del vento, sia per ottenere le eccezionali dimensioni della ruota. Anche a questo allestimento viene dedicato un articolo dalla Rivista Pirelli, che ne esalta il valore architettonico,  risultato “dal contrasto fra le strutture della mensola semplice, lineare […] e la gonfia rotondità plastica del pneumatico con la girandola del suo battistrada molto marcato”. Intorno alla struttura i prodotti Pirelli per l’agricoltura vengono presentati a cura di Pino Tovaglia, con “un gioco decorativo a forte risalto plastico”.

Degni di nota in questi anni sono anche alcuni esempi di allestimenti meno spettacolari, ma caratterizzati da un’elevata qualità nel design. È il caso della Fiera del Ciclo e del Motociclo del 1956, dove la Pirelli presenta i propri prodotti con un progetto firmato da Franco Albini e Franca Helg, con il contributo di Pino Tovaglia. Lo stand ricostruisce la storia della bicicletta con la presentazione di pezzi storici all’interno di una struttura che ricorda la forma di una grande ruota. Un pilastro al centro sostiene quattro telai radiali con le grafiche di Tovaglia, al di sotto dei quali sono disposti i pneumatici e gli accessori per bici e motociclette che hanno fatto la storia del trasporto su due ruote. Un allestimento caratterizzato dal razionalismo e dal rigore tipici di Franco Albini, che viene salutato dalla rivista Ciclismo come lo stand “più commovente, più poetico, il più grande inno alla bicicletta che grande o piccola ditta (e questa è grandissima, inarrivabile) ebbero mai dedicato alla regina della strada”.

Tra i nomi coinvolti nella progettazione delle fiere in questi anni e nei successivi anni Sessanta anche Erberto Carboni, Bruno Munari, Bob Noorda, oltre a Renato Guttuso, autore dello straordinario mosaico esposto nel padiglione progettato per Pirelli da Franco Albini e Franca Helg per l’Esposizione Internazionale del Lavoro  a Torino nel 1961, dedicato alla ricerca scientifica e oggi esposto presso la Fondazione Pirelli.

Italia, come fare?

Un ragionamento sulle cause del declino italiano e sul possibile percorso di rilancio e sviluppo

Una Paese in declino che può risollevarsi. Un percorso virtuoso al quale è possibile (e doveroso) partecipare e nel quale istituzioni, imprese e cittadini possono avere un ruolo nuovo. E’ il messaggio positivo che arriva da “Declino Italia” di Andrea Capussela ragionamento letterario appena pubblicato in poco più di un centinaio di pagine sui mali dell’Italia e sui percorsi per risolverli.

Il succo delle tesi dell’autore – che scrive partendo dalla propria esperienza di economista sul campo e sulla base di un’analisi più vasta del Paese -, è che l’Italia sia in declino perché è organizzata in modo iniquo e inefficiente. Le rendite di pochi – viene spiegato nella presentazione del libro e nelle sue prime pagine -, comprimono le opportunità di molti e sono protette dalla tensione tra la razionalità individuale e l’interesse collettivo. Si tratta di una logica ferrea ma reversibile e che è quindi possibile cambiare rifondando delle basi di convivenza civile sulla fiducia, su aspettative (anche delle imprese) che possono essere soddisfatte e su una libertà fatta di regole condivise.

Per arrivare a delineare un orizzonte di questo genere, Capussela in qualche decina di pagine sintetizza efficacemente prima il percorso delle cause economiche e politiche del declino dell’Italia: un cammino lungo un quarto di secolo e che appare quello di un  Paese altro dalla compagine economica e sociale che è stata capace di risorgere dalla guerra e di dare vita al boom. L’autore spiega quindi che il Paese appare essere organizzato in modo meno equo ed efficiente dei suoi pari: la supremazia della legge e la responsabilità politica sono più deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini. E’ da queste condizioni che scaturisce una situazione nella quale prevale la “difesa della rendita” piuttosto che la ricerca dello sviluppo economico e dell’inclusività, una realtà che sembra pervasa da una forza dovuta alla “tensione tra la razionalità individuale e l’interesse collettivo”. Ed è da questa fotografia, tuttavia, che Capussela trae gli elementi per un rilancio, leve  che possono concretizzarsi attraverso una battaglia di idee che liberi “energie civili e risorse materiali ora sperperate”.

Il libro di Andrea Capussela non sempre appare facile da leggere, ma deve essere letto da chi voglia darsi una prospettiva diversa del presente. E, come sempre accade per i libri che fanno pensare, non è obbligatorio essere totalmente d’accordo con l’autore, mentre è obbligatorio prestargli attenzione.

Declino Italia

Andrea Capussela

Einaudi, 2021

Un ragionamento sulle cause del declino italiano e sul possibile percorso di rilancio e sviluppo

Una Paese in declino che può risollevarsi. Un percorso virtuoso al quale è possibile (e doveroso) partecipare e nel quale istituzioni, imprese e cittadini possono avere un ruolo nuovo. E’ il messaggio positivo che arriva da “Declino Italia” di Andrea Capussela ragionamento letterario appena pubblicato in poco più di un centinaio di pagine sui mali dell’Italia e sui percorsi per risolverli.

Il succo delle tesi dell’autore – che scrive partendo dalla propria esperienza di economista sul campo e sulla base di un’analisi più vasta del Paese -, è che l’Italia sia in declino perché è organizzata in modo iniquo e inefficiente. Le rendite di pochi – viene spiegato nella presentazione del libro e nelle sue prime pagine -, comprimono le opportunità di molti e sono protette dalla tensione tra la razionalità individuale e l’interesse collettivo. Si tratta di una logica ferrea ma reversibile e che è quindi possibile cambiare rifondando delle basi di convivenza civile sulla fiducia, su aspettative (anche delle imprese) che possono essere soddisfatte e su una libertà fatta di regole condivise.

Per arrivare a delineare un orizzonte di questo genere, Capussela in qualche decina di pagine sintetizza efficacemente prima il percorso delle cause economiche e politiche del declino dell’Italia: un cammino lungo un quarto di secolo e che appare quello di un  Paese altro dalla compagine economica e sociale che è stata capace di risorgere dalla guerra e di dare vita al boom. L’autore spiega quindi che il Paese appare essere organizzato in modo meno equo ed efficiente dei suoi pari: la supremazia della legge e la responsabilità politica sono più deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini. E’ da queste condizioni che scaturisce una situazione nella quale prevale la “difesa della rendita” piuttosto che la ricerca dello sviluppo economico e dell’inclusività, una realtà che sembra pervasa da una forza dovuta alla “tensione tra la razionalità individuale e l’interesse collettivo”. Ed è da questa fotografia, tuttavia, che Capussela trae gli elementi per un rilancio, leve  che possono concretizzarsi attraverso una battaglia di idee che liberi “energie civili e risorse materiali ora sperperate”.

Il libro di Andrea Capussela non sempre appare facile da leggere, ma deve essere letto da chi voglia darsi una prospettiva diversa del presente. E, come sempre accade per i libri che fanno pensare, non è obbligatorio essere totalmente d’accordo con l’autore, mentre è obbligatorio prestargli attenzione.

Declino Italia

Andrea Capussela

Einaudi, 2021

A che punto è l’impresa sociale e inclusiva?

Una indagine condotta da AICCON aiuta a capire di più e meglio di questa parte importante del sistema produttivo

Impresa sociale, ovvero un’impresa a tutti gli effetti che all’obiettivo del profitto e della buona chiusura dei bilanci accosta anche altro e, soprattutto, l’inclusione così come la coesione sociale, con un’attenzione particolare a chi può trovarsi in condizioni più deboli oppure svantaggiate.

Parte di una cultura d’impresa più completa e certamente più complessa, l’impresa sociale va conosciuta a fondo e comunque considerata al pari del resto delle organizzazioni della produzione. Per questo serve leggere il “Report 2020 Filiere Inclusive e Coesive” scritto a più mani nell’ambito delle attività di ricerca di AICCON (Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit), presso la Scuola di Economia e Management dell’Università di Bologna, sede di Forlì.

La ricerca ha l’obiettivo di rispondere all’esigenza di comprendere in profondità alcune dinamiche che attraversano il mondo delle imprese sociali e che le vedono protagoniste all’interno di processi di cambiamento e sviluppo in atto. Gli autori intendono guardare più da vicino a “filiere produttive caratterizzate da una «doppia elica» di valore”. Da un lato l’inclusione di soggetti deboli (da un punto di vista occupazionale e di accessibilità ai servizi di welfare) e la coesione sociale (attraverso la creazione di quelle che vengono indicate come «economie di luogo» che riattivano tessuti comunitari); dall’altro, le imprese sociali che si configurano sempre più come promotrici o soggetti direttamente coinvolti nel ripristino e nel rilancio di economie basate su turismo, cultura, agricoltura, educazione, formazione e altro ancora e che agiscono all’interno di sistemi economici e sociali complessi.

La raccolta di indagini, quindi, muove prima da un inquadramento teorico dell’imprenditoria sociale vista all’interno delle filiera dell’inclusione, da qui si passa poi ad una analisi della cooperazione sociale e dell’impresa sociale basate sui grandi numeri. La seconda parte delle indagini, invece, si sofferma su una serie di grandi casi studio – dell’accoglienza e dell’inclusione, del turismo, dei beni culturali, dell’agroalimentare e altri ancora -, collocati a Torino, Senigallia, Catania, Arezzo.

Gli autori tra le conclusioni scrivono: “Appare chiaro che ‘filiera’, pur con tutte le sfumature del caso, si configura, anche nel campo dell’impresa sociale, non tanto come un sinonimo di altri concetti di uso pratico come ‘rete’ e ‘catena del valore’. Rappresenta piuttosto una modalità per gestire una complessità di apporti e fattori produttivi che solo in parte si situano all’interno di uno stesso ambito organizzativo e che inoltre incide sulla missione di questa particolare tipologia d’impresa”.

Report 2020 Filiere Inclusive e Coesive

AA.VV., AICCON c/o Scuola di Economia e Management Università di Bologna, sede di Forlì, 2020

Una indagine condotta da AICCON aiuta a capire di più e meglio di questa parte importante del sistema produttivo

Impresa sociale, ovvero un’impresa a tutti gli effetti che all’obiettivo del profitto e della buona chiusura dei bilanci accosta anche altro e, soprattutto, l’inclusione così come la coesione sociale, con un’attenzione particolare a chi può trovarsi in condizioni più deboli oppure svantaggiate.

Parte di una cultura d’impresa più completa e certamente più complessa, l’impresa sociale va conosciuta a fondo e comunque considerata al pari del resto delle organizzazioni della produzione. Per questo serve leggere il “Report 2020 Filiere Inclusive e Coesive” scritto a più mani nell’ambito delle attività di ricerca di AICCON (Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit), presso la Scuola di Economia e Management dell’Università di Bologna, sede di Forlì.

La ricerca ha l’obiettivo di rispondere all’esigenza di comprendere in profondità alcune dinamiche che attraversano il mondo delle imprese sociali e che le vedono protagoniste all’interno di processi di cambiamento e sviluppo in atto. Gli autori intendono guardare più da vicino a “filiere produttive caratterizzate da una «doppia elica» di valore”. Da un lato l’inclusione di soggetti deboli (da un punto di vista occupazionale e di accessibilità ai servizi di welfare) e la coesione sociale (attraverso la creazione di quelle che vengono indicate come «economie di luogo» che riattivano tessuti comunitari); dall’altro, le imprese sociali che si configurano sempre più come promotrici o soggetti direttamente coinvolti nel ripristino e nel rilancio di economie basate su turismo, cultura, agricoltura, educazione, formazione e altro ancora e che agiscono all’interno di sistemi economici e sociali complessi.

La raccolta di indagini, quindi, muove prima da un inquadramento teorico dell’imprenditoria sociale vista all’interno delle filiera dell’inclusione, da qui si passa poi ad una analisi della cooperazione sociale e dell’impresa sociale basate sui grandi numeri. La seconda parte delle indagini, invece, si sofferma su una serie di grandi casi studio – dell’accoglienza e dell’inclusione, del turismo, dei beni culturali, dell’agroalimentare e altri ancora -, collocati a Torino, Senigallia, Catania, Arezzo.

Gli autori tra le conclusioni scrivono: “Appare chiaro che ‘filiera’, pur con tutte le sfumature del caso, si configura, anche nel campo dell’impresa sociale, non tanto come un sinonimo di altri concetti di uso pratico come ‘rete’ e ‘catena del valore’. Rappresenta piuttosto una modalità per gestire una complessità di apporti e fattori produttivi che solo in parte si situano all’interno di uno stesso ambito organizzativo e che inoltre incide sulla missione di questa particolare tipologia d’impresa”.

Report 2020 Filiere Inclusive e Coesive

AA.VV., AICCON c/o Scuola di Economia e Management Università di Bologna, sede di Forlì, 2020

In tempi di crisi e lockdown si legge di più e crescono anche le biblioteche aziendali

Le crisi, talvolta, portano cambiamenti positivi e determinano, pur tra fratture e dolore, un miglioramento di aspetti importanti della nostra vita. La pandemia, con le chiusure, i confinamenti e le restrizioni economicamente e psicologicamente così faticose, ci ha comunque fatto riscoprire il valore profondo del silenzio, della solitudine riflessiva, del tempo svuotato dalle frenesie degli incontri corrivi e del lavoro ossessivo. E ci ha spinti, tra l’altro, a leggere meglio e, soprattutto, di più.
Ecco, appunto, la rivalutazione dei libri, delle parole che raccontano storie e definiscono pensieri e mondi, rivelano emozioni, prefigurano futuro. Nei primi due mesi di quest’anno le vendite dei libri di carta sono aumentate del 25% (nei canali cosiddetti “trade” e cioè librerie, grande distribuzione e negozi online), dopo un intero 2020 in cui il fatturato dell’editoria è cresciuto del 2,3% (poco, ma comunque in rialzo). E sono aumentati anche i lettori di ebook, dal 23% al 32% della popolazione fra i 15 e i 74 anni (dati 2020, calcolando sia chi legge solo ebook sia chi, come la maggior parte delle persone, li alterna con i volumi di carta). In aumento del 12% i consumatori di audiolibri.

Si è ampliata, insomma, proprio nei mesi della pandemia, la popolazione dei lettori, passati dai 26,3 milioni del 2019 ai 27,6 milioni del 2020, anche se restiamo molto indietro rispetto al resto dell’Europa: il 61% degli italiani dichiara di aver letto un libro (carta o ebook o audiolibro) durante l’anno, mentre in Francia la percentuale è del 92% e in Gran Bretagna dell’86%. Siamo sempre un paese con scadente inclinazione alla lettura (mentre in tanti, o troppi, si cimentano a scrivere). Ma, appunto in tempi di crisi, vale la pena, più che lamentarsi di ciò che non va, sottolineare i cambiamenti positivi e cercare di capire cosa fare per migliorare ancora.

“L’editoria è cresciuta, dimostrando grande solidità”, commenta Paola Dubini, professoressa di management della cultura all’Università Bocconi. E “librerie e biblioteche hanno fatto miracoli” (“la Repubblica”, 6 aprile). Settori economici considerati sino a ieri marginali, proprio di fronte al successo dei colossi delle vendite online, Amazon innanzitutto, hanno mostrato infatti una straordinaria capacità di reazione. Dopo la prima stagione della pandemia e delle chiusure generalizzate, edicole e librerie sono state considerate, dai vari provvedimenti di governo, come esercizi commerciali necessari. E i libri hanno potuto animare i nostri giorni di chiusura. Proprio le piccole librerie, legate alle zone di radicamento, hanno risposto meglio ai bisogni di clienti conosciuti, consigliando, suggerendo e cominciando a fare consegne a domicilio, con un servizio dunque più mirato, definito “su misura” per i lettori. E le biblioteche pubbliche di quartiere sono state sempre più un punto di riferimento, soprattutto per persone sole, per anziani, per giovani e studenti in cerca di un modo di riempire la lunghezza delle giornate con qualcosa che non fosse una serie Tv. Il ritorno dei libri, appunto.

Sono nate anche nuove iniziative, come le biblioteche di condominio, a cominciare da Milano, dove nel 2013 era stata inaugurata la prima, in via Rembrandt n.12, ben presto diventata esempio di tante altre iniziative, seguita dalla biblioteca di via Russoli n. 18 tra quattro torri di edilizia popolare e dalla Biblioteca di condominio Aler “Falcone e Borsellino”, sino al successo di una dozzina di altre attività celebrate come “buone pratiche” culturali e civili durante il Milano BookCity del 2020 e collegate, per servizi e consulenze, con l’efficiente Sistema bibliotecario del Comune. E per finire a Palermo, proprio nel palazzo davanti al quale sorge “l’albero Falcone”, un simbolo della civiltà antimafia cittadina.

In crescita anche le biblioteche aziendali (come quelle Pirelli: “La cultura come il pane”, c’è scritto su un grande pannello all’ingresso della libreria nell’Headquarters in Bicocca), rimaste parzialmente aperte pure in tempi di smart working e fatte vivere con incontri digitali e webinar con gli scrittori.
Proprio dal mondo dell’impresa viene un’altra iniziativa degna di rilievo: un book club aziendale alla Vanoncini di Mapello, in provincia di Bergamo (azienda specializzata in edilizia sostenibile, quasi 30 milioni di euro di fatturato) con un bonus di 100 euro per il dipendente che legge un libro e lo presenta ai colleghi, in due incontri programmati ogni mese L’iniziativa funziona e si diffonde tra i dipendenti, racconta Danilo Dadda, amministratore delegato (“Avvenire”, 3 aprile): “Credo fortemente nel valore della cultura e della formazione. Sono il primo che s’impegna a leggere e a studiare. A volte, la stanchezza o forse la pigrizia allontanano dalla lettura. E così ho pensato di incentivare i miei collaboratori a leggere”. Di libro in libro, di discorso in discorso, migliora il mondo del lavoro. E migliora la vita.

Le crisi, talvolta, portano cambiamenti positivi e determinano, pur tra fratture e dolore, un miglioramento di aspetti importanti della nostra vita. La pandemia, con le chiusure, i confinamenti e le restrizioni economicamente e psicologicamente così faticose, ci ha comunque fatto riscoprire il valore profondo del silenzio, della solitudine riflessiva, del tempo svuotato dalle frenesie degli incontri corrivi e del lavoro ossessivo. E ci ha spinti, tra l’altro, a leggere meglio e, soprattutto, di più.
Ecco, appunto, la rivalutazione dei libri, delle parole che raccontano storie e definiscono pensieri e mondi, rivelano emozioni, prefigurano futuro. Nei primi due mesi di quest’anno le vendite dei libri di carta sono aumentate del 25% (nei canali cosiddetti “trade” e cioè librerie, grande distribuzione e negozi online), dopo un intero 2020 in cui il fatturato dell’editoria è cresciuto del 2,3% (poco, ma comunque in rialzo). E sono aumentati anche i lettori di ebook, dal 23% al 32% della popolazione fra i 15 e i 74 anni (dati 2020, calcolando sia chi legge solo ebook sia chi, come la maggior parte delle persone, li alterna con i volumi di carta). In aumento del 12% i consumatori di audiolibri.

Si è ampliata, insomma, proprio nei mesi della pandemia, la popolazione dei lettori, passati dai 26,3 milioni del 2019 ai 27,6 milioni del 2020, anche se restiamo molto indietro rispetto al resto dell’Europa: il 61% degli italiani dichiara di aver letto un libro (carta o ebook o audiolibro) durante l’anno, mentre in Francia la percentuale è del 92% e in Gran Bretagna dell’86%. Siamo sempre un paese con scadente inclinazione alla lettura (mentre in tanti, o troppi, si cimentano a scrivere). Ma, appunto in tempi di crisi, vale la pena, più che lamentarsi di ciò che non va, sottolineare i cambiamenti positivi e cercare di capire cosa fare per migliorare ancora.

“L’editoria è cresciuta, dimostrando grande solidità”, commenta Paola Dubini, professoressa di management della cultura all’Università Bocconi. E “librerie e biblioteche hanno fatto miracoli” (“la Repubblica”, 6 aprile). Settori economici considerati sino a ieri marginali, proprio di fronte al successo dei colossi delle vendite online, Amazon innanzitutto, hanno mostrato infatti una straordinaria capacità di reazione. Dopo la prima stagione della pandemia e delle chiusure generalizzate, edicole e librerie sono state considerate, dai vari provvedimenti di governo, come esercizi commerciali necessari. E i libri hanno potuto animare i nostri giorni di chiusura. Proprio le piccole librerie, legate alle zone di radicamento, hanno risposto meglio ai bisogni di clienti conosciuti, consigliando, suggerendo e cominciando a fare consegne a domicilio, con un servizio dunque più mirato, definito “su misura” per i lettori. E le biblioteche pubbliche di quartiere sono state sempre più un punto di riferimento, soprattutto per persone sole, per anziani, per giovani e studenti in cerca di un modo di riempire la lunghezza delle giornate con qualcosa che non fosse una serie Tv. Il ritorno dei libri, appunto.

Sono nate anche nuove iniziative, come le biblioteche di condominio, a cominciare da Milano, dove nel 2013 era stata inaugurata la prima, in via Rembrandt n.12, ben presto diventata esempio di tante altre iniziative, seguita dalla biblioteca di via Russoli n. 18 tra quattro torri di edilizia popolare e dalla Biblioteca di condominio Aler “Falcone e Borsellino”, sino al successo di una dozzina di altre attività celebrate come “buone pratiche” culturali e civili durante il Milano BookCity del 2020 e collegate, per servizi e consulenze, con l’efficiente Sistema bibliotecario del Comune. E per finire a Palermo, proprio nel palazzo davanti al quale sorge “l’albero Falcone”, un simbolo della civiltà antimafia cittadina.

In crescita anche le biblioteche aziendali (come quelle Pirelli: “La cultura come il pane”, c’è scritto su un grande pannello all’ingresso della libreria nell’Headquarters in Bicocca), rimaste parzialmente aperte pure in tempi di smart working e fatte vivere con incontri digitali e webinar con gli scrittori.
Proprio dal mondo dell’impresa viene un’altra iniziativa degna di rilievo: un book club aziendale alla Vanoncini di Mapello, in provincia di Bergamo (azienda specializzata in edilizia sostenibile, quasi 30 milioni di euro di fatturato) con un bonus di 100 euro per il dipendente che legge un libro e lo presenta ai colleghi, in due incontri programmati ogni mese L’iniziativa funziona e si diffonde tra i dipendenti, racconta Danilo Dadda, amministratore delegato (“Avvenire”, 3 aprile): “Credo fortemente nel valore della cultura e della formazione. Sono il primo che s’impegna a leggere e a studiare. A volte, la stanchezza o forse la pigrizia allontanano dalla lettura. E così ho pensato di incentivare i miei collaboratori a leggere”. Di libro in libro, di discorso in discorso, migliora il mondo del lavoro. E migliora la vita.

Capire l’Europa, tra “Cinema & Storia”. Politica, economia e società dalle origini alla globalizzazione

Si è conclusa la nona edizione del corso di formazione e aggiornamento per docenti Cinema & Storia, dal titolo “L’Europa siamo noi”, organizzato da Fondazione Pirelli e Fondazione Isec, in collaborazione con il cinema Beltrade di Milano. Il percorso online, che ha visto la partecipazione di oltre 150 docenti collegati da tutta Italia e dall’estero, ha avuto come principale obiettivo quello di delineare il contesto europeo attraverso letture diacroniche di differenti aspetti: politica e economia, memoria, cultura e società.

L’avvio del corso ha visto l’intervento di Marco Meriggi, professore di Storia delle istituzioni politiche dell’Università Federico II di Napoli, che ha analizzato le principali idee che hanno contraddistinto la storia dello sviluppo dell’organizzazione politica europea, a partire dalla seconda guerra mondiale. A confronto le differenti visioni degli storici Lucien Febvre e Federico Chabod sull’interpretazione del testo “Considerazioni sul governo della Polonia” di Jean-Jacques Rousseau del 1772, che segna l’avvento della concezione di Europa e di popolo europeo. Il percorso è proseguito con la trattazione della Rivoluzione francese – che porta alla luce l’idea di diritti universali – e dell’avventura napoleonica, fino alla pubblicazione del manifesto di Ventotene, passando attraverso l’epoca dei nazionalismi e sovranismi e la Giovine Europa teorizzata da Giuseppe Mazzini.

Una novità del corso: l’associazione a ciascuna lezione di un film selezionato in collaborazione con il Cinema Beltrade che ne ha curato anche le presentazioni. Per questo primo incontro il documentario Meeting Gorbachev di Werner Herzog, che ripercorre in una lunga intervista la vita del politico, raccontando con uno sguardo inedito anche i principali eventi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento.

Francesca Fauri, docente di Storia Economica dell’Università di Bologna, si è soffermata invece sui processi economici che riguardano la storia del nostro continente. L’ istituzione della Comunità Economica Europea per la libera circolazione delle merci, persone e capitali, l’unione doganale nata sulle ceneri della comunità politica europea, il Trattato di Maastricht, la nascita del mercato unitario fino alla moneta unica, la Banca Centrale Europea e il suo ruolo di prestatore nella crisi bancaria del 2008, lo sviluppo del meccanismo di stabilità europea attivo dal 2014, i recenti interventi dell’Europa per contrastare gli effetti della pandemia, come il fondo SURE e il Recovery Fund. La proposta cinematografica legata ai temi della seconda lezione è stata The Milky Way, di Luigi D’Alife, che racconta “La Via Lattea”, un comprensorio sciistico tra Italia e Francia dove ogni giorno si trovano migliaia di sportivi. Quello stesso tratto viene attraversato clandestinamente di notte e con grandi rischi da migranti in cerca di una vita migliore oltre il confine. Non tutti raggiungono l’altro lato della montagna, ma la solidarietà degli abitanti della valle non si ferma mai.

Alberto Martinelli, professore Emerito in Scienza politica e sociologia dell’Università degli Studi di Milano, ha invece analizzato i tratti comuni dell’identità europea, al di sopra e al di là delle differenze nazionali, indicando nel riconoscimento dell’alterità, l’inclusione dell’altro e il mantenimento della diversità una possibile via per l’integrazione europea, e approfondendo il tema dei diritti e dei doveri dei cittadini europei. Il tema affrontato è stato sviluppato anche grazie alla visione del film A voce alta di Stéphane de Freitas e Ladj Ly, che descrive e segue le vicende dei partecipanti di una gara di eloquenza organizzata all’Università di Saint-Denis, nella periferia parigina, per nominare il miglior relatore. Gli studenti, che hanno diversi background socioculturali, grazie alla retorica, si raccontano e si scoprono, rivelando le loro storie più personali e scoprendo che la forza della parola può cambiare, con il potere delle idee, anche il mondo.

La quarta lezione del corso, tenuta da  Marcello Flores, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, si è concentrata sulle opportunità di costruzione di una memoria europea condivisa, a partire dalla prima guerra mondiale e fino al 1989. È infatti con il crollo del muro di Berlino che si giunge alla fine di un periodo di profonde contrapposizioni dettate dalla guerra fredda con i suoi confronti politici, ideologici, militari, economici e culturali. Gli anni successivi sono caratterizzati dalla questione balcanica e dal tentativo da parte dell’Europa di identificare nella Shoah e nel comunismo, seguendo una logica simbolica più che storica, le due basi su cui deve costruirsi la memoria europea. La proposta di Flores è quella di rivolgersi a una dimensione storica complessiva, in grado di supportare la costruzione di uno sguardo comune europeo sul passato, ricollocando le memorie parziali nel contesto globale per porre fine al contrasto tra storia e memoria e alla manipolazione della verità, e a una narrazione di stampo propagandistico e identitario. 1945, di Ferenc Török è il film correlato a questa lezione, che racconta attraverso immagini in bianco e nero la vita di un villaggio ungherese durante una giornata di festeggiamenti per un matrimonio, scossa dall’arrivo di due ebrei ortodossi che potrebbero reclamare i beni ridistribuiti tra i cittadini in seguito alle deportazioni.

Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ha ripercorso nella quinta lezione le date, i fatti e i personaggi che hanno portato alla costituzione dell’Europa, dagli anni Quaranta del Novecento ai nostri giorni, sottolineando come questo periodo sia caratterizzato da una lunghissima stagione di pace. Dal manifesto di Ventotene al Consiglio d’Europa, dalla dichiarazione di Robert Shuman alla nascita della CECA e della Comunità Economica Europea, dal rapporto Delors sull’Unione Economica e monetaria nella Comunità Economica Europea al Trattato di Maastricht – che nel 1992 ha determinato una svolta positiva in una forte stagione di crisi per l’Italia – fino all’introduzione della moneta Unica. La riflessione è proseguita con l’analisi delle nuove fratture europee, dalla stagione del sovranismo e del populismo alla Brexit, per concludere con un’approfondita disamina economica e politica del Recovery Plan. The Milk System il film di Andreas Pichler messo in relazione con la lezione, descrive il sistema produttivo del latte attraverso le testimonianze di contadini, politici, lobbisti, ONG e scienziati. Il film svela verità sorprendenti sul “sistema latte”: chi guadagna, e a spese di chi? Il sistema ha un futuro, ed esistono delle alternative? Un viaggio cinematografico attraverso diversi continenti che smaschera preconcetti e mette in luce visioni alternative.

L’ultimo appuntamento del corso è stato dedicato al laboratorio curato dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino, che ha permesso di ripercorrere la storia del cinema e analizzare le differenze tra i principali oggetti filmici. Paola Olivetti, Direttrice dell’archivio, ha introdotto il percorso raccontando attraverso filmati d’epoca il dominio del mezzo cinematografico nella comunicazione del Novecento e sottolineandone il ruolo centrale nella documentazione di avvenimenti storici. L’intervento di Corrado Borsa ha fornito gli strumenti per capire il valore distintivo di mezzi quali il cinegiornale, il cinema a soggetto, il documentario. Infine Adriana Toppazzini ha condiviso un’approfondita mappa digitale sull’uso didattico delle immagini filmiche, per reperire le principali fonti storiche audiovisive e valutare le competenze didattiche acquisite.

Il corso è stato anche occasione di confronto sul ruolo delle giovani generazioni nel progetto di integrazione europea.

Si è conclusa la nona edizione del corso di formazione e aggiornamento per docenti Cinema & Storia, dal titolo “L’Europa siamo noi”, organizzato da Fondazione Pirelli e Fondazione Isec, in collaborazione con il cinema Beltrade di Milano. Il percorso online, che ha visto la partecipazione di oltre 150 docenti collegati da tutta Italia e dall’estero, ha avuto come principale obiettivo quello di delineare il contesto europeo attraverso letture diacroniche di differenti aspetti: politica e economia, memoria, cultura e società.

L’avvio del corso ha visto l’intervento di Marco Meriggi, professore di Storia delle istituzioni politiche dell’Università Federico II di Napoli, che ha analizzato le principali idee che hanno contraddistinto la storia dello sviluppo dell’organizzazione politica europea, a partire dalla seconda guerra mondiale. A confronto le differenti visioni degli storici Lucien Febvre e Federico Chabod sull’interpretazione del testo “Considerazioni sul governo della Polonia” di Jean-Jacques Rousseau del 1772, che segna l’avvento della concezione di Europa e di popolo europeo. Il percorso è proseguito con la trattazione della Rivoluzione francese – che porta alla luce l’idea di diritti universali – e dell’avventura napoleonica, fino alla pubblicazione del manifesto di Ventotene, passando attraverso l’epoca dei nazionalismi e sovranismi e la Giovine Europa teorizzata da Giuseppe Mazzini.

Una novità del corso: l’associazione a ciascuna lezione di un film selezionato in collaborazione con il Cinema Beltrade che ne ha curato anche le presentazioni. Per questo primo incontro il documentario Meeting Gorbachev di Werner Herzog, che ripercorre in una lunga intervista la vita del politico, raccontando con uno sguardo inedito anche i principali eventi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento.

Francesca Fauri, docente di Storia Economica dell’Università di Bologna, si è soffermata invece sui processi economici che riguardano la storia del nostro continente. L’ istituzione della Comunità Economica Europea per la libera circolazione delle merci, persone e capitali, l’unione doganale nata sulle ceneri della comunità politica europea, il Trattato di Maastricht, la nascita del mercato unitario fino alla moneta unica, la Banca Centrale Europea e il suo ruolo di prestatore nella crisi bancaria del 2008, lo sviluppo del meccanismo di stabilità europea attivo dal 2014, i recenti interventi dell’Europa per contrastare gli effetti della pandemia, come il fondo SURE e il Recovery Fund. La proposta cinematografica legata ai temi della seconda lezione è stata The Milky Way, di Luigi D’Alife, che racconta “La Via Lattea”, un comprensorio sciistico tra Italia e Francia dove ogni giorno si trovano migliaia di sportivi. Quello stesso tratto viene attraversato clandestinamente di notte e con grandi rischi da migranti in cerca di una vita migliore oltre il confine. Non tutti raggiungono l’altro lato della montagna, ma la solidarietà degli abitanti della valle non si ferma mai.

Alberto Martinelli, professore Emerito in Scienza politica e sociologia dell’Università degli Studi di Milano, ha invece analizzato i tratti comuni dell’identità europea, al di sopra e al di là delle differenze nazionali, indicando nel riconoscimento dell’alterità, l’inclusione dell’altro e il mantenimento della diversità una possibile via per l’integrazione europea, e approfondendo il tema dei diritti e dei doveri dei cittadini europei. Il tema affrontato è stato sviluppato anche grazie alla visione del film A voce alta di Stéphane de Freitas e Ladj Ly, che descrive e segue le vicende dei partecipanti di una gara di eloquenza organizzata all’Università di Saint-Denis, nella periferia parigina, per nominare il miglior relatore. Gli studenti, che hanno diversi background socioculturali, grazie alla retorica, si raccontano e si scoprono, rivelando le loro storie più personali e scoprendo che la forza della parola può cambiare, con il potere delle idee, anche il mondo.

La quarta lezione del corso, tenuta da  Marcello Flores, docente di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, si è concentrata sulle opportunità di costruzione di una memoria europea condivisa, a partire dalla prima guerra mondiale e fino al 1989. È infatti con il crollo del muro di Berlino che si giunge alla fine di un periodo di profonde contrapposizioni dettate dalla guerra fredda con i suoi confronti politici, ideologici, militari, economici e culturali. Gli anni successivi sono caratterizzati dalla questione balcanica e dal tentativo da parte dell’Europa di identificare nella Shoah e nel comunismo, seguendo una logica simbolica più che storica, le due basi su cui deve costruirsi la memoria europea. La proposta di Flores è quella di rivolgersi a una dimensione storica complessiva, in grado di supportare la costruzione di uno sguardo comune europeo sul passato, ricollocando le memorie parziali nel contesto globale per porre fine al contrasto tra storia e memoria e alla manipolazione della verità, e a una narrazione di stampo propagandistico e identitario. 1945, di Ferenc Török è il film correlato a questa lezione, che racconta attraverso immagini in bianco e nero la vita di un villaggio ungherese durante una giornata di festeggiamenti per un matrimonio, scossa dall’arrivo di due ebrei ortodossi che potrebbero reclamare i beni ridistribuiti tra i cittadini in seguito alle deportazioni.

Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ha ripercorso nella quinta lezione le date, i fatti e i personaggi che hanno portato alla costituzione dell’Europa, dagli anni Quaranta del Novecento ai nostri giorni, sottolineando come questo periodo sia caratterizzato da una lunghissima stagione di pace. Dal manifesto di Ventotene al Consiglio d’Europa, dalla dichiarazione di Robert Shuman alla nascita della CECA e della Comunità Economica Europea, dal rapporto Delors sull’Unione Economica e monetaria nella Comunità Economica Europea al Trattato di Maastricht – che nel 1992 ha determinato una svolta positiva in una forte stagione di crisi per l’Italia – fino all’introduzione della moneta Unica. La riflessione è proseguita con l’analisi delle nuove fratture europee, dalla stagione del sovranismo e del populismo alla Brexit, per concludere con un’approfondita disamina economica e politica del Recovery Plan. The Milk System il film di Andreas Pichler messo in relazione con la lezione, descrive il sistema produttivo del latte attraverso le testimonianze di contadini, politici, lobbisti, ONG e scienziati. Il film svela verità sorprendenti sul “sistema latte”: chi guadagna, e a spese di chi? Il sistema ha un futuro, ed esistono delle alternative? Un viaggio cinematografico attraverso diversi continenti che smaschera preconcetti e mette in luce visioni alternative.

L’ultimo appuntamento del corso è stato dedicato al laboratorio curato dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino, che ha permesso di ripercorrere la storia del cinema e analizzare le differenze tra i principali oggetti filmici. Paola Olivetti, Direttrice dell’archivio, ha introdotto il percorso raccontando attraverso filmati d’epoca il dominio del mezzo cinematografico nella comunicazione del Novecento e sottolineandone il ruolo centrale nella documentazione di avvenimenti storici. L’intervento di Corrado Borsa ha fornito gli strumenti per capire il valore distintivo di mezzi quali il cinegiornale, il cinema a soggetto, il documentario. Infine Adriana Toppazzini ha condiviso un’approfondita mappa digitale sull’uso didattico delle immagini filmiche, per reperire le principali fonti storiche audiovisive e valutare le competenze didattiche acquisite.

Il corso è stato anche occasione di confronto sul ruolo delle giovani generazioni nel progetto di integrazione europea.

Luoghi d’innovazione

Confronto Italia-Usa su uno degli strumenti più importanti per creare sviluppo e crescita

Distretti d’innovazione, e cioè luoghi nei quali si riesce a coniugare tecnologia, opportunità di territorio, reti di rapporti umani e produttivi. Luoghi nei quali è più facile far nascere e far crescere eccellenze produttive di prim’ordine. Il tema non è nuovo, ma deve essere rinnovato con l’evoluzione delle cose e delle persone. Oltre che con gli esempi tratti da altre aree economiche. Ed è comunque un argomento di primo piano nella prospettiva di sviluppo che ci si deve dare. Per questo, i distretti d’innovazione sono contenuti anche nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Attorno al concetto e alla sua declinazione territoriale, ragiona “Il recepimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: spunti metodologici dalle esperienze statunitensi dei distretti d’innovazione dell’area di Boston” nota di ricerca proposta da Luna Kappler (dell’Università “Sapienza” di Roma, DICEA – Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale) che sottolinea “l’opportunità di riflettere sulle necessità future di luoghi che, ospitando ad oggi 3,5 miliardi di persone”, che “sono sempre più centri propulsori di idee, commercio, cultura, scienza, produttività e sviluppo sociale”.

Proprio i distretti d’innovazione sarebbero “la risposta statunitense alla crisi ed alla base del transatlantic productivity gap con l’Europa”.

Il lavoro quindi affronta il concetto di distretto d’innovazione: un’area geografica compatta ed accessibile, dove istituzioni trainanti e compagnie si connettono tra loro ed a start-up. Un luogo dove anche la stessa governance è stata cambiata per arrivare a promuovere l’accesso all’innovazione, di moltiplicare opportunità e di favorire nuove forme dell’abitare.

Esperienze simili, fa notare Luna Kappler, ci sono anche in Italia. Ed è dal confronto tra il nostro Paese e gli Usa che derivano le indicazioni su cosa è mancato e su cosa occorre fare.

“Ci si aspetta di evidenziare – scrive Kappler -, che se negli Stati Uniti i distretti di innovazione hanno lasciato emergere un nuovo approccio alla città, in Italia è mancata questa prospettiva. per un’oggettiva difficoltà nell’individuare meccanismi di ripresa, soprattutto a livello regionale”. Così, l’esperienza vincente dell’area di Boston viene assunta ad esempio utile per comprendere meglio che cosa sia più utile fare dal punto di vista dell’amministrazione locale così come degli strumenti economici per attrarre promettenti investitori.

L’indagine di Luna Kappler è una buona sintesi di un tema complesso ma importante da comprendere.

Il recepimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: spunti metodologici dalle esperienze statunitensi dei distretti d’innovazione dell’area di Boston

Luna Kappler

Paper, s.d.

 

Confronto Italia-Usa su uno degli strumenti più importanti per creare sviluppo e crescita

Distretti d’innovazione, e cioè luoghi nei quali si riesce a coniugare tecnologia, opportunità di territorio, reti di rapporti umani e produttivi. Luoghi nei quali è più facile far nascere e far crescere eccellenze produttive di prim’ordine. Il tema non è nuovo, ma deve essere rinnovato con l’evoluzione delle cose e delle persone. Oltre che con gli esempi tratti da altre aree economiche. Ed è comunque un argomento di primo piano nella prospettiva di sviluppo che ci si deve dare. Per questo, i distretti d’innovazione sono contenuti anche nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Attorno al concetto e alla sua declinazione territoriale, ragiona “Il recepimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: spunti metodologici dalle esperienze statunitensi dei distretti d’innovazione dell’area di Boston” nota di ricerca proposta da Luna Kappler (dell’Università “Sapienza” di Roma, DICEA – Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale) che sottolinea “l’opportunità di riflettere sulle necessità future di luoghi che, ospitando ad oggi 3,5 miliardi di persone”, che “sono sempre più centri propulsori di idee, commercio, cultura, scienza, produttività e sviluppo sociale”.

Proprio i distretti d’innovazione sarebbero “la risposta statunitense alla crisi ed alla base del transatlantic productivity gap con l’Europa”.

Il lavoro quindi affronta il concetto di distretto d’innovazione: un’area geografica compatta ed accessibile, dove istituzioni trainanti e compagnie si connettono tra loro ed a start-up. Un luogo dove anche la stessa governance è stata cambiata per arrivare a promuovere l’accesso all’innovazione, di moltiplicare opportunità e di favorire nuove forme dell’abitare.

Esperienze simili, fa notare Luna Kappler, ci sono anche in Italia. Ed è dal confronto tra il nostro Paese e gli Usa che derivano le indicazioni su cosa è mancato e su cosa occorre fare.

“Ci si aspetta di evidenziare – scrive Kappler -, che se negli Stati Uniti i distretti di innovazione hanno lasciato emergere un nuovo approccio alla città, in Italia è mancata questa prospettiva. per un’oggettiva difficoltà nell’individuare meccanismi di ripresa, soprattutto a livello regionale”. Così, l’esperienza vincente dell’area di Boston viene assunta ad esempio utile per comprendere meglio che cosa sia più utile fare dal punto di vista dell’amministrazione locale così come degli strumenti economici per attrarre promettenti investitori.

L’indagine di Luna Kappler è una buona sintesi di un tema complesso ma importante da comprendere.

Il recepimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: spunti metodologici dalle esperienze statunitensi dei distretti d’innovazione dell’area di Boston

Luna Kappler

Paper, s.d.

 

La buona storia per la buona cultura d’impresa

L’ultima fatica letteraria di Valerio Castronovo costituisce uno strumento importante per capire di più e agire meglio

La cultura d’impresa si forma e  si arricchisce anche con una buona conoscenza di quanto è accaduto: buona storia per buona cultura del produrre. Principio acquisito ma non scontato e che, per questo, deve essere sempre coltivato e rinnovato. Ecco perché serve leggere buoni libri come la “Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento al 2020” scritto da Valerio Castronovo, già professore di storia contemporanea all’Università di Torino ma soprattutto raffinato conoscitore delle vicende italiane tra economia, società e politica degli ultimi duecento anni.

L’ultimo libro scritto da Castronovo riprende, amplia, aggiorna e ripubblica una storia dell’economia italiana che più volte è stata pubblicata in varie versioni e sempre rinnovata. Sullo sfondo delle vicende della finanza e del mercato internazionale, Castronovo ricostruisce quindi il complesso itinerario dell’economia italiana, intrecciandolo sia agli eventi politici e agli orientamenti culturali sia alle trasformazioni di natura sociale. Vengono così rievocate, insieme all’opera dei principali attori della vita economica e delle diverse componenti del mondo del lavoro, le fasi piú significative di un processo di sviluppo e di modernizzazione che non fu né univoco né lineare, ma molto difforme dal punto di vista del territorio ed estremamente accidentato.

L’autore conduce quindi chi legge dalla situazione dell’Italia appena unificata a quella del Paese durante il “decollo industriale” per passare poi al travagliato periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale e arrivare quindi alla situazione dell’Italia industriale dopo il secondo conflitto e quindi a quella di un paese alle prese con una “difficile modernizzazione” e quindi con una crisi mondiale senza molti precedenti.

Ne emerge il racconto di una paese che, dopo aver compiuto rilevanti progressi economici, anche grazie al dinamismo di una miriade di piccole e medie imprese, senza colmare tuttavia il divario fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, è oggi di fronte al problema del risanamento di un ingente debito pubblico nell’ambito dell’Unione monetaria europea, e a quello della crescente competitività di grandi paesi emergenti. Una condizione, quella di oggi, che deriva anche dalle vicende degli ultimi decenni, tanto da far pensare che l’Italia rappresenti un caso a sé stante nel quadro delle economie occidentali. Tanto differenti, rispetto a quelle di altri paesi europei, sono state, oltre alle matrici del capitalismo italiano, le risorse materiali, le condizioni strutturali e le caratteristiche sociali della nostra esperienza economica.

Nell’epoca della globalizzazione e della pandemia, è quindi la tesi di Castronovo, il nostro Paese si trova dunque a percorrere un tornante cruciale per il suo futuro.

Valerio Castronovo ha scritto ancora una volta un libro che fornisce gli elementi essenziali per capire dove si è e dove si potrà andare. Da leggere e tenere come buon compagno di viaggio.

Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento al 2020

Valerio Castronovo

Einaudi, 2020

L’ultima fatica letteraria di Valerio Castronovo costituisce uno strumento importante per capire di più e agire meglio

La cultura d’impresa si forma e  si arricchisce anche con una buona conoscenza di quanto è accaduto: buona storia per buona cultura del produrre. Principio acquisito ma non scontato e che, per questo, deve essere sempre coltivato e rinnovato. Ecco perché serve leggere buoni libri come la “Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento al 2020” scritto da Valerio Castronovo, già professore di storia contemporanea all’Università di Torino ma soprattutto raffinato conoscitore delle vicende italiane tra economia, società e politica degli ultimi duecento anni.

L’ultimo libro scritto da Castronovo riprende, amplia, aggiorna e ripubblica una storia dell’economia italiana che più volte è stata pubblicata in varie versioni e sempre rinnovata. Sullo sfondo delle vicende della finanza e del mercato internazionale, Castronovo ricostruisce quindi il complesso itinerario dell’economia italiana, intrecciandolo sia agli eventi politici e agli orientamenti culturali sia alle trasformazioni di natura sociale. Vengono così rievocate, insieme all’opera dei principali attori della vita economica e delle diverse componenti del mondo del lavoro, le fasi piú significative di un processo di sviluppo e di modernizzazione che non fu né univoco né lineare, ma molto difforme dal punto di vista del territorio ed estremamente accidentato.

L’autore conduce quindi chi legge dalla situazione dell’Italia appena unificata a quella del Paese durante il “decollo industriale” per passare poi al travagliato periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale e arrivare quindi alla situazione dell’Italia industriale dopo il secondo conflitto e quindi a quella di un paese alle prese con una “difficile modernizzazione” e quindi con una crisi mondiale senza molti precedenti.

Ne emerge il racconto di una paese che, dopo aver compiuto rilevanti progressi economici, anche grazie al dinamismo di una miriade di piccole e medie imprese, senza colmare tuttavia il divario fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, è oggi di fronte al problema del risanamento di un ingente debito pubblico nell’ambito dell’Unione monetaria europea, e a quello della crescente competitività di grandi paesi emergenti. Una condizione, quella di oggi, che deriva anche dalle vicende degli ultimi decenni, tanto da far pensare che l’Italia rappresenti un caso a sé stante nel quadro delle economie occidentali. Tanto differenti, rispetto a quelle di altri paesi europei, sono state, oltre alle matrici del capitalismo italiano, le risorse materiali, le condizioni strutturali e le caratteristiche sociali della nostra esperienza economica.

Nell’epoca della globalizzazione e della pandemia, è quindi la tesi di Castronovo, il nostro Paese si trova dunque a percorrere un tornante cruciale per il suo futuro.

Valerio Castronovo ha scritto ancora una volta un libro che fornisce gli elementi essenziali per capire dove si è e dove si potrà andare. Da leggere e tenere come buon compagno di viaggio.

Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento al 2020

Valerio Castronovo

Einaudi, 2020

La lezione d’attualità del mito di Enea: anziani da salvare e giovani da fare crescere

Essere padri. Ed essere figli. Scoprire, proprio nel cuore drammatico della crisi da pandemia e recessione, la rete delle relazioni tra la consapevolezza del passato e la responsabilità del futuro. E dunque fare scelte, politiche e sociali che sappiano, contemporaneamente, proteggere gli anziani e costruire condizioni per garantire un destino migliore alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti. Sta proprio qui la chiave più lucidamente progettuale della sostenibilità: tutelare e valorizzare l’ambiente, evitando che continui il degrado e dunque peggiori la qualità della vita e investire sull’innovazione, la formazione, la conoscenza, i migliori equilibri sociali. La lezione migliore della crisi sta dunque nella consapevolezza di dover andare “oltre la fragilità” messa in dolorosa evidenza dagli oltre 107mila morti per Covid19 in Italia (su quasi tre milioni di vittime e 127 milioni di malati nel mondo, alla fine di marzo). E di dovere lavorare non solo sul freno alla pandemia (con una vaccinazione di massa rapida ed efficace) e sulla cura dei contagiati, ma anche su un radicale cambio di paradigma dello sviluppo economico e sociale. Sulla qualità dell’economia. Sui rapporti sociali e i diritti ai beni pubblici (la salute e la scuola, innanzitutto). Sul lavoro (con il potenziamento delle opportunità per le donne) e sul welfare. E sulle relazioni tra progresso (economico, scientifico, sociale) e tutela delle persone. Su una Impact Economy  fondata su green e digital economy, come giustamente la Ue impone per l’ambizioso Recovery Plan pensato, responsabilmente, per la Next Generation.

C’è un’immagine ricorrente, in alcuni dei discorsi più sapienti di questi lunghi e difficili mesi. Ed è quella di Enea che si carica sulle spalle il vecchio padre Anchise e prende per mano il piccolo figlio Ascanio, per fuggire dalle rovine di Troia e cercare, insieme, una via di fuga e di salvezza. Tre generazioni, tra la memoria e l’avvenire. La responsabilità dell’essere padre e la premura amorosa e grata dell’essere figlio. La consapevolezza della sconfitta ma anche il residuo d’orgoglio del guerriero che, pur vinto, si riscopre al centro di una gerarchia familiare e sociale e sa di dovere andare avanti per ricostruire una comunità (si chiamerà poi Alba Longa, e Roma, e Italia, quella comunità e avrà un uomo errante, un profugo che scappa dalla guerra, come fondatore).

A quell’immagine del mito aveva fatto esplicito riferimento Papa Francesco in un’intervista a “La Civiltà Cattolica” nell’aprile dello scorso anno, proprio all’inizio della pandemia: “L’Eneide di Virgilio, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia: ‘Preparatevi a tempi migliori, perché in quel momento questo ci aiuterà ricordare le cose che sono successe ora. Abbiate cura di voi per un futuro che verrà. E quando questo futuro verrà, vi farà bene ricordare ciò che è accaduto’”. Ed ecco l’immagine di Enea, sconfitto a Troia, che “aveva perduto tutto e gli restavano due vie d’uscita: o rimanere là a piangere e porre fine alla sua vita, o fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra”. Insiste il Papa: “È un verso magnifico: Cessi, et sublato montem genitore petivi. ‘Mi rassegnai e, sollevato il padre, mi diressi sui monti’”. È proprio ciò che tutti noi dobbiamo fare oggi, conclude Papa Francesco: “Prendere le radici delle nostre tradizioni e salire sui monti”.

Non ci sono, nell’Enea di Virgilio, né l’epica dell’eroe né la retorica della sconfitta gloriosa. Semmai, l’umanissimo dolore per le conseguenze della guerra, la capacità di farsi carico e dunque di prendersi cura dei familiari e delle persone di cui ha responsabilità e la scelta, faticosa e necessaria, di mettersi in cammino, costruire un nuovo inizio di vita e di storia. Ecco perché quell’Enea è, oggi, un nostro contemporaneo.

Ogni relazione, infatti, è contemporaneamente, una continuità e una frattura. Una custodia della tradizione (da alimentare come un fuoco, per usare l’efficace similitudine di Gustav Mahler). E un ambizioso impegno di cambiamento, trasformazione, costruzione di nuovi orizzonti. Memoria e futuro.

Oggi, tutto ciò significa scrivere un nuovo patto generazionale, che cerchi di rimediare ai guasti della frattura della metà degli anni Ottanta (con l’esplosione del debito pubblico, scaricato sulle spalle delle generazioni future, per consentire a quelle adulte dell’epoca di vivere nel benessere senza preoccuparsi di produrre nuova ricchezza). E sapere fare scelte per proteggere, oggi, gli anziani dalla malattia e dalla morte (un’urgenza) e per dare un futuro migliore ai giovani.

Il mito di Enea, con l’immagine della famosa scultura di Gian Lorenzo Bernini, torna nelle parole di un capace, sensibile scrittore, Antonio Scurati, sulle pagine del “Corriere della Sera” (25 marzo), con il suo carico di suggerimenti per “la nostra salvezza”: “Mettersi in salvo abbandonando l’anziano padre è disumano, ma rischiare la propria vita per salvare il genitore senza avere un figlio da condurre per mano è gesto disperato. Ascanio, non Anchise, è anche da punto di vista strutturale il fattore di sostegno del gruppo scultoreo. Nel momento stesso in cui si scopre figlio, Enea deve sapersi padre”.

Scurati ne deduce sapientemente implicazioni politiche d’attualità: “Il mito dice alla cronaca che, mentre con una mano dobbiamo vaccinare i nostri anziani genitori, con l’altra dobbiamo fare tutto il possibile per riaprire le scuole dei nostri figli”.

E, andando oltre l’emergenza di questi giorni convulsi, “c’è altro, molto altro da fare con ‘la mano di Ascanio’. Dobbiamo creare le condizioni affinché una società infeconda smetta di esserlo”. Infeconda per il crollo della natalità. Ma anche per la bassa crescita economica, il blocco dell’ascensore sociale, l’inaridimento delle speranze di migliori condizioni per le ragazze e i ragazzi di oggi.

Ecco il punto: c’è una “Italia stretta dal declino demografico: 746mila morti e solo 404mila nati”, come titola “Il Sole24Ore” (27 marzo) in apertura della prima pagina, dando conto dei dati Istat per il 2020. “Noi, vecchi italiani rimasti senza figli”, commenta su “la Repubblica” (27 marzo) Gianpiero Dalla Zuanna, uno dei più autorevoli studiosi di demografia. Siamo scesi sotto la soglia dei 60 milioni di abitanti, i nostri giovani più dinamici continuano ad abbandonare l’Italia e anche gli immigrati e i loro figli vanno via, cercando altrove, in Europa, migliori condizioni di vita, di lavoro e di crescita sociale. Culle vuote, giovani coppie sfiduciate, sviluppo bloccato. Un orizzonte d’incertezza e smarrimento. Aggravato, proprio in tempi di pandemia, da una scelta di alcuni poteri istituzionali, in regioni confusamente governate, di umiliare gli anziani vaccinandoli poco e in ritardo, per privilegiare categorie e corporazioni socialmente potenti.

E’ un trend socialmente devastante, per i vecchi e per i giovani, da interrompere e ribaltare.

I provvedimenti decisi con senso dell’urgenza e anche con lungimiranza dal presidente del Consiglio Mario Draghi vanno per fortuna in una direzione equilibrata. Privilegiare l’apertura delle scuole. Insistere sulla vaccinazione per fasce d’età. E, in prospettiva, scrivere un Recovery Plan efficace, su ambiente e innovazione, riforme e conoscenza. La lezione di Enea, Anchise e Ascanio, appunto.

Essere padri. Ed essere figli. Scoprire, proprio nel cuore drammatico della crisi da pandemia e recessione, la rete delle relazioni tra la consapevolezza del passato e la responsabilità del futuro. E dunque fare scelte, politiche e sociali che sappiano, contemporaneamente, proteggere gli anziani e costruire condizioni per garantire un destino migliore alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti. Sta proprio qui la chiave più lucidamente progettuale della sostenibilità: tutelare e valorizzare l’ambiente, evitando che continui il degrado e dunque peggiori la qualità della vita e investire sull’innovazione, la formazione, la conoscenza, i migliori equilibri sociali. La lezione migliore della crisi sta dunque nella consapevolezza di dover andare “oltre la fragilità” messa in dolorosa evidenza dagli oltre 107mila morti per Covid19 in Italia (su quasi tre milioni di vittime e 127 milioni di malati nel mondo, alla fine di marzo). E di dovere lavorare non solo sul freno alla pandemia (con una vaccinazione di massa rapida ed efficace) e sulla cura dei contagiati, ma anche su un radicale cambio di paradigma dello sviluppo economico e sociale. Sulla qualità dell’economia. Sui rapporti sociali e i diritti ai beni pubblici (la salute e la scuola, innanzitutto). Sul lavoro (con il potenziamento delle opportunità per le donne) e sul welfare. E sulle relazioni tra progresso (economico, scientifico, sociale) e tutela delle persone. Su una Impact Economy  fondata su green e digital economy, come giustamente la Ue impone per l’ambizioso Recovery Plan pensato, responsabilmente, per la Next Generation.

C’è un’immagine ricorrente, in alcuni dei discorsi più sapienti di questi lunghi e difficili mesi. Ed è quella di Enea che si carica sulle spalle il vecchio padre Anchise e prende per mano il piccolo figlio Ascanio, per fuggire dalle rovine di Troia e cercare, insieme, una via di fuga e di salvezza. Tre generazioni, tra la memoria e l’avvenire. La responsabilità dell’essere padre e la premura amorosa e grata dell’essere figlio. La consapevolezza della sconfitta ma anche il residuo d’orgoglio del guerriero che, pur vinto, si riscopre al centro di una gerarchia familiare e sociale e sa di dovere andare avanti per ricostruire una comunità (si chiamerà poi Alba Longa, e Roma, e Italia, quella comunità e avrà un uomo errante, un profugo che scappa dalla guerra, come fondatore).

A quell’immagine del mito aveva fatto esplicito riferimento Papa Francesco in un’intervista a “La Civiltà Cattolica” nell’aprile dello scorso anno, proprio all’inizio della pandemia: “L’Eneide di Virgilio, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia: ‘Preparatevi a tempi migliori, perché in quel momento questo ci aiuterà ricordare le cose che sono successe ora. Abbiate cura di voi per un futuro che verrà. E quando questo futuro verrà, vi farà bene ricordare ciò che è accaduto’”. Ed ecco l’immagine di Enea, sconfitto a Troia, che “aveva perduto tutto e gli restavano due vie d’uscita: o rimanere là a piangere e porre fine alla sua vita, o fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra”. Insiste il Papa: “È un verso magnifico: Cessi, et sublato montem genitore petivi. ‘Mi rassegnai e, sollevato il padre, mi diressi sui monti’”. È proprio ciò che tutti noi dobbiamo fare oggi, conclude Papa Francesco: “Prendere le radici delle nostre tradizioni e salire sui monti”.

Non ci sono, nell’Enea di Virgilio, né l’epica dell’eroe né la retorica della sconfitta gloriosa. Semmai, l’umanissimo dolore per le conseguenze della guerra, la capacità di farsi carico e dunque di prendersi cura dei familiari e delle persone di cui ha responsabilità e la scelta, faticosa e necessaria, di mettersi in cammino, costruire un nuovo inizio di vita e di storia. Ecco perché quell’Enea è, oggi, un nostro contemporaneo.

Ogni relazione, infatti, è contemporaneamente, una continuità e una frattura. Una custodia della tradizione (da alimentare come un fuoco, per usare l’efficace similitudine di Gustav Mahler). E un ambizioso impegno di cambiamento, trasformazione, costruzione di nuovi orizzonti. Memoria e futuro.

Oggi, tutto ciò significa scrivere un nuovo patto generazionale, che cerchi di rimediare ai guasti della frattura della metà degli anni Ottanta (con l’esplosione del debito pubblico, scaricato sulle spalle delle generazioni future, per consentire a quelle adulte dell’epoca di vivere nel benessere senza preoccuparsi di produrre nuova ricchezza). E sapere fare scelte per proteggere, oggi, gli anziani dalla malattia e dalla morte (un’urgenza) e per dare un futuro migliore ai giovani.

Il mito di Enea, con l’immagine della famosa scultura di Gian Lorenzo Bernini, torna nelle parole di un capace, sensibile scrittore, Antonio Scurati, sulle pagine del “Corriere della Sera” (25 marzo), con il suo carico di suggerimenti per “la nostra salvezza”: “Mettersi in salvo abbandonando l’anziano padre è disumano, ma rischiare la propria vita per salvare il genitore senza avere un figlio da condurre per mano è gesto disperato. Ascanio, non Anchise, è anche da punto di vista strutturale il fattore di sostegno del gruppo scultoreo. Nel momento stesso in cui si scopre figlio, Enea deve sapersi padre”.

Scurati ne deduce sapientemente implicazioni politiche d’attualità: “Il mito dice alla cronaca che, mentre con una mano dobbiamo vaccinare i nostri anziani genitori, con l’altra dobbiamo fare tutto il possibile per riaprire le scuole dei nostri figli”.

E, andando oltre l’emergenza di questi giorni convulsi, “c’è altro, molto altro da fare con ‘la mano di Ascanio’. Dobbiamo creare le condizioni affinché una società infeconda smetta di esserlo”. Infeconda per il crollo della natalità. Ma anche per la bassa crescita economica, il blocco dell’ascensore sociale, l’inaridimento delle speranze di migliori condizioni per le ragazze e i ragazzi di oggi.

Ecco il punto: c’è una “Italia stretta dal declino demografico: 746mila morti e solo 404mila nati”, come titola “Il Sole24Ore” (27 marzo) in apertura della prima pagina, dando conto dei dati Istat per il 2020. “Noi, vecchi italiani rimasti senza figli”, commenta su “la Repubblica” (27 marzo) Gianpiero Dalla Zuanna, uno dei più autorevoli studiosi di demografia. Siamo scesi sotto la soglia dei 60 milioni di abitanti, i nostri giovani più dinamici continuano ad abbandonare l’Italia e anche gli immigrati e i loro figli vanno via, cercando altrove, in Europa, migliori condizioni di vita, di lavoro e di crescita sociale. Culle vuote, giovani coppie sfiduciate, sviluppo bloccato. Un orizzonte d’incertezza e smarrimento. Aggravato, proprio in tempi di pandemia, da una scelta di alcuni poteri istituzionali, in regioni confusamente governate, di umiliare gli anziani vaccinandoli poco e in ritardo, per privilegiare categorie e corporazioni socialmente potenti.

E’ un trend socialmente devastante, per i vecchi e per i giovani, da interrompere e ribaltare.

I provvedimenti decisi con senso dell’urgenza e anche con lungimiranza dal presidente del Consiglio Mario Draghi vanno per fortuna in una direzione equilibrata. Privilegiare l’apertura delle scuole. Insistere sulla vaccinazione per fasce d’età. E, in prospettiva, scrivere un Recovery Plan efficace, su ambiente e innovazione, riforme e conoscenza. La lezione di Enea, Anchise e Ascanio, appunto.

Pirelli, storie di corse

Storie di corse” è il digital hub che ripercorre la partecipazione di Pirelli alle competizioni del mondo car, moto e velo, mettendo in evidenza la funzione della pista come laboratorio di ricerca per lo sviluppo di pneumatici sempre più performanti. Un progetto editoriale online con approfondimenti biografici sui grandi piloti e sulle gare più leggendarie corredato da una cronologia che, a partire dalla produzione del primo tubolare per biciclette nel 1890, arriva ai record di oggi, verso le sfide del futuro.

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Storie di corse” è il digital hub che ripercorre la partecipazione di Pirelli alle competizioni del mondo car, moto e velo, mettendo in evidenza la funzione della pista come laboratorio di ricerca per lo sviluppo di pneumatici sempre più performanti. Un progetto editoriale online con approfondimenti biografici sui grandi piloti e sulle gare più leggendarie corredato da una cronologia che, a partire dalla produzione del primo tubolare per biciclette nel 1890, arriva ai record di oggi, verso le sfide del futuro.

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