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Il soft power delle imprese italiane: cultura e qualità per rilanciare territori industriali e high tech digitale

C’è un vero e proprio soft power che sta alla base della capacità competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali. È fatto di qualità, bellezza e funzionalità dei nostri prodotti, di creatività e innovazione, di design, di cura per la sostenibilità ambientale e sociale. Di una vera e propria “cultura politecnica” capace di originali sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di una straordinaria attrattività del Made in Italy e dell’Italia in generale non solo per gli investimenti finanziari, ma anche per le scelte d’impegno di imprenditori, manager, scienziati, tecnologi e studenti che cominciano sempre più spesso a considerare l’Italia come “the place to be”, parafrasando la brillante definizione data dal “New York Times” su Milano nel 2015, al tempo dello splendore dell’Expo.

Vale la pena ricordarsene non solo in omaggio intellettuale a Joseph S. Nye, uno dei maggiori politologi dei nostri tempi inquieti, scomparso ai primi di maggio (il soft power come diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, attrattività, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, invece dell’esibizione prepotente della forza politica e militare). Ma anche, pragmaticamente, per farne la base di una vera e propria politica industriale italiana in chiave europea, in grado di salvare e rilanciare la nostra manifattura e le economie collegate (servizi high tech, logistica, finanza d’impresa, ricerca scientifica, design e tecnologie, formazione) e di consolidare la nostra anima profonda e ben radicata di grande paese industriale.

Serve infatti un “Piano Industriale Straordinario” per rilanciare l’economia europea e nazionale, per dirla con le parole del presidente di Confindustria Emanuele Orsini all’Assemblea nazionale dell’Associazione a Bologna. Tre o anche cinque anni di investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali e di sostegni legislativi e fiscali agli investimenti privati. Tagli robusti al costo dell’energia per le imprese, ben maggiore che nel resto d’Europa e dunque tale da abbattere i nostri margini di competitività. Riforme antiburocrazia a Roma e Bruxelles, ma anche nelle regioni (i “dazi interni” all’Europa, un pesante limite allo sviluppo e all’innovazione). Scelte politiche ed economiche per un vero “Mercato unico” europeo, a cominciare da quello dei capitali e per una maggiore e migliore competitività (il che vuol dire dare rapida attuazione ai Piani firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta e presentati e accolti positivamente dalle autorità Ue: un altro esempio del soft power italiano, no?).

Buona politica, insomma, nel doppio e convergente significato di policy e politics (le strategie e i progetti, tradotti poi in atti di governo, leggi, provvedimenti amministrativi). E lungimiranti scelte per avere “più Europa” e una “Europa migliore”, anche dal punto di vista delle regole di governance, più rapide ed efficaci, liberandosi, tranne casi eccezionali, dei vincoli dell’unanimità. E affrontando più risolutamente, semmai, le sfide geopolitiche e tecnologiche in corso, con maggiore spazio per una cultura “europea”, diversa dalle dominanze di Usa e Cina ma forse più equilibrata di fronte agli altri attori della scena internazionale (rieccoci, anche da questo punto di vista, al primato del soft power, a una sua riedizione per questi turbolenti Anni Duemila).

Spostando lo sguardo dalla geopolitica ai problemi e alle qualità competitive delle nostre imprese, si può provare a fare questo ragionamento, sulle caratteristiche del sistema produttivo, un vero e proprio “capitale sociale positivo” che coinvolge manifatture e territori, centri di ricerca e università, radici storiche e costruzione del futuro, un orizzonte da “avvenire della memoria” e di costruzione di fiducia e speranza per le nuove generazioni.

Se ne parlerà, anche quest’anno, al Seminario estivo di Symbola, a Mantova, a metà giugno, seguendo la suggestione di una indicazione strategica e valoriale, “Se l’Italia fa l’Italia”… e parlando di “sostenibilità, Europa e futuro” e dunque di produttività, lavoro, trasformazioni sociali, economia della conoscenza e di Intelligenza Artificiale legata all’impresa, alla ricerca scientifica e alla qualità della vita. Un convengo di persone d’impresa, di cultura e di impegno sociale e civile, né apocalittiche né integrate, ma pronte criticamente ad accettare la sfida del confronto con “la modernità” e con i temi della sicurezza, dello sviluppo, della cultura del mercato e, più in generale, della democrazia economica.

Proprio il “saper fare” delle imprese, da questo punto di vista, è uno straordinario punto di forza, ancora più prezioso in tempi di difficoltà e tensioni. E va accompagnato da una dimensione complementare, quella del “far sapere”. Costruendo, cioè, un nuovo e migliore racconto delle caratteristiche e delle qualità delle imprese, che valorizzi il loro essere non solo attori economici capaci di reggere le sfide di mercati sempre più selettivi e severi, ma anche attori sociali e culturali, componenti essenziali di una comunità che ha radici nei territori produttivi e sguardo largo sul mondo. Un racconto, ancora, che sappia esprimere il valore di una sintesi originale tra competitività e inclusione, attenzione alla produttività ma anche sofisticata etica d’impresa: una “morale del tornio” che merita una migliore valorizzazione.

Il punto di rilancio sta nel rafforzamento e nello sviluppo di un’idea che da tempo assume peso crescente nella strategia dei valori imprenditoriali e confindustriali: fare impresa significa fare cultura, se cultura è non solo letteratura e arti figurative, musica e teatro, cinema e fotografia ma anche l’universo dei saperi scientifici e delle conoscenze tecnologiche, dell’economia e delle relazioni professionali nel mondo del lavoro.

Cultura è infatti, una nuova formula chimica, un dinamico processo di produzione meccanico e meccatronico (rileggere “Il sistema periodico” e “La chiave a stella” di Primo Levi, per averne conferma), un brevetto o un nuovo materiale industriale high tech,  l’architettura di una fabbrica sostenibile (la sicurezza sul lavoro ne è pilastro portante), un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale che migliora la ricerca per prodotti d’avanguardia o una molecola farmaceutica che innova profondamente il mondo delle life sciences, con ricadute positive sulla salute e la qualità della vita di milioni di persone.

Il punto di riferimento di questa idea di cultura d’impresa può stare in una frase famosa di Gio Ponti, intelligenza tra le più creative e produttive dell’architettura e del design: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”.

Fabbriche aperte”, dunque, come obiettivo di percorsi già sperimentati (da Federchimica, oramai da tempo, ma anche in Piemonte, nel Nord Est e in Puglia, nel Giorno delle Piccole Imprese e nelle tante attività di Museimpresa). Di raccordi, con la Giornata del Made in Italy promossa, a metà aprile, dal ministero dell’Industria. E di organizzazione di nuove iniziative, in coincidenza con l’apertura della Settimana della Cultura d’Impresa, a metà novembre. Spirito di comunità e capitale sociale, appunto.

Imprese aperte al pubblico degli stakeholders e alle scuole, fin dagli istituti primari, agli appassionati del turismo industriale (è sempre più interessante vedere dove e come si producono gli oggetti del miglior Made in Italy) ma anche alle donne e agli uomini che per professione raccontano e documentano, scrittori e registi, fotografi e attori. Per costruire così una nuova e più reale rappresentazione della qualità e della sostenibilità, ambientale e sociale, delle nostre imprese. E contribuire a superare quella cultura anti-industriale e anti-scientifica e tecnologica purtroppo ancora tanto diffusa nel nostro Paese.

È un’operazione ambiziosa di quella “cultura politecnica” di cui abbiamo detto, ben oltre le rappresentazioni autoreferenziali e retoriche del tradizionale storytelling. E una scelta strategica che sostiene e rafforza le capacità competitive del sistema produttivo: storia e memoria, bellezza e qualità, creatività e tecnologia d’avanguardia come componenti essenziali di un “orgoglio industriale” che rilancia il Made in Italy a livello globale. Il nostro soft power, appunto.

(foto Getty Images)

C’è un vero e proprio soft power che sta alla base della capacità competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali. È fatto di qualità, bellezza e funzionalità dei nostri prodotti, di creatività e innovazione, di design, di cura per la sostenibilità ambientale e sociale. Di una vera e propria “cultura politecnica” capace di originali sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di una straordinaria attrattività del Made in Italy e dell’Italia in generale non solo per gli investimenti finanziari, ma anche per le scelte d’impegno di imprenditori, manager, scienziati, tecnologi e studenti che cominciano sempre più spesso a considerare l’Italia come “the place to be”, parafrasando la brillante definizione data dal “New York Times” su Milano nel 2015, al tempo dello splendore dell’Expo.

Vale la pena ricordarsene non solo in omaggio intellettuale a Joseph S. Nye, uno dei maggiori politologi dei nostri tempi inquieti, scomparso ai primi di maggio (il soft power come diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, attrattività, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, invece dell’esibizione prepotente della forza politica e militare). Ma anche, pragmaticamente, per farne la base di una vera e propria politica industriale italiana in chiave europea, in grado di salvare e rilanciare la nostra manifattura e le economie collegate (servizi high tech, logistica, finanza d’impresa, ricerca scientifica, design e tecnologie, formazione) e di consolidare la nostra anima profonda e ben radicata di grande paese industriale.

Serve infatti un “Piano Industriale Straordinario” per rilanciare l’economia europea e nazionale, per dirla con le parole del presidente di Confindustria Emanuele Orsini all’Assemblea nazionale dell’Associazione a Bologna. Tre o anche cinque anni di investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali e di sostegni legislativi e fiscali agli investimenti privati. Tagli robusti al costo dell’energia per le imprese, ben maggiore che nel resto d’Europa e dunque tale da abbattere i nostri margini di competitività. Riforme antiburocrazia a Roma e Bruxelles, ma anche nelle regioni (i “dazi interni” all’Europa, un pesante limite allo sviluppo e all’innovazione). Scelte politiche ed economiche per un vero “Mercato unico” europeo, a cominciare da quello dei capitali e per una maggiore e migliore competitività (il che vuol dire dare rapida attuazione ai Piani firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta e presentati e accolti positivamente dalle autorità Ue: un altro esempio del soft power italiano, no?).

Buona politica, insomma, nel doppio e convergente significato di policy e politics (le strategie e i progetti, tradotti poi in atti di governo, leggi, provvedimenti amministrativi). E lungimiranti scelte per avere “più Europa” e una “Europa migliore”, anche dal punto di vista delle regole di governance, più rapide ed efficaci, liberandosi, tranne casi eccezionali, dei vincoli dell’unanimità. E affrontando più risolutamente, semmai, le sfide geopolitiche e tecnologiche in corso, con maggiore spazio per una cultura “europea”, diversa dalle dominanze di Usa e Cina ma forse più equilibrata di fronte agli altri attori della scena internazionale (rieccoci, anche da questo punto di vista, al primato del soft power, a una sua riedizione per questi turbolenti Anni Duemila).

Spostando lo sguardo dalla geopolitica ai problemi e alle qualità competitive delle nostre imprese, si può provare a fare questo ragionamento, sulle caratteristiche del sistema produttivo, un vero e proprio “capitale sociale positivo” che coinvolge manifatture e territori, centri di ricerca e università, radici storiche e costruzione del futuro, un orizzonte da “avvenire della memoria” e di costruzione di fiducia e speranza per le nuove generazioni.

Se ne parlerà, anche quest’anno, al Seminario estivo di Symbola, a Mantova, a metà giugno, seguendo la suggestione di una indicazione strategica e valoriale, “Se l’Italia fa l’Italia”… e parlando di “sostenibilità, Europa e futuro” e dunque di produttività, lavoro, trasformazioni sociali, economia della conoscenza e di Intelligenza Artificiale legata all’impresa, alla ricerca scientifica e alla qualità della vita. Un convengo di persone d’impresa, di cultura e di impegno sociale e civile, né apocalittiche né integrate, ma pronte criticamente ad accettare la sfida del confronto con “la modernità” e con i temi della sicurezza, dello sviluppo, della cultura del mercato e, più in generale, della democrazia economica.

Proprio il “saper fare” delle imprese, da questo punto di vista, è uno straordinario punto di forza, ancora più prezioso in tempi di difficoltà e tensioni. E va accompagnato da una dimensione complementare, quella del “far sapere”. Costruendo, cioè, un nuovo e migliore racconto delle caratteristiche e delle qualità delle imprese, che valorizzi il loro essere non solo attori economici capaci di reggere le sfide di mercati sempre più selettivi e severi, ma anche attori sociali e culturali, componenti essenziali di una comunità che ha radici nei territori produttivi e sguardo largo sul mondo. Un racconto, ancora, che sappia esprimere il valore di una sintesi originale tra competitività e inclusione, attenzione alla produttività ma anche sofisticata etica d’impresa: una “morale del tornio” che merita una migliore valorizzazione.

Il punto di rilancio sta nel rafforzamento e nello sviluppo di un’idea che da tempo assume peso crescente nella strategia dei valori imprenditoriali e confindustriali: fare impresa significa fare cultura, se cultura è non solo letteratura e arti figurative, musica e teatro, cinema e fotografia ma anche l’universo dei saperi scientifici e delle conoscenze tecnologiche, dell’economia e delle relazioni professionali nel mondo del lavoro.

Cultura è infatti, una nuova formula chimica, un dinamico processo di produzione meccanico e meccatronico (rileggere “Il sistema periodico” e “La chiave a stella” di Primo Levi, per averne conferma), un brevetto o un nuovo materiale industriale high tech,  l’architettura di una fabbrica sostenibile (la sicurezza sul lavoro ne è pilastro portante), un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale che migliora la ricerca per prodotti d’avanguardia o una molecola farmaceutica che innova profondamente il mondo delle life sciences, con ricadute positive sulla salute e la qualità della vita di milioni di persone.

Il punto di riferimento di questa idea di cultura d’impresa può stare in una frase famosa di Gio Ponti, intelligenza tra le più creative e produttive dell’architettura e del design: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”.

Fabbriche aperte”, dunque, come obiettivo di percorsi già sperimentati (da Federchimica, oramai da tempo, ma anche in Piemonte, nel Nord Est e in Puglia, nel Giorno delle Piccole Imprese e nelle tante attività di Museimpresa). Di raccordi, con la Giornata del Made in Italy promossa, a metà aprile, dal ministero dell’Industria. E di organizzazione di nuove iniziative, in coincidenza con l’apertura della Settimana della Cultura d’Impresa, a metà novembre. Spirito di comunità e capitale sociale, appunto.

Imprese aperte al pubblico degli stakeholders e alle scuole, fin dagli istituti primari, agli appassionati del turismo industriale (è sempre più interessante vedere dove e come si producono gli oggetti del miglior Made in Italy) ma anche alle donne e agli uomini che per professione raccontano e documentano, scrittori e registi, fotografi e attori. Per costruire così una nuova e più reale rappresentazione della qualità e della sostenibilità, ambientale e sociale, delle nostre imprese. E contribuire a superare quella cultura anti-industriale e anti-scientifica e tecnologica purtroppo ancora tanto diffusa nel nostro Paese.

È un’operazione ambiziosa di quella “cultura politecnica” di cui abbiamo detto, ben oltre le rappresentazioni autoreferenziali e retoriche del tradizionale storytelling. E una scelta strategica che sostiene e rafforza le capacità competitive del sistema produttivo: storia e memoria, bellezza e qualità, creatività e tecnologia d’avanguardia come componenti essenziali di un “orgoglio industriale” che rilancia il Made in Italy a livello globale. Il nostro soft power, appunto.

(foto Getty Images)

Moravia e la fabbrica, storia d’un film mancato e dei conflitti irrisolti tra industria e letteratura

Raccontare la fabbrica, il lavoro, la creatività e la tecnologia, la fatica e i conflitti, la routine produttiva e le trasformazioni. Fare i conti, insomma, con una civiltà industriale connotata dalle tensioni della complessità e irriducibile allo schema del tradizionale scontro di classe. Entrare dentro tensioni e conflitti, piuttosto, analizzandone tutte le caratteristiche. E, per capirne meglio le sfumature, usare non soltanto gli schemi dell’economia e della sociologia quanto soprattutto quelli della letteratura, delle arti figurative e, perché no? del cinema e della fotografia. Una conversazione, appunto. Per usare una parola cara all’illuminismo (e alla sua dialettica) e poi a Elio Vittorini, lo scrittore che, con “Il Politecnico”, dal 1945 al 1947, aveva provato a rinnovare radicalmente la cultura italiana, legando umanesimo e scienza e lasciando un’impronta profonda sull’editoria e la letteratura.

“Veniamo con voi a conversare…”, aveva scritto Alberto Pirelli, presidente, insieme al fratello Piero, della multinazionale milanese fondata dal padre Giovanni Battista, nell’editoriale del primo numero della Rivista “Pirelli”, nel novembre 1948, un periodico di “informazione e tecnica”. Una conversazione, un confronto aperto e spregiudicato, dunque, durato sino al 1972, sui grandi temi dell’economia e della tecnologia, dell’arte e della scienza, ma anche della politica e delle trasformazioni economiche e sociali, sotto la guida di sofisticati intellettuali come Giuseppe Luraghi, Vittorio Sereni e Leonardo Sinisgalli e con la collaborazione delle principali firme della cultura italiana (Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Gio Ponti, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Umberto Eco, Enzo Biagi, Camilla Cederna e tanti altri ancora).

Era la stagione che, dal dopoguerra della dinamica ricostruzione al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, aveva visto tra i protagonisti del dibattito culturale anche le principali riviste aziendali (oltre a quella della Pirelli, la “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica Iri, “Comunità” della Olivetti e “Il gatto selvatico” dell’Eni). E in cui alcuni scrittori, registi, fotografi, artisti avevano provato a fare i conti con la modernità dell’economia, della tecnologia, dell’urbanizzazione, della cultura di massa e delle radicali trasformazioni di consumi e costumi.

All’inizio di quella stagione, tra la primavera e l’estate del 1947, si colloca anche l’incontro tra la Pirelli, il regista Roberto Rossellini e lo scrittore Alberto Moravia, per la realizzazione di un film che avesse al suo centro il racconto dello sviluppo dell’industria, attraverso la rappresentazione delle vicende di una famiglia di operai. Rossellini è entusiasta del progetto. Moravia si mette rapidamente al lavoro e in breve tempo produce un copione, 109 cartelle dattiloscritte attorno alle traversie dei Riva, operai Pirelli, origini contadine ma oramai in fabbrica, alla Bicocca, da tre generazioni, nonno, figlio e tre nipoti (Carlo, Angela e Ida).

Sullo sfondo, la guerra appena finita, la Resistenza contro i nazifascisti e la Liberazione, l’avvio faticoso eppur intenso della democrazia e della ripresa civile e produttiva, l’incrocio difficile tra la forza delle speranze d’una migliore qualità della vita e del lavoro e le prime disillusioni sulla portata del rinnovamento.

Quel film, però, non vedrà mai la luce. Ne resta il copione, a lungo custodito nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli e adesso pubblicato da Bompiani, con il titolo originario, “Questa è la nostra città”, a cura di Alessandra Grandelis e con una postfazione di Giuseppe Lupo.

Cos’era successo? Problemi di alti costi dell’operazione (75 milioni di lire, tanti, in un momento di difficoltà della ripresa, di inflazione e di severa attenzione ai conti). Ma soprattutto di mancata sintonia tra la committenza Pirelli e Moravia.

Il copione, infatti, tiene sullo sfondo la fabbrica e il binomio antifascismo-mondo del lavoro che aveva connotato gli anni milanesi dal ‘43 al ‘45. E si concentra sui conflitti dell’ultima generazione dei Riva, che rifiutano la condizione operaia e i suoi valori e sognano invece vita facile, arricchimento veloce, disinvoltura dei comportamenti, sino al coinvolgimento in affari illegali d’una banda criminale. Con un esito tragico: la morte di Angela. Anima nera. Disperazione.

In una lettera ad Alberto Pirelli, Giuseppe Luraghi, manager e uomo di profonda cultura (sarà, anni dopo, protagonista del successo dell’Alfa Romeo, ma anche raffinato editore) esprime chiare riserve: “A me pare che, trattandosi di un film Pirelli, troppo si insista sui loschi intrighi che, in realtà, finiscono per costituire il fulcro del racconto. La fabbrica rimane estranea e convenzionale, là dove essa dovrebbe costituire non lo sfondo, ma la protagonista della vicenda”.

Il giudizio negativo di Luraghi è ripreso dalla postfazione di Lupo, che commenta: “Quel che non piace a Luraghi è l’essere la fabbrica un luogo che poco incide sulle sorti tanto della gente comune quanto in quelle della nazione” e addirittura “si connota di sfumature latamente immorali, essendo alcuni personaggi collusi con la piccola criminalità di periferia… quasi a suggerire un vincolo tra industrializzazione e malavita, come prezzo da pagare sull’altare della modernità in espansione”.

“Moravia e la fabbrica, storia di un fallimento”, è il titolo della Domenica de “Il Sole24Ore” che pubblica stralci della postfazione di Lupo (18 maggio).

“E Moravia restò fuori dalla fabbrica”, titola il “Corriere della Sera” per un articolo di Paolo Di Stefano (12 maggio) sulla pubblicazione di “Questa è la nostra città”. Nota Di Stefano: “Forse manca, dal soggetto di Moravia, l’ambiente tecnico del lavoro che stava più a cuore al committente, decisamente insoddisfatto, benché la vicenda si concluda, dopo la tragedia, con un’apertura di luce affidata proprio alla fabbrica”.

Ecco, appunto, Moravia: “Le sirene ripetono il loro richiamo. Il treno si allontana sbuffando. I mille rumori della fabbrica in attività, severi, inesorabili quasi, riempiono l’aria. Nella sua maestosa grandezza e potenza, par che la fabbrica livelli ogni cosa, racchiudendola nel suo grande abbraccio. La vita ricomincia – e ricomincia il duro, pesante, ma pur necessario, ma sano, ma benefico, ma benedetto lavoro di tutti i giorni”.

Insiste Lupo: Moravia “pensava a una pellicola imbevuta di neorealismo, secondo i modi di una poetica che in quegli anni intrecciava esistenzialismo e questioni sociali, solitudine e fordismo”. Con un limite: la scarsa conoscenza dell’autore della cultura industriale e del linguaggio operaio: “La periferia milanese non presenta gli stessi caratteri del suburbio romano, ha un’impronta decisamente più civile, è il luogo del proletariato (raccontato da Testori) anziché del sottoproletariato (raccontato da Pasolini)”.

In fin dei conti, una conversazione mancata. E dunque un film mai realizzato.

Restano, nel testo appena pubblicato, la qualità della scrittura moraviana, il suo gusto per le immagini, il sofisticato linguaggio visivo di un intellettuale che ama il cinema. Si perde però il senso profondo del rapporto originale tra letteratura e modernità industriale.

Una sfida mancata che, durante tutta la seconda metà del Novecento, coinvolge gran parte dell’intellettualità contemporanea, eccezion fatta per Vittorini, Sinisgalli e Sereni, gli “olivettiani” (Zorzi, Ottieri, Volponi, per fare solo alcuni nomi) e i collaboratori delle riviste aziendali cui abbiamo fatto cenno. Proprio Giuseppe Lupo ne ha documentato tensioni e cadute in un saggio di grande rilievo, “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” (Marsilio, 2023).

La questione del rapporto letteratura-modernità resta comunque d’attualità. Perché è davvero necessario costruire una nuova e migliore rappresentazione dell’industria e del lavoro, proprio quando le tecnologie digitali e la coscienza della sostenibilità ambientale e sociale stanno radicalmente cambiando prodotti, sistemi di produzione, commerci e consumi. E dunque provare a costruire un racconto dell’impresa come attore non solo economico ma anche sociale, culturale e civile.

È una sfida essenziale. Che riguarda le imprese, che devono imparare a essere sempre più “aperte” e “connesse” (i due termini che connotano i progetti del Gruppo tecnico Cultura di Confindustria) e dunque a parlare con sincerità e trasparenza con tutti gli stakeholders, per creare valore economico facendo leva sui valori generali e gli interessi generali delle comunità di riferimento.

Ma è anche una sfida che investe in pieno gli ambienti culturali, della comunicazione e della formazione: scrittori, artisti, registi del cinema e del teatro, fotografi, giornalisti, autori Tv, architetti e designer, esperti dei mondi digitali e dell’Intelligenza Artificiale. Ben sapendo che fare impresa significa fare cultura. E che l’impresa culturale, in tutte le sue molteplici forme creative, non può non fare finalmente i conti con una caratteristica di fondo dell’Italia: l’essere ancora, pur nel nuovo contesto tecnologico e competitivo, un grande paese industriale.

Uscita operai Bicocca, foto Calcagni, 1955 (Fondazione Pirelli)

Raccontare la fabbrica, il lavoro, la creatività e la tecnologia, la fatica e i conflitti, la routine produttiva e le trasformazioni. Fare i conti, insomma, con una civiltà industriale connotata dalle tensioni della complessità e irriducibile allo schema del tradizionale scontro di classe. Entrare dentro tensioni e conflitti, piuttosto, analizzandone tutte le caratteristiche. E, per capirne meglio le sfumature, usare non soltanto gli schemi dell’economia e della sociologia quanto soprattutto quelli della letteratura, delle arti figurative e, perché no? del cinema e della fotografia. Una conversazione, appunto. Per usare una parola cara all’illuminismo (e alla sua dialettica) e poi a Elio Vittorini, lo scrittore che, con “Il Politecnico”, dal 1945 al 1947, aveva provato a rinnovare radicalmente la cultura italiana, legando umanesimo e scienza e lasciando un’impronta profonda sull’editoria e la letteratura.

“Veniamo con voi a conversare…”, aveva scritto Alberto Pirelli, presidente, insieme al fratello Piero, della multinazionale milanese fondata dal padre Giovanni Battista, nell’editoriale del primo numero della Rivista “Pirelli”, nel novembre 1948, un periodico di “informazione e tecnica”. Una conversazione, un confronto aperto e spregiudicato, dunque, durato sino al 1972, sui grandi temi dell’economia e della tecnologia, dell’arte e della scienza, ma anche della politica e delle trasformazioni economiche e sociali, sotto la guida di sofisticati intellettuali come Giuseppe Luraghi, Vittorio Sereni e Leonardo Sinisgalli e con la collaborazione delle principali firme della cultura italiana (Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Gio Ponti, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Umberto Eco, Enzo Biagi, Camilla Cederna e tanti altri ancora).

Era la stagione che, dal dopoguerra della dinamica ricostruzione al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, aveva visto tra i protagonisti del dibattito culturale anche le principali riviste aziendali (oltre a quella della Pirelli, la “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica Iri, “Comunità” della Olivetti e “Il gatto selvatico” dell’Eni). E in cui alcuni scrittori, registi, fotografi, artisti avevano provato a fare i conti con la modernità dell’economia, della tecnologia, dell’urbanizzazione, della cultura di massa e delle radicali trasformazioni di consumi e costumi.

All’inizio di quella stagione, tra la primavera e l’estate del 1947, si colloca anche l’incontro tra la Pirelli, il regista Roberto Rossellini e lo scrittore Alberto Moravia, per la realizzazione di un film che avesse al suo centro il racconto dello sviluppo dell’industria, attraverso la rappresentazione delle vicende di una famiglia di operai. Rossellini è entusiasta del progetto. Moravia si mette rapidamente al lavoro e in breve tempo produce un copione, 109 cartelle dattiloscritte attorno alle traversie dei Riva, operai Pirelli, origini contadine ma oramai in fabbrica, alla Bicocca, da tre generazioni, nonno, figlio e tre nipoti (Carlo, Angela e Ida).

Sullo sfondo, la guerra appena finita, la Resistenza contro i nazifascisti e la Liberazione, l’avvio faticoso eppur intenso della democrazia e della ripresa civile e produttiva, l’incrocio difficile tra la forza delle speranze d’una migliore qualità della vita e del lavoro e le prime disillusioni sulla portata del rinnovamento.

Quel film, però, non vedrà mai la luce. Ne resta il copione, a lungo custodito nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli e adesso pubblicato da Bompiani, con il titolo originario, “Questa è la nostra città”, a cura di Alessandra Grandelis e con una postfazione di Giuseppe Lupo.

Cos’era successo? Problemi di alti costi dell’operazione (75 milioni di lire, tanti, in un momento di difficoltà della ripresa, di inflazione e di severa attenzione ai conti). Ma soprattutto di mancata sintonia tra la committenza Pirelli e Moravia.

Il copione, infatti, tiene sullo sfondo la fabbrica e il binomio antifascismo-mondo del lavoro che aveva connotato gli anni milanesi dal ‘43 al ‘45. E si concentra sui conflitti dell’ultima generazione dei Riva, che rifiutano la condizione operaia e i suoi valori e sognano invece vita facile, arricchimento veloce, disinvoltura dei comportamenti, sino al coinvolgimento in affari illegali d’una banda criminale. Con un esito tragico: la morte di Angela. Anima nera. Disperazione.

In una lettera ad Alberto Pirelli, Giuseppe Luraghi, manager e uomo di profonda cultura (sarà, anni dopo, protagonista del successo dell’Alfa Romeo, ma anche raffinato editore) esprime chiare riserve: “A me pare che, trattandosi di un film Pirelli, troppo si insista sui loschi intrighi che, in realtà, finiscono per costituire il fulcro del racconto. La fabbrica rimane estranea e convenzionale, là dove essa dovrebbe costituire non lo sfondo, ma la protagonista della vicenda”.

Il giudizio negativo di Luraghi è ripreso dalla postfazione di Lupo, che commenta: “Quel che non piace a Luraghi è l’essere la fabbrica un luogo che poco incide sulle sorti tanto della gente comune quanto in quelle della nazione” e addirittura “si connota di sfumature latamente immorali, essendo alcuni personaggi collusi con la piccola criminalità di periferia… quasi a suggerire un vincolo tra industrializzazione e malavita, come prezzo da pagare sull’altare della modernità in espansione”.

“Moravia e la fabbrica, storia di un fallimento”, è il titolo della Domenica de “Il Sole24Ore” che pubblica stralci della postfazione di Lupo (18 maggio).

“E Moravia restò fuori dalla fabbrica”, titola il “Corriere della Sera” per un articolo di Paolo Di Stefano (12 maggio) sulla pubblicazione di “Questa è la nostra città”. Nota Di Stefano: “Forse manca, dal soggetto di Moravia, l’ambiente tecnico del lavoro che stava più a cuore al committente, decisamente insoddisfatto, benché la vicenda si concluda, dopo la tragedia, con un’apertura di luce affidata proprio alla fabbrica”.

Ecco, appunto, Moravia: “Le sirene ripetono il loro richiamo. Il treno si allontana sbuffando. I mille rumori della fabbrica in attività, severi, inesorabili quasi, riempiono l’aria. Nella sua maestosa grandezza e potenza, par che la fabbrica livelli ogni cosa, racchiudendola nel suo grande abbraccio. La vita ricomincia – e ricomincia il duro, pesante, ma pur necessario, ma sano, ma benefico, ma benedetto lavoro di tutti i giorni”.

Insiste Lupo: Moravia “pensava a una pellicola imbevuta di neorealismo, secondo i modi di una poetica che in quegli anni intrecciava esistenzialismo e questioni sociali, solitudine e fordismo”. Con un limite: la scarsa conoscenza dell’autore della cultura industriale e del linguaggio operaio: “La periferia milanese non presenta gli stessi caratteri del suburbio romano, ha un’impronta decisamente più civile, è il luogo del proletariato (raccontato da Testori) anziché del sottoproletariato (raccontato da Pasolini)”.

In fin dei conti, una conversazione mancata. E dunque un film mai realizzato.

Restano, nel testo appena pubblicato, la qualità della scrittura moraviana, il suo gusto per le immagini, il sofisticato linguaggio visivo di un intellettuale che ama il cinema. Si perde però il senso profondo del rapporto originale tra letteratura e modernità industriale.

Una sfida mancata che, durante tutta la seconda metà del Novecento, coinvolge gran parte dell’intellettualità contemporanea, eccezion fatta per Vittorini, Sinisgalli e Sereni, gli “olivettiani” (Zorzi, Ottieri, Volponi, per fare solo alcuni nomi) e i collaboratori delle riviste aziendali cui abbiamo fatto cenno. Proprio Giuseppe Lupo ne ha documentato tensioni e cadute in un saggio di grande rilievo, “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” (Marsilio, 2023).

La questione del rapporto letteratura-modernità resta comunque d’attualità. Perché è davvero necessario costruire una nuova e migliore rappresentazione dell’industria e del lavoro, proprio quando le tecnologie digitali e la coscienza della sostenibilità ambientale e sociale stanno radicalmente cambiando prodotti, sistemi di produzione, commerci e consumi. E dunque provare a costruire un racconto dell’impresa come attore non solo economico ma anche sociale, culturale e civile.

È una sfida essenziale. Che riguarda le imprese, che devono imparare a essere sempre più “aperte” e “connesse” (i due termini che connotano i progetti del Gruppo tecnico Cultura di Confindustria) e dunque a parlare con sincerità e trasparenza con tutti gli stakeholders, per creare valore economico facendo leva sui valori generali e gli interessi generali delle comunità di riferimento.

Ma è anche una sfida che investe in pieno gli ambienti culturali, della comunicazione e della formazione: scrittori, artisti, registi del cinema e del teatro, fotografi, giornalisti, autori Tv, architetti e designer, esperti dei mondi digitali e dell’Intelligenza Artificiale. Ben sapendo che fare impresa significa fare cultura. E che l’impresa culturale, in tutte le sue molteplici forme creative, non può non fare finalmente i conti con una caratteristica di fondo dell’Italia: l’essere ancora, pur nel nuovo contesto tecnologico e competitivo, un grande paese industriale.

Uscita operai Bicocca, foto Calcagni, 1955 (Fondazione Pirelli)

Diventare imprenditori, dal dire al fare…

Fare impresa. Decisione importante, complessa, seria. Che richiede impegno e volontà. La propensione verso l’imprenditorialità è un segnale per comprendere un territorio così come un sistema economico e sociale. Pensare di “fare l’imprenditore” implica una cultura del produrre che accetta anche il rischio di produrre. È interessante allora leggere “L’attivazione imprenditoriale in Italia. Rapporto GEM 2024-2025” appena pubblicato (in open access) a cura di Alessandra Micozzi.

L’indagine GEM (Global Entrepreneurship Monitor) – un progetto USA/UK che ha origine nel 1999 e che oggi coinvolge più di 100 Paesi nel mondo – si pone come il principale strumento di studio dell’attività imprenditoriale, e un importante mezzo per orientare le politiche di sostegno e sviluppo all’imprenditoria.

L’indicazione che emerge dalla ricerca per il nostro Paese, è che circa la metà di quanti, in Italia, dichiarano di voler avviare un’attività imprenditoriale alla fine ci rinunciano. E, malgrado la ripresa degli ultimi anni, il nostro rimane fra i Paesi a più bassa propensione imprenditoriale.

Oltre al dato, la ricerca indica i motivi e gli strumenti utili per intervenire. C’è, emerge dal testo, un problema di tipo finanziario che assume crescente rilievo; ma c’è anche la necessità di avere appoggio agli obiettivi di sostenibilità economica, ambientale e sociale che la nuova impresa si deve porre. Il Rapporto GEM, però, va oltre e cerca di approfondire le cause – indicate in fattori soggettivi, fattori di contesto e culturali- che nel nostro Paese contribuiscono a spiegare la discrepanza osservata fra l’intenzione imprenditoriale e la sua effettiva traduzione nell’avvio di nuove imprese.

Viene sottolineato nelle pagine di sintesi dell’indagine come “per rimettere al centro la figura imprenditoriale occorre indagarne le motivazioni personali, gli ostacoli che incontra, le proiezioni di quanti ritengono di cimentarsi al riguardo”. E poi ancora viene rilevato come sia necessario lavorare “sul  terreno  che  intreccia  imprenditoria,  cultura  e  territori”.

L’attivazione imprenditoriale in Italia. Rapporto GEM 2024-2025

Alessandra Micozzi (a cura di)

Franco Angeli, 2025

Fare impresa. Decisione importante, complessa, seria. Che richiede impegno e volontà. La propensione verso l’imprenditorialità è un segnale per comprendere un territorio così come un sistema economico e sociale. Pensare di “fare l’imprenditore” implica una cultura del produrre che accetta anche il rischio di produrre. È interessante allora leggere “L’attivazione imprenditoriale in Italia. Rapporto GEM 2024-2025” appena pubblicato (in open access) a cura di Alessandra Micozzi.

L’indagine GEM (Global Entrepreneurship Monitor) – un progetto USA/UK che ha origine nel 1999 e che oggi coinvolge più di 100 Paesi nel mondo – si pone come il principale strumento di studio dell’attività imprenditoriale, e un importante mezzo per orientare le politiche di sostegno e sviluppo all’imprenditoria.

L’indicazione che emerge dalla ricerca per il nostro Paese, è che circa la metà di quanti, in Italia, dichiarano di voler avviare un’attività imprenditoriale alla fine ci rinunciano. E, malgrado la ripresa degli ultimi anni, il nostro rimane fra i Paesi a più bassa propensione imprenditoriale.

Oltre al dato, la ricerca indica i motivi e gli strumenti utili per intervenire. C’è, emerge dal testo, un problema di tipo finanziario che assume crescente rilievo; ma c’è anche la necessità di avere appoggio agli obiettivi di sostenibilità economica, ambientale e sociale che la nuova impresa si deve porre. Il Rapporto GEM, però, va oltre e cerca di approfondire le cause – indicate in fattori soggettivi, fattori di contesto e culturali- che nel nostro Paese contribuiscono a spiegare la discrepanza osservata fra l’intenzione imprenditoriale e la sua effettiva traduzione nell’avvio di nuove imprese.

Viene sottolineato nelle pagine di sintesi dell’indagine come “per rimettere al centro la figura imprenditoriale occorre indagarne le motivazioni personali, gli ostacoli che incontra, le proiezioni di quanti ritengono di cimentarsi al riguardo”. E poi ancora viene rilevato come sia necessario lavorare “sul  terreno  che  intreccia  imprenditoria,  cultura  e  territori”.

L’attivazione imprenditoriale in Italia. Rapporto GEM 2024-2025

Alessandra Micozzi (a cura di)

Franco Angeli, 2025

Sostenibile etica d’impresa

Pubblicata una ricerca che cerca di sintetizzare e collegare una serie di concetti che devono far parte della buona cultura del produrre

Impresa sostenibile. E società sostenibile. “Sostenibilità” è diventata una parola d’ordine (mantra) diffusa in quasi tutti gli ambiti dell’attività umana, incluso il cosiddetto mondo degli affari. Mantra che è necessario affrontare con attenzione e accuratezza: consapevoli delle molte sfumature e degli altrettanti numerosi fraintendimenti che si porta dietro. Occorrono, quindi, molti elementi per ragionare correttamente sulla sostenibilità. Soprattutto tenendo conto che spesso la sostenibilità va di pari passo con l’etica e costituisce ormai uno dei fondamenti della buona cultura della produzione. È su tutto questo che ragiona la ricerca di Dipak R. Pant pubblicata da poco sull’International Scientific Journal.

“Business ethics, environmental justice, and the path to sustainability. Interdisciplinary reflections across anthropology and economics” intende condividere, stando alle dichiarazioni iniziali dell’autore, alcune riflessioni interdisciplinari basate sull’osservazione dell’etica aziendale e della giustizia ambientale in diversi contesti culturali. Pant parte dalla constatazione che al termine sostenibilità sono stati attribuiti diversi significati in questi ultimi tempi. Essenzialmente, tuttavia, questo vocabolo indica responsabilità sociale, giustizia ambientale e pratiche commerciali etiche. Concetti che si applicano sia alle organizzazioni della produzione che ai sistemi sociali. L’etica aziendale, spiega ancora Pant, si riferisce non solo al trattamento equo dei soggetti umani direttamente coinvolti (dipendenti, fornitori, intermediari, clienti, ecc.), ma anche all’equità in tutte le operazioni aziendali, considerando il loro impatto sulla società e sull’ambiente.

Concetto a sua volta complesso – fa notare Pant – quello di equità; concetto che tocca più aspetti dell’agire umano oltre che dell’ambiente inteso in tutta la sua completezza. La sostenibilità d’impresa si realizza nell’uso/condivisione corretti delle risorse naturali. E le organizzazioni aziendali, in quanto attori economici attivi, sono sempre più sollecitate a ridurre le proprie esternalità negative e a condurre i propri affari in modo etico e giusto. La ricerca della sostenibilità, fa notare Pant, riguarda essenzialmente pratiche commerciali etiche e giustizia ambientale.

L’indagine di Dipak R. Pant costituisce una buona sintesi di temi oggettivamente complessi e in continuo mutamento. Temi importanti per ogni imprenditore e manager ma, in fin dei conti, importanti per ogni persona all’interno di un’organizzazione.

Business ethics, environmental justice, and the path to sustainability. Interdisciplinary reflections across anthropology and economics

Dipak R. Pant

International Scientific Journal «Science and innovation» Special issue: green energy and economics May 2-3, 2025

Pubblicata una ricerca che cerca di sintetizzare e collegare una serie di concetti che devono far parte della buona cultura del produrre

Impresa sostenibile. E società sostenibile. “Sostenibilità” è diventata una parola d’ordine (mantra) diffusa in quasi tutti gli ambiti dell’attività umana, incluso il cosiddetto mondo degli affari. Mantra che è necessario affrontare con attenzione e accuratezza: consapevoli delle molte sfumature e degli altrettanti numerosi fraintendimenti che si porta dietro. Occorrono, quindi, molti elementi per ragionare correttamente sulla sostenibilità. Soprattutto tenendo conto che spesso la sostenibilità va di pari passo con l’etica e costituisce ormai uno dei fondamenti della buona cultura della produzione. È su tutto questo che ragiona la ricerca di Dipak R. Pant pubblicata da poco sull’International Scientific Journal.

“Business ethics, environmental justice, and the path to sustainability. Interdisciplinary reflections across anthropology and economics” intende condividere, stando alle dichiarazioni iniziali dell’autore, alcune riflessioni interdisciplinari basate sull’osservazione dell’etica aziendale e della giustizia ambientale in diversi contesti culturali. Pant parte dalla constatazione che al termine sostenibilità sono stati attribuiti diversi significati in questi ultimi tempi. Essenzialmente, tuttavia, questo vocabolo indica responsabilità sociale, giustizia ambientale e pratiche commerciali etiche. Concetti che si applicano sia alle organizzazioni della produzione che ai sistemi sociali. L’etica aziendale, spiega ancora Pant, si riferisce non solo al trattamento equo dei soggetti umani direttamente coinvolti (dipendenti, fornitori, intermediari, clienti, ecc.), ma anche all’equità in tutte le operazioni aziendali, considerando il loro impatto sulla società e sull’ambiente.

Concetto a sua volta complesso – fa notare Pant – quello di equità; concetto che tocca più aspetti dell’agire umano oltre che dell’ambiente inteso in tutta la sua completezza. La sostenibilità d’impresa si realizza nell’uso/condivisione corretti delle risorse naturali. E le organizzazioni aziendali, in quanto attori economici attivi, sono sempre più sollecitate a ridurre le proprie esternalità negative e a condurre i propri affari in modo etico e giusto. La ricerca della sostenibilità, fa notare Pant, riguarda essenzialmente pratiche commerciali etiche e giustizia ambientale.

L’indagine di Dipak R. Pant costituisce una buona sintesi di temi oggettivamente complessi e in continuo mutamento. Temi importanti per ogni imprenditore e manager ma, in fin dei conti, importanti per ogni persona all’interno di un’organizzazione.

Business ethics, environmental justice, and the path to sustainability. Interdisciplinary reflections across anthropology and economics

Dipak R. Pant

International Scientific Journal «Science and innovation» Special issue: green energy and economics May 2-3, 2025

“L’Italia dei brevetti” vola in Giappone. Pirelli al Padiglione Italia dell’Expo di Osaka

Pirelli è tra le aziende selezionate dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per la partecipazione alla mostra “Italia dei brevetti – Storie di innovazione e successo” all’Esposizione Universale di Osaka (13 aprile-13 ottobre 2025), all’interno del Padiglione Italia.

Il Padiglione Italia a Expo 2025, rivisitazione in chiave moderna della Città Ideale del Rinascimento, pone al centro della riflessione il valore della persona e le sue interazioni con il mondo circostante; “pensare con le mani” è il concetto che ispira lo sviluppo del progetto. Si inserisce dunque in questo contesto il contributo del MIMIT nel proporre ai visitatori dell’Esposizione Universale il “saper fare” e la capacità di innovare dell’Italia e delle sue imprese.

L’allestimento rappresenta una sintesi degli oltre 100 brevetti esposti a Roma, a Palazzo Piacentini, dal 18 novembre al 2 aprile 2025. Un’esposizione che, attraverso le invenzioni industriali, racconta la capacità italiana di innovare mettendo a confronto diverse generazioni di creatori. Pirelli è presente con il brevetto della tecnologia Run Forward™, depositato nel 2021: un’innovazione applicata al pneumatico P Zero™ E, costituito da oltre il 55% di materiali di origine naturale e riciclati e per questo esposto in mostra insieme a immagini e campioni di lignina, silice da cenere di lolla di riso, bioresine, gomma naturale, polimeri bio e circolari.

La mostra si conferma una preziosa vetrina per il Made in Italy, sinonimo di qualità, eccellenza, visione. Dall’Italia al mondo.

Pirelli è tra le aziende selezionate dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per la partecipazione alla mostra “Italia dei brevetti – Storie di innovazione e successo” all’Esposizione Universale di Osaka (13 aprile-13 ottobre 2025), all’interno del Padiglione Italia.

Il Padiglione Italia a Expo 2025, rivisitazione in chiave moderna della Città Ideale del Rinascimento, pone al centro della riflessione il valore della persona e le sue interazioni con il mondo circostante; “pensare con le mani” è il concetto che ispira lo sviluppo del progetto. Si inserisce dunque in questo contesto il contributo del MIMIT nel proporre ai visitatori dell’Esposizione Universale il “saper fare” e la capacità di innovare dell’Italia e delle sue imprese.

L’allestimento rappresenta una sintesi degli oltre 100 brevetti esposti a Roma, a Palazzo Piacentini, dal 18 novembre al 2 aprile 2025. Un’esposizione che, attraverso le invenzioni industriali, racconta la capacità italiana di innovare mettendo a confronto diverse generazioni di creatori. Pirelli è presente con il brevetto della tecnologia Run Forward™, depositato nel 2021: un’innovazione applicata al pneumatico P Zero™ E, costituito da oltre il 55% di materiali di origine naturale e riciclati e per questo esposto in mostra insieme a immagini e campioni di lignina, silice da cenere di lolla di riso, bioresine, gomma naturale, polimeri bio e circolari.

La mostra si conferma una preziosa vetrina per il Made in Italy, sinonimo di qualità, eccellenza, visione. Dall’Italia al mondo.

Alla luce una sceneggiatura di Moravia per Rossellini

Storia esemplare di un uomo d’impresa

Da poco pubblicata una ricerca che mette in luce l’importanza dei lavoratori intermedi nelle fabbriche e negli uffici

 

Operai oppure grandi imprenditori. Nella narrazione fatta da quasi tutta la letteratura storica d’impresa, sembra siano queste le due categorie che occupano più pagine in assoluto. Lo dice bene Andrea Negro – dottorando in studi storici, geografici e antropologici presso l’Università di Padova – in un bel saggio da poco pubblicato che cerca di analizzare la “classe di mezzo” delle imprese.

“‘Il progresso tecnico non è mai nato da sogni e favole’. La storia di Mario Croce, dalla Società per azioni ferriere e acciaierie di Udine (Safau) al mondo” prende le mosse proprio da questa constatazione. Scrive l’autore nelle primissime righe della sua ricerca: “Messi in ombra da un lato dallo studio delle vicende imprenditoriali e dall’altro dalla storia del lavoro operaio, gli strati intermedi della fabbrica” e cioè ad esempio “capi, tecnici, ingegneri e progettisti, hanno trovato meno spazio nell’ambito degli studi storici”. Non così, certo, è accaduto e accade nella letteratura a tutto tondo che si è occupata e si occupa di storie d’azienda, ma – come si è detto – in quella più attenta agli aspetti storici il fenomeno è rilevante. Ed è a questa mancanza che Andrea Negro vuole rimediare.

La ricerca intreccia la teoria con il racconto di una vita reale vissuta in fabbrica, quella di Mario Croce: tecnico della siderurgia, a partire dal 1947 tramite la Safau di Udine prima e la Danieli & C. Croce ha dato un contributo determinante allo sviluppo della colata continua, importante innovazione nel panorama globale dell’acciaio, dirigendo l’installazione di quasi 110 impianti nel mondo. Ma è stato, appunto, sempre una figura intermedia, importante e determinante ma pur sempre componente “a metà” negli organigrammi. Ed è, appunto, sulla storia di Mario Croce assunta a paradigma di una categoria di lavoratori, che Andrea Negro fonda la sua indagine. È così che la cultura d’impresa (industriale) che spesso viene attribuita, a seconda degli studi, alla classe imprenditoriale oppure a quella operaia, trova altri paladini che si dimostrano essenziali per la sua crescita e diffusione.

È da leggere e apprezzare lo studio di Negro – condotto tra l’altro attraverso i documenti dell’archivio privato di Mario Croce – anche perché dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno, quanto la storia delle imprese debba sempre essere ricondotta a quella delle persone che le popolano.

“Il progresso tecnico non è mai nato da sogni e favole”. La storia di Mario Croce, dalla Società per azioni ferriere e acciaierie di Udine (Safau) al mondo 

Andrea Negro

SOCIETÀ E STORIA, 2025/187

Da poco pubblicata una ricerca che mette in luce l’importanza dei lavoratori intermedi nelle fabbriche e negli uffici

 

Operai oppure grandi imprenditori. Nella narrazione fatta da quasi tutta la letteratura storica d’impresa, sembra siano queste le due categorie che occupano più pagine in assoluto. Lo dice bene Andrea Negro – dottorando in studi storici, geografici e antropologici presso l’Università di Padova – in un bel saggio da poco pubblicato che cerca di analizzare la “classe di mezzo” delle imprese.

“‘Il progresso tecnico non è mai nato da sogni e favole’. La storia di Mario Croce, dalla Società per azioni ferriere e acciaierie di Udine (Safau) al mondo” prende le mosse proprio da questa constatazione. Scrive l’autore nelle primissime righe della sua ricerca: “Messi in ombra da un lato dallo studio delle vicende imprenditoriali e dall’altro dalla storia del lavoro operaio, gli strati intermedi della fabbrica” e cioè ad esempio “capi, tecnici, ingegneri e progettisti, hanno trovato meno spazio nell’ambito degli studi storici”. Non così, certo, è accaduto e accade nella letteratura a tutto tondo che si è occupata e si occupa di storie d’azienda, ma – come si è detto – in quella più attenta agli aspetti storici il fenomeno è rilevante. Ed è a questa mancanza che Andrea Negro vuole rimediare.

La ricerca intreccia la teoria con il racconto di una vita reale vissuta in fabbrica, quella di Mario Croce: tecnico della siderurgia, a partire dal 1947 tramite la Safau di Udine prima e la Danieli & C. Croce ha dato un contributo determinante allo sviluppo della colata continua, importante innovazione nel panorama globale dell’acciaio, dirigendo l’installazione di quasi 110 impianti nel mondo. Ma è stato, appunto, sempre una figura intermedia, importante e determinante ma pur sempre componente “a metà” negli organigrammi. Ed è, appunto, sulla storia di Mario Croce assunta a paradigma di una categoria di lavoratori, che Andrea Negro fonda la sua indagine. È così che la cultura d’impresa (industriale) che spesso viene attribuita, a seconda degli studi, alla classe imprenditoriale oppure a quella operaia, trova altri paladini che si dimostrano essenziali per la sua crescita e diffusione.

È da leggere e apprezzare lo studio di Negro – condotto tra l’altro attraverso i documenti dell’archivio privato di Mario Croce – anche perché dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno, quanto la storia delle imprese debba sempre essere ricondotta a quella delle persone che le popolano.

“Il progresso tecnico non è mai nato da sogni e favole”. La storia di Mario Croce, dalla Società per azioni ferriere e acciaierie di Udine (Safau) al mondo 

Andrea Negro

SOCIETÀ E STORIA, 2025/187

Storia di un uomo d’impresa

La narrazione della vita di Enrico Loccioni dalla terra all’industria

Vita d’impresa. Nel vero senso della parola: una vita spesa per fare impresa. E un’impresa originale, come d’altra parte sono tutte le imprese che davvero possono dirsi tali. Apprendere vicende di questo genere fa bene a tutti. Anche a chi non pensa di farsi imprenditore. Perché sono storie di vite spese bene, dedite a costruire qualcosa (e non solo di materiale).

Per questo è bello leggere “La terra e le idee”, libro di Mario Bartocci appena dato alle stampe che ha un sottotitolo che è la sintesi di tutto: “Enrico Loccioni e l’impresa come bene comune”. Perché il libro è il racconto di un uomo – Enrico Loccioni, appunto – e della sua cocciutaggine nel pensare prima e realizzare poi un’impresa che fosse bene comune, cioè di tutti.

Racconto, quindi, quasi un romanzo che attraversa la storia personale dell’imprenditore Enrico Loccioni che si intreccia con quella dell’uomo Enrico Loccioni. Quella di Loccioni, nato e cresciuto “sopra una stalla” nell’entroterra marchigiano, è la vita con lo sfondo della storia del paese, dal boom economico alle sfide di oggi. L’infanzia in campagna, in una casa in cui non c’era energia elettrica, né acqua corrente, la scuola rurale, la voglia di riscatto, l’arrivo dell’elettricità. La voglia di libertà, la “tigna” e l’intelligenza. Tutto questo porta il protagonista a sviluppare nel tempo un modello d’impresa basato sulle persone e sulla conoscenza. Un modello che si è dimostrato vincente e che ha attraversato le crisi, i cambiamenti, i passaggi, con lo sguardo fisso ad un futuro che deve essere fatto di “bellezza, benessere e sostenibilità”. Anche se si producono sistemi di misura e controllo” per grandi imprese che realizzano auto, elettrodomestici, energia, farmaci, aerei, treni.

Racconto s’è detto, ma – come viene precisato dall’autore – non tanto su Enrico Loccioni, ma, attraverso di lui, su come si possa costruire un’impresa che funziona per davvero. Dice il protagonista ad un certo punto del libro: “Fin da quando ho cominciato a fare l’imprenditore ho cercato sempre di pensare l’impresa come comunità di persone piuttosto che come società di capitali, di utilizzare la tecnologia con me strumento piuttosto che come fine, di vedere il rapporto con la natura come integrazione piuttosto che contrapposizione; ho inoltre considerato lo sviluppo della conoscenza come punto essenziale dell’esercizio e della affermazione dell’impresa”.

La terra e le idee. Enrico Loccioni e l’impresa come bene comune

Mario Bartocci

Desiderio Editore, 2025

La narrazione della vita di Enrico Loccioni dalla terra all’industria

Vita d’impresa. Nel vero senso della parola: una vita spesa per fare impresa. E un’impresa originale, come d’altra parte sono tutte le imprese che davvero possono dirsi tali. Apprendere vicende di questo genere fa bene a tutti. Anche a chi non pensa di farsi imprenditore. Perché sono storie di vite spese bene, dedite a costruire qualcosa (e non solo di materiale).

Per questo è bello leggere “La terra e le idee”, libro di Mario Bartocci appena dato alle stampe che ha un sottotitolo che è la sintesi di tutto: “Enrico Loccioni e l’impresa come bene comune”. Perché il libro è il racconto di un uomo – Enrico Loccioni, appunto – e della sua cocciutaggine nel pensare prima e realizzare poi un’impresa che fosse bene comune, cioè di tutti.

Racconto, quindi, quasi un romanzo che attraversa la storia personale dell’imprenditore Enrico Loccioni che si intreccia con quella dell’uomo Enrico Loccioni. Quella di Loccioni, nato e cresciuto “sopra una stalla” nell’entroterra marchigiano, è la vita con lo sfondo della storia del paese, dal boom economico alle sfide di oggi. L’infanzia in campagna, in una casa in cui non c’era energia elettrica, né acqua corrente, la scuola rurale, la voglia di riscatto, l’arrivo dell’elettricità. La voglia di libertà, la “tigna” e l’intelligenza. Tutto questo porta il protagonista a sviluppare nel tempo un modello d’impresa basato sulle persone e sulla conoscenza. Un modello che si è dimostrato vincente e che ha attraversato le crisi, i cambiamenti, i passaggi, con lo sguardo fisso ad un futuro che deve essere fatto di “bellezza, benessere e sostenibilità”. Anche se si producono sistemi di misura e controllo” per grandi imprese che realizzano auto, elettrodomestici, energia, farmaci, aerei, treni.

Racconto s’è detto, ma – come viene precisato dall’autore – non tanto su Enrico Loccioni, ma, attraverso di lui, su come si possa costruire un’impresa che funziona per davvero. Dice il protagonista ad un certo punto del libro: “Fin da quando ho cominciato a fare l’imprenditore ho cercato sempre di pensare l’impresa come comunità di persone piuttosto che come società di capitali, di utilizzare la tecnologia con me strumento piuttosto che come fine, di vedere il rapporto con la natura come integrazione piuttosto che contrapposizione; ho inoltre considerato lo sviluppo della conoscenza come punto essenziale dell’esercizio e della affermazione dell’impresa”.

La terra e le idee. Enrico Loccioni e l’impresa come bene comune

Mario Bartocci

Desiderio Editore, 2025

Le “mani che pensano” tengono in piedi l’industria italiana, con una sintesi tra design e intelligenza artigianale e artificiale

“Era una notte buia e tempestosa”. È l’incipit di un romanzo immaginario, molto più famoso di tante altre prime pagine di romanzi reali. E lo scrive Snoopy, sul tetto della sua cuccia, battendo sui tasti di una macchina da scrivere che ricorda la Lettera 22 della Olivetti. Una straordinaria sintesi di icone. Innanzitutto, l’adorabile, fantasioso, ironico personaggio dei cartoon di Schulz. Poi, un prodotto industriale che connota, per bellezza e funzionalità, il miglior design italiano (un esemplare, appunto, è esposto al Moma di New York). E infine, un’attività, il raccontare in forma di libro, antica eppure straordinariamente attuale (ai libri abbiamo dedicato il blog della scorsa settimana).

Tre icone, ancora, che hanno sapore di buona cultura. E di valore universale del miglior Made in Italy: quella Lettera 22 (sulla mia scrivania ce n’è un esemplare del 1950, giusto il mio anno di nascita, un regalo profondamente gradito dei miei compagni e compagne di lavoro) è infatti una sintesi esemplare di forma e funzione e ancora oggi testimonia quella relazione creativa tra radici storiche e contemporaneità che connota l’attitudine diffusa dell’industria italiana a investire, come vantaggio competitivo, sul rapporto fra tradizione e innovazione.

“Intelligenza artigianale”, dice Diego Della Valle, presidente del Gruppo Tod’s, raccontando i 40 anni di vita del “gommino” che caratterizza le scarpe di maggior successo della manifattura di Casette d’Ete, sulle industriose colline marchigiane (Il Sole24Ore, 16 maggio e il Corriere della Sera, 17maggio) costruendo, per il piacere della discussione, un contrasto dialettico con l’Intelligenza Artificiale. Non certo per negare l’importanza della rivoluzione digitale in corso (l’IA è fondamentale, per l’industria, dal punto di vista della ricerca, della sperimentazione, dei controlli di qualità, della funzionalità degli impianti e dei processi di marketing sui mercati internazionali). Quanto soprattutto per insistere sui valori che segnano il “bello e ben fatto” della nostra industria: l’importanza delle persone, il rapporto con i territori, la qualità dei processi e dei prodotti, la cura per la sostenibilità ambientale e sociale nella “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, sicura. I valori dell’artigianalità, appunto. Che Diego Della Valle ha tradotto anche nell’apertura, nel 2012, di una “Bottega dei mestieri”, per formare giovani che hanno passione e intelligenza per la buona manifattura. “Italian hands”, come suggerisce il titolo dell’ultimo libro appena pubblicato dal Gruppo Tod’s.

“Mani che pensano”, era d’altronde il tema della Settimana della Cultura d’Impresa ‘24, la manifestazione organizzata, nel novembre di ogni anno, da Confindustria e Museimpresa per parlare, stavolta, di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. E sono proprio le nostre capacità manifatturiere, anche in stagioni difficili di tensioni geopolitiche e devastanti guerre commerciali, a fare da punto di forza dell’export del Made in Italy e dunque della pur stentata crescita del Pil, del benessere e del lavoro dell’intero sistema Paese.

Il racconto del “saper fare italiano”, ancora carico di una forte eco negli ambienti economici e culturali internazionali, trova straordinarie testimonianze in un volume recentemente promosso dall’Adi (l’Associazione del design italiano), pubblicato da Treccani e curato da Beppe Finessi. Nelle oltre mille pagine del libro, la prima opera organica sul premio “Compasso d’Oro”, ideato da Gio Ponti all’inizio degli anni Cinquanta, ci sono sia la storia delle sue 27 edizioni, sino al ‘22, sia le presentazioni di tutti i prodotti vincitori e delle imprese produttrici (ma anche i ritratti dei designer cui è stato attribuito il premio alla carriera). E una ricca serie di riflessioni (Aldo Bonomi, Massimo Bray, Andrea Cancellato, Paola Antonelli, Chiara Alessi, Stefano Micelli, Luca Molinari, Carlo Branzaglia, tra i tanti) sul ruolo dei musei, sul rapporto tra industria, artigianato e design, sulle sinergie tra cultura del progetto e cultura del prodotto, sulla “civiltà delle macchine”, sulla costruzione, nel tempo, di un vero e proprio “immaginario” del saper fare italiano e sulla necessità di investire ancora di più su creatività, qualità industriale, innovazione, relazione fra una tradizione così solida e gli stimoli all’innovazione che arrivano dalle trasformazioni digitali della “economia della conoscenza”.

Valori culturali e sociali, per creare capitale sociale positivo e, naturalmente, anche valore economico, dal punto di vista delle imprese e del mercato. Sono dimensioni che restano d’attualità.

Vale dunque la pena tornare alle origini, a cominciare dai vincitori della prima edizione del “Compasso d’Oro” nel 1954: la scimmietta Zizi, un innovativo giocattolo in gomma piuma progettata da Bruno Munari e prodotta dalla Pirelli; e la Lettera 22 progettata da Marcello Nizzoli e prodotta dalla Olivetti.

Proprio la motivazione del premio olivettiano individua la relazione tra l’oggetto e il contesto, tra il progettare e il fabbricare. Nota infatti Luciano Galimberti, presidente Adi, nell’introduzione al libro: “La prima edizione ci racconta l’orgoglio di un Paese provato sia in termini economici sia morali dal secondo conflitto mondiale e interpreta la libertà come componente fondamentale per il progetto del futuro. Lettera 22, la macchina per scrivere portatile, scardina il rigido legame tra lavoro e luogo di lavoro. Oggi è del tutto normale lavorare e studiare in ogni dove, ma solo una straordinaria libertà di pensiero può produrre un simile cambiamento e solo la libertà ridefinita in quegli anni lo ha permesso”.

Il tema, oggi, per raccogliere e valorizzare l’eredità di una così ricca storia di design e manifattura di qualità, è quello della necessità di una vera e propria politica industriale, di respiro europeo, che definisca gli investimenti in ricerca e innovazione, sistemi e strumenti dell’AI europei (per sottrarsi dall’assoluta dipendenza delle Big Tech sia americane che cinesi), formazione, sicurezza e sciolga finalmente i nodi che impediscono alle imprese europee e, naturalmente, italiane, di essere competitive: la produttività, il costo elevato dell’energia, il lavoro, la burocrazia. Investimenti di ampio respiro. Da finanziare sia con il bilancio Ue e i bilanci dei singoli Stati europei, sia facendo ricordo ai mercati finanziari internazionali con strumenti di debito comune europeo.

Per dirla in sintesi: non solo “intelligenza artigianale” e “intelligenza artificiale” ma anche e innanzitutto “intelligenza politica” per un miglior futuro delle nuove generazioni.

Nella “notte buia e tempestosa”, insomma, bisogna darsi molto da fare, per riuscire al più presto a intravvedere l’alba.

(Foto Getty Images)

“Era una notte buia e tempestosa”. È l’incipit di un romanzo immaginario, molto più famoso di tante altre prime pagine di romanzi reali. E lo scrive Snoopy, sul tetto della sua cuccia, battendo sui tasti di una macchina da scrivere che ricorda la Lettera 22 della Olivetti. Una straordinaria sintesi di icone. Innanzitutto, l’adorabile, fantasioso, ironico personaggio dei cartoon di Schulz. Poi, un prodotto industriale che connota, per bellezza e funzionalità, il miglior design italiano (un esemplare, appunto, è esposto al Moma di New York). E infine, un’attività, il raccontare in forma di libro, antica eppure straordinariamente attuale (ai libri abbiamo dedicato il blog della scorsa settimana).

Tre icone, ancora, che hanno sapore di buona cultura. E di valore universale del miglior Made in Italy: quella Lettera 22 (sulla mia scrivania ce n’è un esemplare del 1950, giusto il mio anno di nascita, un regalo profondamente gradito dei miei compagni e compagne di lavoro) è infatti una sintesi esemplare di forma e funzione e ancora oggi testimonia quella relazione creativa tra radici storiche e contemporaneità che connota l’attitudine diffusa dell’industria italiana a investire, come vantaggio competitivo, sul rapporto fra tradizione e innovazione.

“Intelligenza artigianale”, dice Diego Della Valle, presidente del Gruppo Tod’s, raccontando i 40 anni di vita del “gommino” che caratterizza le scarpe di maggior successo della manifattura di Casette d’Ete, sulle industriose colline marchigiane (Il Sole24Ore, 16 maggio e il Corriere della Sera, 17maggio) costruendo, per il piacere della discussione, un contrasto dialettico con l’Intelligenza Artificiale. Non certo per negare l’importanza della rivoluzione digitale in corso (l’IA è fondamentale, per l’industria, dal punto di vista della ricerca, della sperimentazione, dei controlli di qualità, della funzionalità degli impianti e dei processi di marketing sui mercati internazionali). Quanto soprattutto per insistere sui valori che segnano il “bello e ben fatto” della nostra industria: l’importanza delle persone, il rapporto con i territori, la qualità dei processi e dei prodotti, la cura per la sostenibilità ambientale e sociale nella “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, sicura. I valori dell’artigianalità, appunto. Che Diego Della Valle ha tradotto anche nell’apertura, nel 2012, di una “Bottega dei mestieri”, per formare giovani che hanno passione e intelligenza per la buona manifattura. “Italian hands”, come suggerisce il titolo dell’ultimo libro appena pubblicato dal Gruppo Tod’s.

“Mani che pensano”, era d’altronde il tema della Settimana della Cultura d’Impresa ‘24, la manifestazione organizzata, nel novembre di ogni anno, da Confindustria e Museimpresa per parlare, stavolta, di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. E sono proprio le nostre capacità manifatturiere, anche in stagioni difficili di tensioni geopolitiche e devastanti guerre commerciali, a fare da punto di forza dell’export del Made in Italy e dunque della pur stentata crescita del Pil, del benessere e del lavoro dell’intero sistema Paese.

Il racconto del “saper fare italiano”, ancora carico di una forte eco negli ambienti economici e culturali internazionali, trova straordinarie testimonianze in un volume recentemente promosso dall’Adi (l’Associazione del design italiano), pubblicato da Treccani e curato da Beppe Finessi. Nelle oltre mille pagine del libro, la prima opera organica sul premio “Compasso d’Oro”, ideato da Gio Ponti all’inizio degli anni Cinquanta, ci sono sia la storia delle sue 27 edizioni, sino al ‘22, sia le presentazioni di tutti i prodotti vincitori e delle imprese produttrici (ma anche i ritratti dei designer cui è stato attribuito il premio alla carriera). E una ricca serie di riflessioni (Aldo Bonomi, Massimo Bray, Andrea Cancellato, Paola Antonelli, Chiara Alessi, Stefano Micelli, Luca Molinari, Carlo Branzaglia, tra i tanti) sul ruolo dei musei, sul rapporto tra industria, artigianato e design, sulle sinergie tra cultura del progetto e cultura del prodotto, sulla “civiltà delle macchine”, sulla costruzione, nel tempo, di un vero e proprio “immaginario” del saper fare italiano e sulla necessità di investire ancora di più su creatività, qualità industriale, innovazione, relazione fra una tradizione così solida e gli stimoli all’innovazione che arrivano dalle trasformazioni digitali della “economia della conoscenza”.

Valori culturali e sociali, per creare capitale sociale positivo e, naturalmente, anche valore economico, dal punto di vista delle imprese e del mercato. Sono dimensioni che restano d’attualità.

Vale dunque la pena tornare alle origini, a cominciare dai vincitori della prima edizione del “Compasso d’Oro” nel 1954: la scimmietta Zizi, un innovativo giocattolo in gomma piuma progettata da Bruno Munari e prodotta dalla Pirelli; e la Lettera 22 progettata da Marcello Nizzoli e prodotta dalla Olivetti.

Proprio la motivazione del premio olivettiano individua la relazione tra l’oggetto e il contesto, tra il progettare e il fabbricare. Nota infatti Luciano Galimberti, presidente Adi, nell’introduzione al libro: “La prima edizione ci racconta l’orgoglio di un Paese provato sia in termini economici sia morali dal secondo conflitto mondiale e interpreta la libertà come componente fondamentale per il progetto del futuro. Lettera 22, la macchina per scrivere portatile, scardina il rigido legame tra lavoro e luogo di lavoro. Oggi è del tutto normale lavorare e studiare in ogni dove, ma solo una straordinaria libertà di pensiero può produrre un simile cambiamento e solo la libertà ridefinita in quegli anni lo ha permesso”.

Il tema, oggi, per raccogliere e valorizzare l’eredità di una così ricca storia di design e manifattura di qualità, è quello della necessità di una vera e propria politica industriale, di respiro europeo, che definisca gli investimenti in ricerca e innovazione, sistemi e strumenti dell’AI europei (per sottrarsi dall’assoluta dipendenza delle Big Tech sia americane che cinesi), formazione, sicurezza e sciolga finalmente i nodi che impediscono alle imprese europee e, naturalmente, italiane, di essere competitive: la produttività, il costo elevato dell’energia, il lavoro, la burocrazia. Investimenti di ampio respiro. Da finanziare sia con il bilancio Ue e i bilanci dei singoli Stati europei, sia facendo ricordo ai mercati finanziari internazionali con strumenti di debito comune europeo.

Per dirla in sintesi: non solo “intelligenza artigianale” e “intelligenza artificiale” ma anche e innanzitutto “intelligenza politica” per un miglior futuro delle nuove generazioni.

Nella “notte buia e tempestosa”, insomma, bisogna darsi molto da fare, per riuscire al più presto a intravvedere l’alba.

(Foto Getty Images)

Innovare passando dal territorio

Una ricerca discussa presso il Politecnico di Torino mette in evidenza l’importanza delle sinergie tra più elementi per lo sviluppo delle imprese

Passare da un assetto tecnologico ad un altro. È accaduto molte volte e accade ancora. Capirne i passi è fondamentale. E non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano e territoriale. È quanto ha provato a fare Marco Milanesio con la sua ricerca discussa presso il Politecnico di Torino da poche settimane.

“La transizione verso l’industria 5.0. Gli Incentivi, le Tecnologie e il ruolo dei Distretti Industriali” indaga l’evoluzione dei sistemi produttivi italiani, con particolare attenzione al passaggio dall’Industria 4.0, caratterizzata dall’adozione di tecnologie digitali e sistemi automatizzati, all’Industria 5.0, orientata verso una crescita responsabile e rispettosa dell’ambiente.

Milanesio precisa come la trasformazione analizzata non riguardi solo le “dinamiche interne delle aziende”, ma sia strettamente legata al “contesto politico ed economico”, in cui una serie di elementi esercitano la loro influenza: gli incentivi fiscali e i distretti in particolare. Elementi che vengono messi in campo per favorire l’innovazione e l’aggiornamento tecnologico ma la cui efficacia deve essere ogni volta valutata.

L’indagine di Marco Milanesio fornisce quindi un’analisi dettagliata delle misure fiscali introdotte a sostegno delle imprese, in relazione alla loro capacità di promuovere investimenti strategici, favorire la trasformazione organizzativa e accrescere la competitività del sistema produttivo nazionale. Lo studio evidenzia, inoltre, come l’adozione di soluzioni digitali e sistemi intelligenti abbia effetti positivi su variabili come l’occupazione, la redditività e l’accesso a risorse finanziarie.

C’è poi la  questione del territorio e quindi dei distretti industriali che possono funzionare come ambiti di catalizzazione e moltiplicazione delle possibilità di crescita. Emerge – spiega Milanesio – come le aziende localizzate in aree caratterizzate da una maggiore densità di imprese e da reti di supporto consolidate abbiano, in genere, un accesso più agevole agli incentivi fiscali.

L’indicazione generale del lavoro di indagine di Marco Milanesio è chiara: da un lato l’importanza di una sinergia reale tra innovazione tecnologica e politiche fiscali mirate; dall’altro, il ruolo fondamentale del territorio e quindi di “strategie complementari che garantiscano una diffusione equa dei benefici derivanti dall’innovazione”.

La transizione verso l’industria 5.0. Gli Incentivi, le Tecnologie e il ruolo dei Distretti Industriali

Marco Milanesio

Tesi, Politecnico di Torino, Collegio di Ingegneria Gestionale – Classe LM/31, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2025

Una ricerca discussa presso il Politecnico di Torino mette in evidenza l’importanza delle sinergie tra più elementi per lo sviluppo delle imprese

Passare da un assetto tecnologico ad un altro. È accaduto molte volte e accade ancora. Capirne i passi è fondamentale. E non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano e territoriale. È quanto ha provato a fare Marco Milanesio con la sua ricerca discussa presso il Politecnico di Torino da poche settimane.

“La transizione verso l’industria 5.0. Gli Incentivi, le Tecnologie e il ruolo dei Distretti Industriali” indaga l’evoluzione dei sistemi produttivi italiani, con particolare attenzione al passaggio dall’Industria 4.0, caratterizzata dall’adozione di tecnologie digitali e sistemi automatizzati, all’Industria 5.0, orientata verso una crescita responsabile e rispettosa dell’ambiente.

Milanesio precisa come la trasformazione analizzata non riguardi solo le “dinamiche interne delle aziende”, ma sia strettamente legata al “contesto politico ed economico”, in cui una serie di elementi esercitano la loro influenza: gli incentivi fiscali e i distretti in particolare. Elementi che vengono messi in campo per favorire l’innovazione e l’aggiornamento tecnologico ma la cui efficacia deve essere ogni volta valutata.

L’indagine di Marco Milanesio fornisce quindi un’analisi dettagliata delle misure fiscali introdotte a sostegno delle imprese, in relazione alla loro capacità di promuovere investimenti strategici, favorire la trasformazione organizzativa e accrescere la competitività del sistema produttivo nazionale. Lo studio evidenzia, inoltre, come l’adozione di soluzioni digitali e sistemi intelligenti abbia effetti positivi su variabili come l’occupazione, la redditività e l’accesso a risorse finanziarie.

C’è poi la  questione del territorio e quindi dei distretti industriali che possono funzionare come ambiti di catalizzazione e moltiplicazione delle possibilità di crescita. Emerge – spiega Milanesio – come le aziende localizzate in aree caratterizzate da una maggiore densità di imprese e da reti di supporto consolidate abbiano, in genere, un accesso più agevole agli incentivi fiscali.

L’indicazione generale del lavoro di indagine di Marco Milanesio è chiara: da un lato l’importanza di una sinergia reale tra innovazione tecnologica e politiche fiscali mirate; dall’altro, il ruolo fondamentale del territorio e quindi di “strategie complementari che garantiscano una diffusione equa dei benefici derivanti dall’innovazione”.

La transizione verso l’industria 5.0. Gli Incentivi, le Tecnologie e il ruolo dei Distretti Industriali

Marco Milanesio

Tesi, Politecnico di Torino, Collegio di Ingegneria Gestionale – Classe LM/31, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2025

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