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Lezioni tra impresa e cultura

In un libro la sintesi di una vita tra produzione e didattica

 

Fare impresa come fare cultura. Equivalenza ormai di comune dominio in molti ambiti dell’economia, ma non in tutti. Anche se le modalità del produrre e le stesse organizzazioni della produzione sono – da sempre – espressione della cultura nella quale nascono e si sviluppano. Tornare quindi alla natura complessiva dell’economia e della produzione, è quindi sempre cosa necessaria. E opportuna. Così come leggere “Lezioni. Un percorso autobiografico”, ultimo libro in ordine di tempo di Gianfranco Dioguardi, ingegnere e professore ordinario di economia e organizzazione aziendale considerato uno dei padri dell’ingegneria gestionale in Italia.

Il libro è la raccolta – attraverso gli scritti – delle tappe professionali dell’autore tra accademia e impegno civile, tra didattica e ricerca. In una prima parte  (“Incontri con il pubblico”), Dioguardi raccoglie testi destinati ad imprese e istituzioni pubbliche, approfondimenti su temi diversi e lectio per particolari eventi. Nella seconda parte del libro (“Lezioni”), l’autore raccoglie invece interventi con un taglio più didattico e dedicati quindi a quell’ingegneria gestionale che ha contribuito a creare.

Tutto con un particolare approccio: Dioguardi, infatti, è professore e uomo d’impresa ad un tempo. Ed è proprio questa caratteristica a costituire quel “di più” che altri libri non posseggono. Un tratto che in alcuni punti del libro più emerge, come, per esempio, nel discorso “per un’azienda privata” che si riferisce alla stessa impresa di famiglia. “La nostra impresa – scrive Dioguardi – è un sistema vivente, vitale, pulsante, e sarà in grado, ne sono certo, di sopravvivere al futuro con la filosofia che vi ho indicato, nonostante le sfavorevoli situazioni macroambientali, perché voi lo farete sopravvivere, avendone la volontà, la capacità, i mezzi, la classe per farlo”. Tutte da leggere le “lezioni” di Gianfranco Dioguardi.

Lezioni. Un percorso autobiografico

Gianfranco Dioguardi

Guerini Next, 2025

In un libro la sintesi di una vita tra produzione e didattica

 

Fare impresa come fare cultura. Equivalenza ormai di comune dominio in molti ambiti dell’economia, ma non in tutti. Anche se le modalità del produrre e le stesse organizzazioni della produzione sono – da sempre – espressione della cultura nella quale nascono e si sviluppano. Tornare quindi alla natura complessiva dell’economia e della produzione, è quindi sempre cosa necessaria. E opportuna. Così come leggere “Lezioni. Un percorso autobiografico”, ultimo libro in ordine di tempo di Gianfranco Dioguardi, ingegnere e professore ordinario di economia e organizzazione aziendale considerato uno dei padri dell’ingegneria gestionale in Italia.

Il libro è la raccolta – attraverso gli scritti – delle tappe professionali dell’autore tra accademia e impegno civile, tra didattica e ricerca. In una prima parte  (“Incontri con il pubblico”), Dioguardi raccoglie testi destinati ad imprese e istituzioni pubbliche, approfondimenti su temi diversi e lectio per particolari eventi. Nella seconda parte del libro (“Lezioni”), l’autore raccoglie invece interventi con un taglio più didattico e dedicati quindi a quell’ingegneria gestionale che ha contribuito a creare.

Tutto con un particolare approccio: Dioguardi, infatti, è professore e uomo d’impresa ad un tempo. Ed è proprio questa caratteristica a costituire quel “di più” che altri libri non posseggono. Un tratto che in alcuni punti del libro più emerge, come, per esempio, nel discorso “per un’azienda privata” che si riferisce alla stessa impresa di famiglia. “La nostra impresa – scrive Dioguardi – è un sistema vivente, vitale, pulsante, e sarà in grado, ne sono certo, di sopravvivere al futuro con la filosofia che vi ho indicato, nonostante le sfavorevoli situazioni macroambientali, perché voi lo farete sopravvivere, avendone la volontà, la capacità, i mezzi, la classe per farlo”. Tutte da leggere le “lezioni” di Gianfranco Dioguardi.

Lezioni. Un percorso autobiografico

Gianfranco Dioguardi

Guerini Next, 2025

Pubblicare e leggere buoni libri, per una “ecologia della parola” che rafforzi i valori civili e le ipotesi di miglior futuro per i giovani

Cancellare le parole dei libri può anche voler dire sottolinearne l’importanza, l’essenzialità? Insistere sulla centralità della parola scritta? Naturalmente sì, se quella “cancellatura” è il gesto esemplare di un artista, una scelta di creatività, un paradosso che porta alla verità. Se quell’artista si chiama Emilio Isgrò. E della cancellatura, appunto, ha fatto un esemplare gesto poetico, un’estetica e dunque pure una vera e propria etica.

Di Isgrò, uno dei maggiori artisti contemporanei, è stata appena inaugurata una grande mostra antologica per fare da battesimo al nuovo Macc (Museo d’arte contemporanea) di Scicli, in Sicilia strabilianti architetture barocche e colline aspre di muri a secco (ne parla Stefano Salis sulla Domenica de Il Sole24Ore, 11 maggio). E le opere in rassegna, a sessant’anni dalle prime cancellature del maestro profondamente siciliano e dunque mediterraneo e universale, mettono in evidenza frasi e lettere, alimentano critiche e sogni, realtà e fantasie.

Fare cultura, insomma, racconta Isgrò, significa saper scrivere, leggere, criticare, immaginare. Costruire giochi di parole. E condirle di silenzi fondamentali, come fossero sottolineature (alla stregua delle “cancellature” di Isgrò, appunto).

Viviamo tempi di vaniloquio, sgrammaticature sintattiche e concettuali, pettegolezzi rumorosi e dunque ancor più volgari, sgangherati “fattoidi”, fake news, discorsi pubblici immiseriti nella propaganda. L’epoca di un “presentismo”, un appiattimento sul contingente che nega lo spessore della storia, della cultura, della stessa sacralità della vita e delle speranze della trascendenza, vanificando il peso del verbum, la densità della parola. E anche per colpa di questo contesto, vediamo nuove generazioni che faticano sempre più, anche ad elevati livelli formali di scolarità, a comprendere un testo scritto.

Siamo di fronte a una crisi del discorso. Una crisi crescente. Ed è dunque essenziale costruire una vera e propria “ecologia delle parole” e restituire al parlare i valori essenziali che stanno alla base dell’opinione pubblica “discorsiva” (la lezione di Jurgen Habermas) e dunque della democrazia ma anche del buon funzionamento dell’economia di mercato e della costruzione di un capitale sociale positivo (se ne è parlato diffusamente, nei giorni scorsi, al Forum della Comunicazione organizzato in Assolombarda). I libri ne sono cardine. “Più libri, più liberi”, è l’efficace slogan della Fiera nazionale della piccola e media editoria in programma ogni anno, in dicembre, a Roma, per iniziativa dell’Aie, l’Associazione degli editori.

La memoria torna ad alcune sapide pagine di Umberto Eco, “Non sperate di liberarvi dei libri” (scritto con Jean-Claude Carrière e pubblicato da La nave di Teseo nel 2009) sulla buona abitudine a usare il libro come oggetto quotidiano, “come un cucchiaio” e sull’attitudine dei libri a non resistere agli incendi (paradigmatico quello della Biblioteca di Alessandria, angosciosi quelli dei roghi nazisti) ma invece a sopravvivere “al blackout globale”.

“Segno di vitalità e di salvezza”, commenta il cardinale Gianfranco Ravasi (IlSole24Ore, 11 maggio), ripescando anche, nell’ “Elogio del libro” del teologo Romano Guardini, la storia del cappellano militare che, nel cuore d’una battaglia, distribuisce ai soldati le pagine del suo Vangelo come viatico per quell’ora disperata. Pagine di consolazione e di rimemorazione dell’essenza della vita, proprio in punto di morte.

“Il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, amava dire Stéphane Mallarmé. E anche se è altrettanto vero che la “vita o la si vive o la si scrive”, per citare Luigi Pirandello, di certo i libri aiutano a capire meglio la vita e a trasmetterne, ai lettori, senso e valori e dunque a dare, a un’esperienza narrata, i caratteri di una sfida al tempo e all’oblio.

Leggere e innamorarsi dei libri, dunque. Tenerli nel tessuto della nostra quotidianità.

La stagione appena cominciata aiuta a ragionare meglio di parole, forza della scrittura e piacere della lettura. A Torino, dal 14 al 18 maggio, c’è il Salone del libro, duemila eventi, incontri, dialoghi, pretesti per buone letture. E poi comincia il Grand Tour dei premi (lo Strega, il Campiello, il Viareggio, il Bancarella e così via continuando per centinaia di appuntamenti) e dei Festival, a Mantova e Pordenone, a Taormina e Polignano a mare, a Salerno e Trani e via via toccando città e paesi lungo tutta l’Italia. Ci si confronta sui libri, si parla con scrittrici e scrittori, si fanno girare idee ed emozioni. “Grazie ai libri possiamo riconoscerci come comunità”, commenta Giuseppe Laterza, editore tra i più impegnati nell’organizzazione di iniziative a supporto della lettura (La Stampa, 10 maggio).

È vero, in Italia si legge poco. E le vendite di libri sono ridiventate poco brillanti, dopo il boom di vendite post Covid. Ma – segnale consolante – molti sondaggi dicono che le nuove generazioni si fidano dei libri come fonte di conoscenza e di stimolo mentale. E l’editoria per bambini e ragazzi, in buona salute, testimonia che c’è un miglior destino possibile, grazie alla consuetudine – diffusa in scuole e famiglie più sensibili – a fare vivere il libro di carta non in alternativa agli strumenti digitali di lettura, ma in sintonia.

Anche l’editoria, mondo poco frequentato dalla maggioranza degli italiani e poco amato in parecchi ambienti politici, registra novità interessanti. Come, per esempio, il peso crescente, ai vertici, di donne capaci e competenti, brave anche a fare tesoro critico dell’esperienza e della memoria delle grandi signore del libro, Elvira Sellerio, Inge Feltrinelli e Laura Lepetit. Un peso sottolineato dalla recente nomina della nuova presidente di Longanesi, Agnese Pini (direttrice di Quotidiano Nazionale/ Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno), dalla gestione del Salone del Libro di Torino nelle mani di Annalena Benini, dal rinnovamento di Feltrinelli per opera di Alessandra Carra, amministratrice delegata, dall’attivismo di Elisabetta Sgarbi per la crescita de “La nave di Teseo” e di quello di Laura Donnini per i successi di HarperCollins e di Elena Campominosi per Bollati Boringhieri. E, ancora, ecco l’impegno sempre attuale di Rosellina Archinto, le scelte editoriali sapienti e innovative di Chicca Dubini per NN Editore, con l’occhio attento agli scrittori americani più promettenti (dopo la valorizzazione, in Italia, di un grande autore come Kent Haruf), la qualità costante delle pubblicazioni di Iperborea guidata da Emilia Lodigiani, le iniziative di Annamaria Malato per Salerno Editrice e di Patrizia Alma Pacini per la casa editrice di famiglia.

L’elenco delle storie femminili positive potrebbe continuare a lungo: un segno importante di qualità e di modernità del mondo del libro, della buona editoria. D’altronde, sono donne, in maggioranza, le “lettrici forti”, più degli uomini. E donne, un lungo elenco di autrici di solido successo.

Pubblicare e fare leggere libri (magari in quantità minori degli oltre 80mila titoli all’anno, ma di qualità migliore). Stimolare incontri e circoli di lettura. Agevolare fiscalmente chi vuole aprire una libreria. E investire sulle biblioteche, pubbliche e private, mettendo in collegamento biblioteche comunali, biblioteche scolastiche e biblioteche nelle imprese e negli altri posti di lavoro (il Gruppo Cultura di Confindustria e Museimpresa stanno studiano iniziative in questo senso). La lunga esperienza positiva delle biblioteche aziendali Pirelli (sia nell’Head Quarter di Milano in Bicocca che nelle fabbriche di Settimo Torinese e Bollate) può essere un buon paradigma di riferimento.

In tempi di primato della “economia della conoscenza” e di utilizzo responsabile dell’Intelligenza Artificiale, fare leva sui libri è una scelta non solo culturale, ma anche sociale e civile.

Una testimonianza? Tra le tante possibili, ci sono le pagine di Jorge Luis Borges ne “L’Aleph”, appena ripubblicato nella Universale Economica di Feltrinelli, una collana ben curata densa di classici, che non dovrebbero proprio mancare in ogni casa di chi ama la cultura e la lettura. Eccole: “ ‘Quando aprii gli occhi, vidi l’Aleph’. ‘L’Aleph?’, ripetei. ‘Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli’.”

L’Aleph, la prima lettera dell’alfabeto della lingua sacra. L’inizio simbolico del Libro. E dei libri. Sino ad arrivare, sempre seguendo Borges, alla “Biblioteca di Babele”. Il caos, cioè, nell’infinito dei fogli che si rincorrono e si ripetono. Ma anche un caos che può essere ricomposto e compreso. Rieccoci, al senso positivo dei libri.

(Getty Images)

Cancellare le parole dei libri può anche voler dire sottolinearne l’importanza, l’essenzialità? Insistere sulla centralità della parola scritta? Naturalmente sì, se quella “cancellatura” è il gesto esemplare di un artista, una scelta di creatività, un paradosso che porta alla verità. Se quell’artista si chiama Emilio Isgrò. E della cancellatura, appunto, ha fatto un esemplare gesto poetico, un’estetica e dunque pure una vera e propria etica.

Di Isgrò, uno dei maggiori artisti contemporanei, è stata appena inaugurata una grande mostra antologica per fare da battesimo al nuovo Macc (Museo d’arte contemporanea) di Scicli, in Sicilia strabilianti architetture barocche e colline aspre di muri a secco (ne parla Stefano Salis sulla Domenica de Il Sole24Ore, 11 maggio). E le opere in rassegna, a sessant’anni dalle prime cancellature del maestro profondamente siciliano e dunque mediterraneo e universale, mettono in evidenza frasi e lettere, alimentano critiche e sogni, realtà e fantasie.

Fare cultura, insomma, racconta Isgrò, significa saper scrivere, leggere, criticare, immaginare. Costruire giochi di parole. E condirle di silenzi fondamentali, come fossero sottolineature (alla stregua delle “cancellature” di Isgrò, appunto).

Viviamo tempi di vaniloquio, sgrammaticature sintattiche e concettuali, pettegolezzi rumorosi e dunque ancor più volgari, sgangherati “fattoidi”, fake news, discorsi pubblici immiseriti nella propaganda. L’epoca di un “presentismo”, un appiattimento sul contingente che nega lo spessore della storia, della cultura, della stessa sacralità della vita e delle speranze della trascendenza, vanificando il peso del verbum, la densità della parola. E anche per colpa di questo contesto, vediamo nuove generazioni che faticano sempre più, anche ad elevati livelli formali di scolarità, a comprendere un testo scritto.

Siamo di fronte a una crisi del discorso. Una crisi crescente. Ed è dunque essenziale costruire una vera e propria “ecologia delle parole” e restituire al parlare i valori essenziali che stanno alla base dell’opinione pubblica “discorsiva” (la lezione di Jurgen Habermas) e dunque della democrazia ma anche del buon funzionamento dell’economia di mercato e della costruzione di un capitale sociale positivo (se ne è parlato diffusamente, nei giorni scorsi, al Forum della Comunicazione organizzato in Assolombarda). I libri ne sono cardine. “Più libri, più liberi”, è l’efficace slogan della Fiera nazionale della piccola e media editoria in programma ogni anno, in dicembre, a Roma, per iniziativa dell’Aie, l’Associazione degli editori.

La memoria torna ad alcune sapide pagine di Umberto Eco, “Non sperate di liberarvi dei libri” (scritto con Jean-Claude Carrière e pubblicato da La nave di Teseo nel 2009) sulla buona abitudine a usare il libro come oggetto quotidiano, “come un cucchiaio” e sull’attitudine dei libri a non resistere agli incendi (paradigmatico quello della Biblioteca di Alessandria, angosciosi quelli dei roghi nazisti) ma invece a sopravvivere “al blackout globale”.

“Segno di vitalità e di salvezza”, commenta il cardinale Gianfranco Ravasi (IlSole24Ore, 11 maggio), ripescando anche, nell’ “Elogio del libro” del teologo Romano Guardini, la storia del cappellano militare che, nel cuore d’una battaglia, distribuisce ai soldati le pagine del suo Vangelo come viatico per quell’ora disperata. Pagine di consolazione e di rimemorazione dell’essenza della vita, proprio in punto di morte.

“Il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, amava dire Stéphane Mallarmé. E anche se è altrettanto vero che la “vita o la si vive o la si scrive”, per citare Luigi Pirandello, di certo i libri aiutano a capire meglio la vita e a trasmetterne, ai lettori, senso e valori e dunque a dare, a un’esperienza narrata, i caratteri di una sfida al tempo e all’oblio.

Leggere e innamorarsi dei libri, dunque. Tenerli nel tessuto della nostra quotidianità.

La stagione appena cominciata aiuta a ragionare meglio di parole, forza della scrittura e piacere della lettura. A Torino, dal 14 al 18 maggio, c’è il Salone del libro, duemila eventi, incontri, dialoghi, pretesti per buone letture. E poi comincia il Grand Tour dei premi (lo Strega, il Campiello, il Viareggio, il Bancarella e così via continuando per centinaia di appuntamenti) e dei Festival, a Mantova e Pordenone, a Taormina e Polignano a mare, a Salerno e Trani e via via toccando città e paesi lungo tutta l’Italia. Ci si confronta sui libri, si parla con scrittrici e scrittori, si fanno girare idee ed emozioni. “Grazie ai libri possiamo riconoscerci come comunità”, commenta Giuseppe Laterza, editore tra i più impegnati nell’organizzazione di iniziative a supporto della lettura (La Stampa, 10 maggio).

È vero, in Italia si legge poco. E le vendite di libri sono ridiventate poco brillanti, dopo il boom di vendite post Covid. Ma – segnale consolante – molti sondaggi dicono che le nuove generazioni si fidano dei libri come fonte di conoscenza e di stimolo mentale. E l’editoria per bambini e ragazzi, in buona salute, testimonia che c’è un miglior destino possibile, grazie alla consuetudine – diffusa in scuole e famiglie più sensibili – a fare vivere il libro di carta non in alternativa agli strumenti digitali di lettura, ma in sintonia.

Anche l’editoria, mondo poco frequentato dalla maggioranza degli italiani e poco amato in parecchi ambienti politici, registra novità interessanti. Come, per esempio, il peso crescente, ai vertici, di donne capaci e competenti, brave anche a fare tesoro critico dell’esperienza e della memoria delle grandi signore del libro, Elvira Sellerio, Inge Feltrinelli e Laura Lepetit. Un peso sottolineato dalla recente nomina della nuova presidente di Longanesi, Agnese Pini (direttrice di Quotidiano Nazionale/ Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno), dalla gestione del Salone del Libro di Torino nelle mani di Annalena Benini, dal rinnovamento di Feltrinelli per opera di Alessandra Carra, amministratrice delegata, dall’attivismo di Elisabetta Sgarbi per la crescita de “La nave di Teseo” e di quello di Laura Donnini per i successi di HarperCollins e di Elena Campominosi per Bollati Boringhieri. E, ancora, ecco l’impegno sempre attuale di Rosellina Archinto, le scelte editoriali sapienti e innovative di Chicca Dubini per NN Editore, con l’occhio attento agli scrittori americani più promettenti (dopo la valorizzazione, in Italia, di un grande autore come Kent Haruf), la qualità costante delle pubblicazioni di Iperborea guidata da Emilia Lodigiani, le iniziative di Annamaria Malato per Salerno Editrice e di Patrizia Alma Pacini per la casa editrice di famiglia.

L’elenco delle storie femminili positive potrebbe continuare a lungo: un segno importante di qualità e di modernità del mondo del libro, della buona editoria. D’altronde, sono donne, in maggioranza, le “lettrici forti”, più degli uomini. E donne, un lungo elenco di autrici di solido successo.

Pubblicare e fare leggere libri (magari in quantità minori degli oltre 80mila titoli all’anno, ma di qualità migliore). Stimolare incontri e circoli di lettura. Agevolare fiscalmente chi vuole aprire una libreria. E investire sulle biblioteche, pubbliche e private, mettendo in collegamento biblioteche comunali, biblioteche scolastiche e biblioteche nelle imprese e negli altri posti di lavoro (il Gruppo Cultura di Confindustria e Museimpresa stanno studiano iniziative in questo senso). La lunga esperienza positiva delle biblioteche aziendali Pirelli (sia nell’Head Quarter di Milano in Bicocca che nelle fabbriche di Settimo Torinese e Bollate) può essere un buon paradigma di riferimento.

In tempi di primato della “economia della conoscenza” e di utilizzo responsabile dell’Intelligenza Artificiale, fare leva sui libri è una scelta non solo culturale, ma anche sociale e civile.

Una testimonianza? Tra le tante possibili, ci sono le pagine di Jorge Luis Borges ne “L’Aleph”, appena ripubblicato nella Universale Economica di Feltrinelli, una collana ben curata densa di classici, che non dovrebbero proprio mancare in ogni casa di chi ama la cultura e la lettura. Eccole: “ ‘Quando aprii gli occhi, vidi l’Aleph’. ‘L’Aleph?’, ripetei. ‘Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli’.”

L’Aleph, la prima lettera dell’alfabeto della lingua sacra. L’inizio simbolico del Libro. E dei libri. Sino ad arrivare, sempre seguendo Borges, alla “Biblioteca di Babele”. Il caos, cioè, nell’infinito dei fogli che si rincorrono e si ripetono. Ma anche un caos che può essere ricomposto e compreso. Rieccoci, al senso positivo dei libri.

(Getty Images)

E Moravia restò fuori dalla fabbrica

Regole per far crescere la cultura d’impresa

Una tesi discussa presso l’Università di Brescia approfondisce gli effetti dell’applicazione del Modello 231

Cultura d’impresa e organizzazione d’impresa. Binomio fondamentale eppure non ancora esplorato nella sua completezza. Tanto da necessitare di continui approfondimenti. Anche perché, nel frattempo, le relazioni tra gestione e cultura cambiano con il mutare del contesto e delle condizioni in cui l’impresa stessa opera. Anche per questo è interessante leggere “Il ‘successo sostenibile’ e la ‘dovuta diligenza: poteri, obblighi e responsabilità nel governo dell’impresa tra profitto e tutela del contesto”, ricerca di Linda Rosa che ha prodotto una tesi discussa presso l’Università di Brescia.

L’obiettivo dell’indagine è espresso chiaramente nelle prime pagine: esplorare “l’importanza cruciale dei modelli di organizzazione, gestione e controllo (…), introdotti ormai più di vent’anni fa dal d.lgs. 231/2001, concentrandosi sui loro impatti in termini di cultura aziendale, sostenibilità e, last but not least, gestione dei reati contro l’ambiente”. Traguardo ambizioso il cui raggiungimento è stato reso possibile con una ricerca finanziata nell’ambito delle borse di dottorato del Programma Operativo Nazionale Ricerca e Innovazione 2014-2020.

Lo studio prende le mosse dall’analisi dei concetti di “successo sostenibile” e “dovuta diligenza” come cardini della governance moderna. In questo senso, quanto indicato dal Modello 231 viene inteso come presidio anche per la tutela dell’ambiente oltre che come pratica di educazione e formazione all’interno dell’organizzazione aziendale. La teoria, viene quindi provata presso Asonext s.p.a., azienda italiana del settore siderurgico, nella quale, per oltre un anno, viene effettuata una indagine sulle modalità di applicazione del modello e su come queste siano state poste in relazione con le altre attività di controllo e lavoro.

La conclusione di Linda Rosa è semplice: se ben applicate, le regole per il controllo della gestione (come quelle relative al Modello 231) possono contribuire anche al cambiamento dell’approccio verso la produzione di chi in azienda lavoro a più livelli. Scrive l’autrice nelle sue conclusioni: “Il processo di implementazione del Modello 231, in tale prospettiva, non può più essere considerato un “male necessario”, ma deve essere inteso come uno stimolo per la ri-organizzazione dell’ente, un’occasione per rafforzare i sistemi di governance, migliorare i processi decisionali e promuovere una cultura aziendale integra e trasparente, che non si esaurisca nel mero rispetto della legge”.

Il “successo sostenibile” e la “dovuta diligenza”: poteri, obblighi e responsabilità nel governo dell’impresa tra profitto e tutela del contesto

Linda Rosa

Tesi, Università degli studi di Brescia, Dipartimento di Economia e Management

Dottorato di ricerca in Business & Law – Istituzioni e Impresa: Valore, Regole e Responsabilità Sociale, 2025

Una tesi discussa presso l’Università di Brescia approfondisce gli effetti dell’applicazione del Modello 231

Cultura d’impresa e organizzazione d’impresa. Binomio fondamentale eppure non ancora esplorato nella sua completezza. Tanto da necessitare di continui approfondimenti. Anche perché, nel frattempo, le relazioni tra gestione e cultura cambiano con il mutare del contesto e delle condizioni in cui l’impresa stessa opera. Anche per questo è interessante leggere “Il ‘successo sostenibile’ e la ‘dovuta diligenza: poteri, obblighi e responsabilità nel governo dell’impresa tra profitto e tutela del contesto”, ricerca di Linda Rosa che ha prodotto una tesi discussa presso l’Università di Brescia.

L’obiettivo dell’indagine è espresso chiaramente nelle prime pagine: esplorare “l’importanza cruciale dei modelli di organizzazione, gestione e controllo (…), introdotti ormai più di vent’anni fa dal d.lgs. 231/2001, concentrandosi sui loro impatti in termini di cultura aziendale, sostenibilità e, last but not least, gestione dei reati contro l’ambiente”. Traguardo ambizioso il cui raggiungimento è stato reso possibile con una ricerca finanziata nell’ambito delle borse di dottorato del Programma Operativo Nazionale Ricerca e Innovazione 2014-2020.

Lo studio prende le mosse dall’analisi dei concetti di “successo sostenibile” e “dovuta diligenza” come cardini della governance moderna. In questo senso, quanto indicato dal Modello 231 viene inteso come presidio anche per la tutela dell’ambiente oltre che come pratica di educazione e formazione all’interno dell’organizzazione aziendale. La teoria, viene quindi provata presso Asonext s.p.a., azienda italiana del settore siderurgico, nella quale, per oltre un anno, viene effettuata una indagine sulle modalità di applicazione del modello e su come queste siano state poste in relazione con le altre attività di controllo e lavoro.

La conclusione di Linda Rosa è semplice: se ben applicate, le regole per il controllo della gestione (come quelle relative al Modello 231) possono contribuire anche al cambiamento dell’approccio verso la produzione di chi in azienda lavoro a più livelli. Scrive l’autrice nelle sue conclusioni: “Il processo di implementazione del Modello 231, in tale prospettiva, non può più essere considerato un “male necessario”, ma deve essere inteso come uno stimolo per la ri-organizzazione dell’ente, un’occasione per rafforzare i sistemi di governance, migliorare i processi decisionali e promuovere una cultura aziendale integra e trasparente, che non si esaurisca nel mero rispetto della legge”.

Il “successo sostenibile” e la “dovuta diligenza”: poteri, obblighi e responsabilità nel governo dell’impresa tra profitto e tutela del contesto

Linda Rosa

Tesi, Università degli studi di Brescia, Dipartimento di Economia e Management

Dottorato di ricerca in Business & Law – Istituzioni e Impresa: Valore, Regole e Responsabilità Sociale, 2025

L’IA, le regole e le imprese

Pubblicato un libro che analizza e spiega il Regolamento europeo

Intelligenza Artificiale come tecnologia da comprendere a fondo per essere applicata con attenzione e consapevolezza. E con regole chiare e condivise. Come deve essere il Regolamento europeo da poco varato. Leggere “Governance dell’intelligenza artificiale. Applicare il nuovo Regolamento UE” di Davide Borelli e Gianluca Martinelli da poco pubblicato serve proprio per questo scopo.

Il libro prende le mosse da una doppia constatazione. Da una parte, l’avvento dell’IA nella dimensione giuridica dell’impresa costituisce uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo; qualcosa che richiede un’attenta riflessione sulle modalità di governo di questa tecnologia. Dall’altra, il Regolamento europeo sull’IA rappresenta il primo tentativo organico di disciplinare la materia: un testo che introduce un articolato sistema di obblighi e responsabilità che investe trasversalmente l’attività d’impresa. Da qui, appunto, la necessità di capire bene.

Il libro di Borelli e Martinelli – entrambi di formazione giuridica con un’attenzione particolare alle imprese – è organizzato in cinque passaggi. Prima di tutto vengono classificati i sistemi di IA, poi vengono affrontati gli “obblighi per fornitori e utilizzatori” quindi quelli relativi alla trasparenza e alla documentazione. Successivamente sono analizzate le procedure di valutazione della conformità e quindi le sanzioni previste dal regolamento.

Libro da leggere e soprattutto da applicare, quello di Davide Borelli e Gianluca Martinelli, che ha una caratteristica in più: un approccio interdisciplinare, che cerca di valorizzare il contributo di studiosi ed esperti provenienti sia dal mondo accademico sia dalla prassi professionale, con particolare attenzione all’esperienza maturata in realtà multinazionali, studi legali e ambito accademico.

Governance dell’intelligenza artificiale. Applicare il nuovo Regolamento UE

Davide Borelli, Gianluca Martinelli

Franco Angeli, 2025

Pubblicato un libro che analizza e spiega il Regolamento europeo

Intelligenza Artificiale come tecnologia da comprendere a fondo per essere applicata con attenzione e consapevolezza. E con regole chiare e condivise. Come deve essere il Regolamento europeo da poco varato. Leggere “Governance dell’intelligenza artificiale. Applicare il nuovo Regolamento UE” di Davide Borelli e Gianluca Martinelli da poco pubblicato serve proprio per questo scopo.

Il libro prende le mosse da una doppia constatazione. Da una parte, l’avvento dell’IA nella dimensione giuridica dell’impresa costituisce uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo; qualcosa che richiede un’attenta riflessione sulle modalità di governo di questa tecnologia. Dall’altra, il Regolamento europeo sull’IA rappresenta il primo tentativo organico di disciplinare la materia: un testo che introduce un articolato sistema di obblighi e responsabilità che investe trasversalmente l’attività d’impresa. Da qui, appunto, la necessità di capire bene.

Il libro di Borelli e Martinelli – entrambi di formazione giuridica con un’attenzione particolare alle imprese – è organizzato in cinque passaggi. Prima di tutto vengono classificati i sistemi di IA, poi vengono affrontati gli “obblighi per fornitori e utilizzatori” quindi quelli relativi alla trasparenza e alla documentazione. Successivamente sono analizzate le procedure di valutazione della conformità e quindi le sanzioni previste dal regolamento.

Libro da leggere e soprattutto da applicare, quello di Davide Borelli e Gianluca Martinelli, che ha una caratteristica in più: un approccio interdisciplinare, che cerca di valorizzare il contributo di studiosi ed esperti provenienti sia dal mondo accademico sia dalla prassi professionale, con particolare attenzione all’esperienza maturata in realtà multinazionali, studi legali e ambito accademico.

Governance dell’intelligenza artificiale. Applicare il nuovo Regolamento UE

Davide Borelli, Gianluca Martinelli

Franco Angeli, 2025

Ricostruire fiducia e investire su cultura e futuro, le parole di Mattarella per i cinquant’anni del Fai

Ricostruire fiducia. E ridare speranza, soprattutto alle ragazze e ai ragazzi, molti, troppi dei quali abbandonano l’Italia in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. In tempi di crisi, quali quelli che stiamo vivendo, è necessario avere la chiara consapevolezza delle tensioni, delle fratture e dei  rischi di degrado delle condizioni politiche, economiche e sociali. Ma anche provare a intravvedere, e cercare di costruire, progetti di ripresa, di riscatto. Al di là del buon senso che racconta come il punto più oscuro delle notte sia proprio alla vigilia dell’alba, a mettere un limite alla disperazione contribuiscono le pagine più lucide della nostra letteratura. Come quella che conclude “Le città invisibili” di Italo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’é uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

La lezione di Calvino è parte integrante di un modo responsabile di concepire il lavoro intellettuale e dunque anche l’impegno politico. E vale la pena tenerla a mente di fronte ai tanti segnali di crisi che affollano il nostro tempo inquieto. Cercandone tracce nel tessuto stesso del discorso pubblico con cui viviamo, raccontiamo, progettiamo una più soddisfacente condizione nel nostro essere cives, cittadini responsabili di una comunità.

Un buon esempio sta nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pronunciate nei giorni scorsi durante la cerimonia, al Quirinale, per i cinquant’anni del Fai, il Fondo che, meritoriamente, tutela e valorizza i beni ambientali italiani e dunque anche il paesaggio, i monumenti, le testimonianze storiche di una straordinaria civiltà. In linea, appunto, con la recente versione dell’articolo 9 della Costituzione che, nella modifica del febbraio 2022, ha introdotto, accanto allo “sviluppo della cultura”, alla “ricerca scientifica e tecnica” e alla tutela del “paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” pure “la tutela dell’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Sostiene il presidente Mattarella che la cultura ha la responsabilità della “costruzione di identità condivise e comuni, nel rispetto delle identità di ciascuno” e definisce una civiltà “che genera capitale sociale, incontro, pace, sviluppo”. Quest’Italia è, appunto, “un suggestivo mosaico” frutto di “tante storie e vicende” e “pazientemente composto a beneficio delle nuove generazioni”. Tocca a loro, infatti, “trovare alimento nella storia da cui hanno origine” e da essa “alzare l’orizzonte nel nostro sguardo”. In altri termini, “il destino dell’uomo e il destino dell’ambiente non sono mai stati così strettamente connessi”.

Ambiente, cultura, storia e sviluppo sostenibile sono cardini essenziali di una più equilibrata crescita economica e sociale (ne abbiamo parlato anche nei blog delle ultime due settimane). E se in tempi di radicali sconvolgimenti degli equilibri geopolitici e di profondo turbamento dei mercati a causa delle gravi guerre commerciali in corso, vanno ridefinite ragioni e metodi delle competizioni e delle ricostruzioni delle catene del valore, proprio l’Italia, nel contesto dell’Europa, non può non fare leva sulle caratteristiche culturali, economiche e civili che ne connotano storia e futuro.

Ecco perché il presidente Mattarella ricorda che “non si tratta di imbalsamare luoghi, ma di mettere a disposizione della comunità risorse che si rischia di disperdere se non più valorizzate”.

Sono luoghi, infatti, densi di bellezza e di cultura. E i 72 beni affidati al Fai (56, quelli aperti al pubblico e protetti e valorizzati grazie all’impegno di 300mila iscritti e 16mila volontari) sono un campione di quella straordinaria ricchezza italiana che vale non solo come stimolo per un turismo colto, lento, consapevole e responsabile, ma soprattutto come patrimonio culturale e come capitale sociale da usare bene come leva di sviluppo sostenibile.

A ragione, il presidente Mattarella, nell’incontro con i delegati del Fai (guidati dal presidente Marco Magnifico e dall’ex presidente Andrea Carandini) ha ricordato le parole di Benedetto Croce, promotore nel 1922 della prima legge sul paesaggio e convinto che “lo spirito di una comunità fosse legato ai territori e al paesaggio, degradando i quali si rischiava di indebolire e sradicare le proprie ragioni storiche e culturali”. Un rischio, purtroppo, ancora attuale, anche in violazione delle serie norme di tutela.

Valori culturali e morali. E valori di rilievo economico. La cultura italiana, in cui affonda le sue radici vitali il miglior Made in Italy, è infatti un ricco tessuto intrecciato di senso della bellezza e conoscenze scientifiche e tecnologiche, sapienza letteraria, artistica e filosofica e spirito matematico, creatività originale e capacità manifatturiera di fare “cose belle che piacciono al mondo”.

Le imprese migliori del Made in Italy ne sono consapevoli. Hanno fatto dei valori ESG parte essenziale del loro modo di produrre, lavorare, stare sul mercato, crescere ed essere competitive. E sanno che la propria storia è un fattore distintivo, in una competizione in cui pesano negativamente concorrenze improprie ed emulazioni. E che, appunto, il legame con i territori è un fattore identitario di qualità e sostenibilità, per trasmettere conoscenze e costruirne di nuove. Le esperienze raccontate negli oltre 160 musei e archivi storici d’impresa iscritti a Museimpresa (l’associazione nata oltre vent’anni fa da Assolombarda e Confindustria) ne sono chiare testimonianze. E la collaborazione che da tempo va avanti tra il Fai, il mondo delle imprese sostenitrici (Pirelli è una di queste) e la stessa Museimpresa dicono di un impegno comune che ha forti valenze economiche e culturali.

Come andare avanti? Se questo è il nostro patrimonio di sviluppo sostenibile, sono necessari forti investimenti pubblici sulla cultura, sulla ricerca scientifica, sulla scuola e sulla formazione di lungo periodo, cercando di raggiungere velocemente standard europei. Utili, anche, forti incentivi fiscali per le imprese private che investono in quelle direzioni (un’estensione dell’Art Bonus sarebbe quanto mai opportuna, dando finalmente ascolto a chi, come Museimpresa, lo chiede da tempo).

Il nostro futuro, infatti, ha un cuore antico (parafrasando l’efficace titolo di un libro di Carlo Levi). Ed è indispensabile affrontare le sfide di una contemporaneità che si presenta carica di complessità e aspetti controversi, ma anche di straordinarie opportunità. Di complessità, d’altronde, proprio l’esperienza culturale e sociale italiana è sempre stata straordinariamente densa. E quel “mosaico di storie diverse” ricordato dal presidente Mattarella proprio oggi è un elemento su cui fare leva. Per ricostruire fiducia e dare ai giovani stimoli per investire, lavorare, fare ricerca, rafforzare la propria creatività e intraprendenza.

Tracce di storia, percorsi di futuro.

(foto Getty Images)

Ricostruire fiducia. E ridare speranza, soprattutto alle ragazze e ai ragazzi, molti, troppi dei quali abbandonano l’Italia in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. In tempi di crisi, quali quelli che stiamo vivendo, è necessario avere la chiara consapevolezza delle tensioni, delle fratture e dei  rischi di degrado delle condizioni politiche, economiche e sociali. Ma anche provare a intravvedere, e cercare di costruire, progetti di ripresa, di riscatto. Al di là del buon senso che racconta come il punto più oscuro delle notte sia proprio alla vigilia dell’alba, a mettere un limite alla disperazione contribuiscono le pagine più lucide della nostra letteratura. Come quella che conclude “Le città invisibili” di Italo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’é uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

La lezione di Calvino è parte integrante di un modo responsabile di concepire il lavoro intellettuale e dunque anche l’impegno politico. E vale la pena tenerla a mente di fronte ai tanti segnali di crisi che affollano il nostro tempo inquieto. Cercandone tracce nel tessuto stesso del discorso pubblico con cui viviamo, raccontiamo, progettiamo una più soddisfacente condizione nel nostro essere cives, cittadini responsabili di una comunità.

Un buon esempio sta nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pronunciate nei giorni scorsi durante la cerimonia, al Quirinale, per i cinquant’anni del Fai, il Fondo che, meritoriamente, tutela e valorizza i beni ambientali italiani e dunque anche il paesaggio, i monumenti, le testimonianze storiche di una straordinaria civiltà. In linea, appunto, con la recente versione dell’articolo 9 della Costituzione che, nella modifica del febbraio 2022, ha introdotto, accanto allo “sviluppo della cultura”, alla “ricerca scientifica e tecnica” e alla tutela del “paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” pure “la tutela dell’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Sostiene il presidente Mattarella che la cultura ha la responsabilità della “costruzione di identità condivise e comuni, nel rispetto delle identità di ciascuno” e definisce una civiltà “che genera capitale sociale, incontro, pace, sviluppo”. Quest’Italia è, appunto, “un suggestivo mosaico” frutto di “tante storie e vicende” e “pazientemente composto a beneficio delle nuove generazioni”. Tocca a loro, infatti, “trovare alimento nella storia da cui hanno origine” e da essa “alzare l’orizzonte nel nostro sguardo”. In altri termini, “il destino dell’uomo e il destino dell’ambiente non sono mai stati così strettamente connessi”.

Ambiente, cultura, storia e sviluppo sostenibile sono cardini essenziali di una più equilibrata crescita economica e sociale (ne abbiamo parlato anche nei blog delle ultime due settimane). E se in tempi di radicali sconvolgimenti degli equilibri geopolitici e di profondo turbamento dei mercati a causa delle gravi guerre commerciali in corso, vanno ridefinite ragioni e metodi delle competizioni e delle ricostruzioni delle catene del valore, proprio l’Italia, nel contesto dell’Europa, non può non fare leva sulle caratteristiche culturali, economiche e civili che ne connotano storia e futuro.

Ecco perché il presidente Mattarella ricorda che “non si tratta di imbalsamare luoghi, ma di mettere a disposizione della comunità risorse che si rischia di disperdere se non più valorizzate”.

Sono luoghi, infatti, densi di bellezza e di cultura. E i 72 beni affidati al Fai (56, quelli aperti al pubblico e protetti e valorizzati grazie all’impegno di 300mila iscritti e 16mila volontari) sono un campione di quella straordinaria ricchezza italiana che vale non solo come stimolo per un turismo colto, lento, consapevole e responsabile, ma soprattutto come patrimonio culturale e come capitale sociale da usare bene come leva di sviluppo sostenibile.

A ragione, il presidente Mattarella, nell’incontro con i delegati del Fai (guidati dal presidente Marco Magnifico e dall’ex presidente Andrea Carandini) ha ricordato le parole di Benedetto Croce, promotore nel 1922 della prima legge sul paesaggio e convinto che “lo spirito di una comunità fosse legato ai territori e al paesaggio, degradando i quali si rischiava di indebolire e sradicare le proprie ragioni storiche e culturali”. Un rischio, purtroppo, ancora attuale, anche in violazione delle serie norme di tutela.

Valori culturali e morali. E valori di rilievo economico. La cultura italiana, in cui affonda le sue radici vitali il miglior Made in Italy, è infatti un ricco tessuto intrecciato di senso della bellezza e conoscenze scientifiche e tecnologiche, sapienza letteraria, artistica e filosofica e spirito matematico, creatività originale e capacità manifatturiera di fare “cose belle che piacciono al mondo”.

Le imprese migliori del Made in Italy ne sono consapevoli. Hanno fatto dei valori ESG parte essenziale del loro modo di produrre, lavorare, stare sul mercato, crescere ed essere competitive. E sanno che la propria storia è un fattore distintivo, in una competizione in cui pesano negativamente concorrenze improprie ed emulazioni. E che, appunto, il legame con i territori è un fattore identitario di qualità e sostenibilità, per trasmettere conoscenze e costruirne di nuove. Le esperienze raccontate negli oltre 160 musei e archivi storici d’impresa iscritti a Museimpresa (l’associazione nata oltre vent’anni fa da Assolombarda e Confindustria) ne sono chiare testimonianze. E la collaborazione che da tempo va avanti tra il Fai, il mondo delle imprese sostenitrici (Pirelli è una di queste) e la stessa Museimpresa dicono di un impegno comune che ha forti valenze economiche e culturali.

Come andare avanti? Se questo è il nostro patrimonio di sviluppo sostenibile, sono necessari forti investimenti pubblici sulla cultura, sulla ricerca scientifica, sulla scuola e sulla formazione di lungo periodo, cercando di raggiungere velocemente standard europei. Utili, anche, forti incentivi fiscali per le imprese private che investono in quelle direzioni (un’estensione dell’Art Bonus sarebbe quanto mai opportuna, dando finalmente ascolto a chi, come Museimpresa, lo chiede da tempo).

Il nostro futuro, infatti, ha un cuore antico (parafrasando l’efficace titolo di un libro di Carlo Levi). Ed è indispensabile affrontare le sfide di una contemporaneità che si presenta carica di complessità e aspetti controversi, ma anche di straordinarie opportunità. Di complessità, d’altronde, proprio l’esperienza culturale e sociale italiana è sempre stata straordinariamente densa. E quel “mosaico di storie diverse” ricordato dal presidente Mattarella proprio oggi è un elemento su cui fare leva. Per ricostruire fiducia e dare ai giovani stimoli per investire, lavorare, fare ricerca, rafforzare la propria creatività e intraprendenza.

Tracce di storia, percorsi di futuro.

(foto Getty Images)

Diversity Management come buona cultura del produrre

Una tesi discussa all’Università di Genova pone in rilievo i passi avanti compiuti ma anche il cammino ancora da fare

Valorizzare e rispettare chi lavora nelle imprese. Assunto importante e fondamentale, quasi scontato, che, in realtà, non sempre viene applicato come dovrebbe. Questione di cultura prima che di gestione. Questione ormai imprescindibile per ogni organizzazione della produzione, tanto da aver fatto nascere un particolare approccio. Il Diversity Management è ormai bagaglio obbligatorio per ogni buona cultura del produrre, ma è ancora un bagaglio che non tutti si portano dietro.

Erica Rovina, con la sua tesi discussa presso la Scuola di Scienze Sociali dell’Università di Genova, affronta il tema guardandolo da più punti di vista. “Diversity Management nelle imprese: una visione strategica” – questo il titolo della ricerca – ha l’obiettivo di analizzare quelle che sono le cause, le sfide e le opportunità del Diversity Management, come viene spiegato nelle prima pagine del lavoro, andandosi a concentrare su alcune forme di discriminazione, tra cui quelle razziali, di genere e culturali.

Erica Rovina mette a fuoco prima i tratti fondamentali del Diversity Management inteso come strategia essenziale per le organizzazioni, che ha l’obiettivo di valorizzare le differenze individuali oltre che promuovere ambienti di lavoro inclusivi e competitivi. Per questo motivo, nella tesi viene esplorato anche l’insieme delle attuali regole che normano queste pratiche non solo in Italia e in Europa ma anche negli USA. Successivamente la ricerca cerca di mettere in luce il livello di applicazione reale delle regole nelle diverse imprese e quindi le difficoltà ancora da risolvere. La teoria viene poi confrontata con la pratica attraverso un caso studio, quello di Cirfood, azienda che si occupa della ristorazione collettiva e commerciale.

Il quadro che emerge è complesso e variegato. La reale applicazione delle indicazioni del Diversity Management passa infatti dal semplice rispetto delle regole di legge ad iniziative di marketing a vere azioni di strategia per il coinvolgimento e la valorizzazione di chi lavora in azienda. Ed è un lungo cammino quello che appare ancora da compiere.

 

Diversity Management nelle imprese: una visione strategica

Erica Rovina

Tesi, Università degli Studi di Genova, Scuola di Scienze Sociali, Dipartimento di Economia Corso di Laurea Magistrale in Management, 2025

Una tesi discussa all’Università di Genova pone in rilievo i passi avanti compiuti ma anche il cammino ancora da fare

Valorizzare e rispettare chi lavora nelle imprese. Assunto importante e fondamentale, quasi scontato, che, in realtà, non sempre viene applicato come dovrebbe. Questione di cultura prima che di gestione. Questione ormai imprescindibile per ogni organizzazione della produzione, tanto da aver fatto nascere un particolare approccio. Il Diversity Management è ormai bagaglio obbligatorio per ogni buona cultura del produrre, ma è ancora un bagaglio che non tutti si portano dietro.

Erica Rovina, con la sua tesi discussa presso la Scuola di Scienze Sociali dell’Università di Genova, affronta il tema guardandolo da più punti di vista. “Diversity Management nelle imprese: una visione strategica” – questo il titolo della ricerca – ha l’obiettivo di analizzare quelle che sono le cause, le sfide e le opportunità del Diversity Management, come viene spiegato nelle prima pagine del lavoro, andandosi a concentrare su alcune forme di discriminazione, tra cui quelle razziali, di genere e culturali.

Erica Rovina mette a fuoco prima i tratti fondamentali del Diversity Management inteso come strategia essenziale per le organizzazioni, che ha l’obiettivo di valorizzare le differenze individuali oltre che promuovere ambienti di lavoro inclusivi e competitivi. Per questo motivo, nella tesi viene esplorato anche l’insieme delle attuali regole che normano queste pratiche non solo in Italia e in Europa ma anche negli USA. Successivamente la ricerca cerca di mettere in luce il livello di applicazione reale delle regole nelle diverse imprese e quindi le difficoltà ancora da risolvere. La teoria viene poi confrontata con la pratica attraverso un caso studio, quello di Cirfood, azienda che si occupa della ristorazione collettiva e commerciale.

Il quadro che emerge è complesso e variegato. La reale applicazione delle indicazioni del Diversity Management passa infatti dal semplice rispetto delle regole di legge ad iniziative di marketing a vere azioni di strategia per il coinvolgimento e la valorizzazione di chi lavora in azienda. Ed è un lungo cammino quello che appare ancora da compiere.

 

Diversity Management nelle imprese: una visione strategica

Erica Rovina

Tesi, Università degli Studi di Genova, Scuola di Scienze Sociali, Dipartimento di Economia Corso di Laurea Magistrale in Management, 2025

Non più solo ingranaggi

Pubblicato un libro che approfondisce gli aspetti umani delle imprese

Da ingranaggio ad essere umano. Seguendo l’evoluzione delle indicazioni di gestione d’impresa, e compiendo una grande sintesi, può essere questa la parabola del ruolo del lavoro e dei lavoratori. Percorso complesso, non ancora completamente compiuto. Percorso che va comunque aiutato e prima ancora ben compreso. Elementi fondamentali in questa direzione arrivano da “Il lato umano dell’impresa. Vivere la comunità dentro le organizzazioni” libro di Francesco Limone da poco pubblicato che dice molto fin dal titolo: guardare alle organizzazioni della produzione anche come comunità e non solo come meccanismi.

La base di partenza è il management scientifico, nato durante la seconda rivoluzione industriale, che vedeva (appunto) i lavoratori come ingranaggi di una macchina, con il lavoro percepito come qualcosa di separato dalla vita. In quell’era, le aziende affrontavano problemi tecnici risolvibili attraverso esperti e competenze specifiche. Oggi è tutto diverso, a partire dal contesto nel quale le imprese agiscono. E’ un sistema sociale indicato dall’acronimo B.A.N.I.: Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensibile e cioè fragile, ansioso, non lineare e incomprensibile. L’incertezza e la complessità richiedono un approccio diverso, dove ciascuno conta e contribuisce, conciliando obiettivi aziendali con una visione antropologica, e cioè umana, dell’impresa.

È su queste constatazioni che Francesco Limone fonda il suo ragionamento. Le sfide attuali – viene spiegato – sono prevalentemente adattive: nuove per tutti, con risposte che nascono dal confronto e dalle conversazioni di qualità all’interno di una comunità. Il motore dell’impresa non sono solo i talenti individuali, ma l’intera comunità che al suo interno vive e opera. La leadership diventa diffusa, combinando sfida e cura, basandosi sul senso di appartenenza e di comunità.

Senso di comunità, dunque. Condizione complessa e difficile da costruire, eppure fondamentale. Anche per le imprese. E non solo per rispondere alle sfide correnti, ma per valorizzare l’intreccio di vite interdipendenti.

È da leggere con attenzione il libro di Limone, arricchito da una prefazione di Stefano Zamagni che pone il testo in una prospettiva umanistica e storica che aiuta a comprenderlo meglio.

Il lato umano dell’impresa. Vivere la comunità dentro le organizzazioni

Francesco Limone

Egea, 2025

Pubblicato un libro che approfondisce gli aspetti umani delle imprese

Da ingranaggio ad essere umano. Seguendo l’evoluzione delle indicazioni di gestione d’impresa, e compiendo una grande sintesi, può essere questa la parabola del ruolo del lavoro e dei lavoratori. Percorso complesso, non ancora completamente compiuto. Percorso che va comunque aiutato e prima ancora ben compreso. Elementi fondamentali in questa direzione arrivano da “Il lato umano dell’impresa. Vivere la comunità dentro le organizzazioni” libro di Francesco Limone da poco pubblicato che dice molto fin dal titolo: guardare alle organizzazioni della produzione anche come comunità e non solo come meccanismi.

La base di partenza è il management scientifico, nato durante la seconda rivoluzione industriale, che vedeva (appunto) i lavoratori come ingranaggi di una macchina, con il lavoro percepito come qualcosa di separato dalla vita. In quell’era, le aziende affrontavano problemi tecnici risolvibili attraverso esperti e competenze specifiche. Oggi è tutto diverso, a partire dal contesto nel quale le imprese agiscono. E’ un sistema sociale indicato dall’acronimo B.A.N.I.: Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensibile e cioè fragile, ansioso, non lineare e incomprensibile. L’incertezza e la complessità richiedono un approccio diverso, dove ciascuno conta e contribuisce, conciliando obiettivi aziendali con una visione antropologica, e cioè umana, dell’impresa.

È su queste constatazioni che Francesco Limone fonda il suo ragionamento. Le sfide attuali – viene spiegato – sono prevalentemente adattive: nuove per tutti, con risposte che nascono dal confronto e dalle conversazioni di qualità all’interno di una comunità. Il motore dell’impresa non sono solo i talenti individuali, ma l’intera comunità che al suo interno vive e opera. La leadership diventa diffusa, combinando sfida e cura, basandosi sul senso di appartenenza e di comunità.

Senso di comunità, dunque. Condizione complessa e difficile da costruire, eppure fondamentale. Anche per le imprese. E non solo per rispondere alle sfide correnti, ma per valorizzare l’intreccio di vite interdipendenti.

È da leggere con attenzione il libro di Limone, arricchito da una prefazione di Stefano Zamagni che pone il testo in una prospettiva umanistica e storica che aiuta a comprenderlo meglio.

Il lato umano dell’impresa. Vivere la comunità dentro le organizzazioni

Francesco Limone

Egea, 2025

Le parole per raccontare creatività, cultura e industria e fare crescere il valore della lingua italiana nel mondo

“L’Italia deve far bene l’Italia”, sostiene da tempo la Fondazione Symbola. E cioè valorizzare la sua originale attitudine a tenere insieme creatività artistica e intraprendenza economica, gusto per il “bello e ben fatto” e passione per l’innovazione, spirito civico e qualità d’impresa, rispetto per l’ambiente e cultura del mercato. Dare spazio, insomma, a un capitale sociale intessuto da produttività e solidarietà. Se ne parlerà al seminario annuale estivo di Symbola a Mantova, alla fine di giugno, intitolato appunto “Se l’Italia fa l’Italia – Sostenibilità, Europa, Futuro”. E ne saranno protagonisti economisti, sociologi, politici e donne e uomini al vertice di quelle imprese che, facendo della sostenibilità ambientale e sociale un asset fondamentale della propria competitività, continuano ad occupare i migliori spazi sui mercati internazionali, nelle nicchie di alta qualità ed elevato valore aggiunto.

In questi tempi difficili e incerti, in cui le crisi geopolitiche travolgono i tradizionali assetti di potere e le guerre commerciali compromettono le possibilità di crescita economica sia globale che in moltissimi paesi, ridefinire le ragioni di competitività e riorganizzare le catene del valore è una sfida essenziale, anche e soprattutto per le imprese italiane ed europee. La diffusione dell’IA (l’Artificial Intelligence) aiuta ad affrontarla con un certo successo. E il Centro di Supercalcolo “Leonardo”, a Bologna, in raccordo con le università del Nord, le reti d’impresa e i centri di ricerca pubblici e privati, può fare la differenza a nostro vantaggio.

Da sempre, d’altronde, la “cultura politecnica” italiana, capace di trovare sintesi virtuose tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, da Leonardo da Vinci a Galileo Galilei, dai fisici di via Panisperna ai chimici alla Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963, dalla Olivetti alla Pirelli e alla Finmeccanica (oggi Leonardo), ne offre indicazioni preziose.

Come fare crescere, insomma, il Made in Italy? E come costruire maggior valore economico facendo leva sui valori cari sia ai mercati che agli stakeholders delle nostre imprese? Investimenti pubblici e privati o in ricerca e innovazione, superando la tradizionale tendenza, di governo in governo, a spendere meno della media Ue sulla ricerca e sulla formazione. Ma anche un’ambiziosa strategia di politica culturale e di politica industriale che, nel contesto delle scelte europee, valorizzi il “sapere italiano”, la nostra cultura (quella dimensione “politecnica” di cui abbiamo detto) e, naturalmente, anche la diffusione della nostra lingua. Senza retoriche nazionaliste. Ma con la consapevolezza delle relazioni, mediterranee ed europee, di cui una lingua come l’italiano è un prodotto esemplare.

Proprio quest’ultimo aspetto dei valori linguistici ed espressivi è stato al centro, a metà aprile, degli “Stati Generali della Lingua italiana”, organizzati al Maxxi di Roma, per iniziativa del ministero degli Esteri e della Società Dante Alighieri. E nel corso del dibattito sono stati analizzati anche gli aspetti legati al Made in Italy e alle attività industriali.

Come valorizzare, dunque, l’italiano come parte fondamentale delle nostre capacità sociali, culturali ed economiche? Si può partire da una frase di Gio Ponti, grande architetto, progettista, designer: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Ponti ha interpretato i processi di modernizzazione del Paese in una lunga stagione del Novecento, come mostrano il Grattacielo Pirelli, icona del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche una serie di oggetti di design e d’arte che hanno caratterizzato l’evoluzione del gusto italiano e dello stile di vita e la sua diffusione internazionale come prodotto culturale e industriale.

La cultura industriale, la cultura d’impresa, in altri termini, sono parti essenziali del patrimonio culturale italiano. Radici storiche e visioni del futuro. Un patrimonio ricco, complesso, vario, di creatività e originale operosità. D’immaginazione e produzione. La nostra lingua letteraria e scientifica ne rivela profonde tracce.

C’è, in questo patrimonio, la grande letteratura di Dante, Leopardi e Manzoni, tanto per fare solo pochi nomi. L’opera lirica di Verdi e Rossini. Le arti figurative che, da Giotto a Michelangelo, da Caravaggio a De Chirico e Modigliani segnano tutto il corso di un millennio di capolavori. Il teatro di Goldoni e Pirandello. Il cinema e la fotografia. Ma anche la matematica e la fisica, la chimica e l’architettura. Le tipografie e i caratteri di Bodoni e Manuzio. E il design e l’industria. Una cultura composita, ricca di intrecci e relazioni. Con la capacità di “fare cose belle che piacciono al mondo”. Una civiltà delle macchine, del lavoro, dell’intraprendenza e della creatività.

Arte e industria, dunque. Sapendo che fare industria significa fare cultura. E con un Made in Italy che ha una robusta connotazione industriale, di grande attualità, nei settori della meccanica e della meccatronica, della robotica, dell’automotive, della chimica e della farmaceutica, della gomma e della plastica, dell’avionica e dell’aerospazio, della cantieristica navale, oltre che naturalmente dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agroalimentare. Che parole usare per raccontarlo?

Vale la pena ricordare un’essenziale lezione latina: “Nomina sunt consequentia rerum”. Guardiamo le res, allora. E ragioniamo sull’identità italiana, ben sapendo che “l’identità non sta nel soggetto, ma nella relazione”, secondo l’acuta riflessione di un grande filosofo francese, Emmanuel Lévinas. L’identità italiana, molteplice, dialettica, aperta, inclusiva, sta nel senso della bellezza, dell’equilibrio, della misura, in una forma che esprime una funzione e accompagna (spesso preannuncia) il cambiamento economico e sociale, il movimento, la trasformazione. Identità italiana come metamorfosi. Consapevolezza della storia. E sguardo aperto sul futuro (i documenti e gli oggetti custoditi e valorizzati dagli oltre 160 musei e archivi storici aziendali iscritti a Museimpresa, ne offrono esemplari testimonianze) una novità, una presenza sui mercati.

Senso della misura, dunque. Artigianalità. Qualità.

Artigianalità non vuol dire chiudersi nell’orizzonte della piccola bottega artigiana, comunque importante. Indica invece, in senso più ampio, un metodo del fare a mano, la precisione, la cura del dettaglio, l’attenzione per l’equilibrio tra le forme e le funzioni, un senso del prodotto curato per il singolo uso del singolo cliente. L’artigianalità applicata al grande processo industriale, alle sue nicchie a maggior valore aggiunto.

E la misura? Cosa vuol dire misura? Il senso della misura, dell’equilibrio, delle proporzioni e delle relazioni è parte fondamentale della bellezza. Per averne un’idea, si può andare a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana e aprire le pagine del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci. Lì, nelle oltre mille tavole, ci sono raffigurazioni di ingranaggi, macchine di scavo e lavoro, disegni tecnici che colpiscono per la bellezza del tratto e la sofisticatezza della tecnologia raffigurata, il senso dell’equilibrio e la forza della precisione, qualità che poi, secoli dopo, si sarebbero tradotte in tutto quello che la manifattura italiana ha saputo fare nel tempo, e che ancora oggi sa realizzare. Coerentemente, quando la Confindustria, nel giugno del ‘23 ha deciso di aprire un suo ufficio di rappresentanza a Washington, ha portato in esposizione, alla Public Library della capitale Usa, appunto i disegni leonardeschi del Codice Atlantico.

C’è una parola che, adesso, vale la pena sottolineare: design. Disegno industriale. Bellezza e funzionalità legate alla qualità della vita quotidiana, dei consumi e dell’evoluzione dei consumi.  Estetica e uso degli oggetti di produzione industriale. Espressione della “cultura politecnica” di cui continuiamo a parlare. Una cultura del progetto e del prodotto e, adesso, dei servizi. Potremmo anche dire così: la qualità dell’industria italiana, la sua bellezza, la forza distintiva, la forza competitiva del Made in Italy, meritano un racconto migliore di quello che è stato fatto sino a oggi. Un racconto che esprima più compiutamente le nostre potenzialità. La flessibilità, la ricchezza, la musicalità della lingua ci vengono in aiuto. Esportare i prodotti e i servizi del made in Italy e ampliare gli orizzonti di studio e uso della lingua italiana sono parti di un identico progetto di sviluppo culturale e civile.

Ma fermiamoci ancora un momento sulla parola “bellezza”. Se non indica soltanto un insieme di valori e di fattori estetici, ma anche elementi di qualità e di funzionalità, ecco che scopriamo che, nel corso della tradizione, la bellezza ha a che fare anche con le radici della nostra coscienza civile e con quella “economia civile” di cui è stato esemplare teorico Antonio Genovesi, uno dei principali illuministi napoletani, considerato da Adam Smith, il padre dell’economia liberale, “il mio maestro”. Produttività e consapevolezza dei valori delle comunità, innovazione e solidarietà. Costruzione di ricchezza. E miglioramento degli equilibri sociali.

La bellezza dei monumenti, la bellezza del paesaggio, delle relazioni, delle città e dei quartieri, la bellezza delle aggregazioni e delle produzioni. Ma anche la bellezza delle fabbriche ben progettate, la “fabbrica bella”, cioè ben disegnata, sicura, accogliente, inclusiva, sostenibile. L’industria italiana ha dato vita e continua a far nascere e crescere “fabbriche belle” in cui lavorare è piacevole e in cui si produce meglio e con maggiore qualità. È una lezione d’esperienza e una capacità di progetto. E ragionare delle nostre parole per dire della qualità manifatturiera è un compito non solo economico, ma culturale e civile. Un’eredità storica. E un progetto futuro.

(foto Getty Images)

“L’Italia deve far bene l’Italia”, sostiene da tempo la Fondazione Symbola. E cioè valorizzare la sua originale attitudine a tenere insieme creatività artistica e intraprendenza economica, gusto per il “bello e ben fatto” e passione per l’innovazione, spirito civico e qualità d’impresa, rispetto per l’ambiente e cultura del mercato. Dare spazio, insomma, a un capitale sociale intessuto da produttività e solidarietà. Se ne parlerà al seminario annuale estivo di Symbola a Mantova, alla fine di giugno, intitolato appunto “Se l’Italia fa l’Italia – Sostenibilità, Europa, Futuro”. E ne saranno protagonisti economisti, sociologi, politici e donne e uomini al vertice di quelle imprese che, facendo della sostenibilità ambientale e sociale un asset fondamentale della propria competitività, continuano ad occupare i migliori spazi sui mercati internazionali, nelle nicchie di alta qualità ed elevato valore aggiunto.

In questi tempi difficili e incerti, in cui le crisi geopolitiche travolgono i tradizionali assetti di potere e le guerre commerciali compromettono le possibilità di crescita economica sia globale che in moltissimi paesi, ridefinire le ragioni di competitività e riorganizzare le catene del valore è una sfida essenziale, anche e soprattutto per le imprese italiane ed europee. La diffusione dell’IA (l’Artificial Intelligence) aiuta ad affrontarla con un certo successo. E il Centro di Supercalcolo “Leonardo”, a Bologna, in raccordo con le università del Nord, le reti d’impresa e i centri di ricerca pubblici e privati, può fare la differenza a nostro vantaggio.

Da sempre, d’altronde, la “cultura politecnica” italiana, capace di trovare sintesi virtuose tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, da Leonardo da Vinci a Galileo Galilei, dai fisici di via Panisperna ai chimici alla Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963, dalla Olivetti alla Pirelli e alla Finmeccanica (oggi Leonardo), ne offre indicazioni preziose.

Come fare crescere, insomma, il Made in Italy? E come costruire maggior valore economico facendo leva sui valori cari sia ai mercati che agli stakeholders delle nostre imprese? Investimenti pubblici e privati o in ricerca e innovazione, superando la tradizionale tendenza, di governo in governo, a spendere meno della media Ue sulla ricerca e sulla formazione. Ma anche un’ambiziosa strategia di politica culturale e di politica industriale che, nel contesto delle scelte europee, valorizzi il “sapere italiano”, la nostra cultura (quella dimensione “politecnica” di cui abbiamo detto) e, naturalmente, anche la diffusione della nostra lingua. Senza retoriche nazionaliste. Ma con la consapevolezza delle relazioni, mediterranee ed europee, di cui una lingua come l’italiano è un prodotto esemplare.

Proprio quest’ultimo aspetto dei valori linguistici ed espressivi è stato al centro, a metà aprile, degli “Stati Generali della Lingua italiana”, organizzati al Maxxi di Roma, per iniziativa del ministero degli Esteri e della Società Dante Alighieri. E nel corso del dibattito sono stati analizzati anche gli aspetti legati al Made in Italy e alle attività industriali.

Come valorizzare, dunque, l’italiano come parte fondamentale delle nostre capacità sociali, culturali ed economiche? Si può partire da una frase di Gio Ponti, grande architetto, progettista, designer: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Ponti ha interpretato i processi di modernizzazione del Paese in una lunga stagione del Novecento, come mostrano il Grattacielo Pirelli, icona del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche una serie di oggetti di design e d’arte che hanno caratterizzato l’evoluzione del gusto italiano e dello stile di vita e la sua diffusione internazionale come prodotto culturale e industriale.

La cultura industriale, la cultura d’impresa, in altri termini, sono parti essenziali del patrimonio culturale italiano. Radici storiche e visioni del futuro. Un patrimonio ricco, complesso, vario, di creatività e originale operosità. D’immaginazione e produzione. La nostra lingua letteraria e scientifica ne rivela profonde tracce.

C’è, in questo patrimonio, la grande letteratura di Dante, Leopardi e Manzoni, tanto per fare solo pochi nomi. L’opera lirica di Verdi e Rossini. Le arti figurative che, da Giotto a Michelangelo, da Caravaggio a De Chirico e Modigliani segnano tutto il corso di un millennio di capolavori. Il teatro di Goldoni e Pirandello. Il cinema e la fotografia. Ma anche la matematica e la fisica, la chimica e l’architettura. Le tipografie e i caratteri di Bodoni e Manuzio. E il design e l’industria. Una cultura composita, ricca di intrecci e relazioni. Con la capacità di “fare cose belle che piacciono al mondo”. Una civiltà delle macchine, del lavoro, dell’intraprendenza e della creatività.

Arte e industria, dunque. Sapendo che fare industria significa fare cultura. E con un Made in Italy che ha una robusta connotazione industriale, di grande attualità, nei settori della meccanica e della meccatronica, della robotica, dell’automotive, della chimica e della farmaceutica, della gomma e della plastica, dell’avionica e dell’aerospazio, della cantieristica navale, oltre che naturalmente dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agroalimentare. Che parole usare per raccontarlo?

Vale la pena ricordare un’essenziale lezione latina: “Nomina sunt consequentia rerum”. Guardiamo le res, allora. E ragioniamo sull’identità italiana, ben sapendo che “l’identità non sta nel soggetto, ma nella relazione”, secondo l’acuta riflessione di un grande filosofo francese, Emmanuel Lévinas. L’identità italiana, molteplice, dialettica, aperta, inclusiva, sta nel senso della bellezza, dell’equilibrio, della misura, in una forma che esprime una funzione e accompagna (spesso preannuncia) il cambiamento economico e sociale, il movimento, la trasformazione. Identità italiana come metamorfosi. Consapevolezza della storia. E sguardo aperto sul futuro (i documenti e gli oggetti custoditi e valorizzati dagli oltre 160 musei e archivi storici aziendali iscritti a Museimpresa, ne offrono esemplari testimonianze) una novità, una presenza sui mercati.

Senso della misura, dunque. Artigianalità. Qualità.

Artigianalità non vuol dire chiudersi nell’orizzonte della piccola bottega artigiana, comunque importante. Indica invece, in senso più ampio, un metodo del fare a mano, la precisione, la cura del dettaglio, l’attenzione per l’equilibrio tra le forme e le funzioni, un senso del prodotto curato per il singolo uso del singolo cliente. L’artigianalità applicata al grande processo industriale, alle sue nicchie a maggior valore aggiunto.

E la misura? Cosa vuol dire misura? Il senso della misura, dell’equilibrio, delle proporzioni e delle relazioni è parte fondamentale della bellezza. Per averne un’idea, si può andare a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana e aprire le pagine del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci. Lì, nelle oltre mille tavole, ci sono raffigurazioni di ingranaggi, macchine di scavo e lavoro, disegni tecnici che colpiscono per la bellezza del tratto e la sofisticatezza della tecnologia raffigurata, il senso dell’equilibrio e la forza della precisione, qualità che poi, secoli dopo, si sarebbero tradotte in tutto quello che la manifattura italiana ha saputo fare nel tempo, e che ancora oggi sa realizzare. Coerentemente, quando la Confindustria, nel giugno del ‘23 ha deciso di aprire un suo ufficio di rappresentanza a Washington, ha portato in esposizione, alla Public Library della capitale Usa, appunto i disegni leonardeschi del Codice Atlantico.

C’è una parola che, adesso, vale la pena sottolineare: design. Disegno industriale. Bellezza e funzionalità legate alla qualità della vita quotidiana, dei consumi e dell’evoluzione dei consumi.  Estetica e uso degli oggetti di produzione industriale. Espressione della “cultura politecnica” di cui continuiamo a parlare. Una cultura del progetto e del prodotto e, adesso, dei servizi. Potremmo anche dire così: la qualità dell’industria italiana, la sua bellezza, la forza distintiva, la forza competitiva del Made in Italy, meritano un racconto migliore di quello che è stato fatto sino a oggi. Un racconto che esprima più compiutamente le nostre potenzialità. La flessibilità, la ricchezza, la musicalità della lingua ci vengono in aiuto. Esportare i prodotti e i servizi del made in Italy e ampliare gli orizzonti di studio e uso della lingua italiana sono parti di un identico progetto di sviluppo culturale e civile.

Ma fermiamoci ancora un momento sulla parola “bellezza”. Se non indica soltanto un insieme di valori e di fattori estetici, ma anche elementi di qualità e di funzionalità, ecco che scopriamo che, nel corso della tradizione, la bellezza ha a che fare anche con le radici della nostra coscienza civile e con quella “economia civile” di cui è stato esemplare teorico Antonio Genovesi, uno dei principali illuministi napoletani, considerato da Adam Smith, il padre dell’economia liberale, “il mio maestro”. Produttività e consapevolezza dei valori delle comunità, innovazione e solidarietà. Costruzione di ricchezza. E miglioramento degli equilibri sociali.

La bellezza dei monumenti, la bellezza del paesaggio, delle relazioni, delle città e dei quartieri, la bellezza delle aggregazioni e delle produzioni. Ma anche la bellezza delle fabbriche ben progettate, la “fabbrica bella”, cioè ben disegnata, sicura, accogliente, inclusiva, sostenibile. L’industria italiana ha dato vita e continua a far nascere e crescere “fabbriche belle” in cui lavorare è piacevole e in cui si produce meglio e con maggiore qualità. È una lezione d’esperienza e una capacità di progetto. E ragionare delle nostre parole per dire della qualità manifatturiera è un compito non solo economico, ma culturale e civile. Un’eredità storica. E un progetto futuro.

(foto Getty Images)

Progetti delll’Istituto Leopoldo Pirelli

Di seguito i progetti realizzati dagli studenti dell’Istituto Leopoldo Pirelli

LINGUISTICO

Progetto 1: PremioPirelli2024-2025_classe4BLL alunniGastanuediAstoraySamantha-CastrucioCastraccaniGiulia

Progetto 2: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5DLL ORTEGA D. SANTALUCIA M.

Progetto 3: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5DLL COSSUTO F. CRUPI E.

Progetto 4: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL CURATOLO C. GARCIA G. PEDEMONTI G

Progetto 5: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL AGOSTA A. BRUNO G. MORALES S.

Progetto 6: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL ELSAYED C. CHIESENA M.

Progetto 7: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4BLL DE LULLO L. MORONI G. VIGLIATURO E.

Progetto 8: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4ALL INNOCENTI A. FALASCA C. LONGARI L.

Progetto 9: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4ALL BERTUZZI L. VALDEZ MENDOZA M.

Progetto 10: Premio Pirelli 2024-25_classe 4ALL alunna Nicole Delle Donne

Progetto 11: Premio Pirelli 2024-25_4BLL Minchella Olivieri Piscaglia

Progetto 12: Premio PIRELLI 2024 2025 5ALL Vicini Bruno Gammoudi

Progetto 13: Premio pirelli 2024 2025 5AL IMPERATORE S. BRUGIA E. CARINI M

ECONOMICO

Progetto 1: PREMIO PIRELLI 24-25_ 3CSIA De Gennaro Flavio e Alessio EvangelistiLa Costituzione_20250404_174949

Progetto 2: PREMIO PIRELLI 24-25_ 4 C SIA 4CSIAGEEKIYANAGE KENOTH RANDAYA HOSSAIN RAHATTARONNA EMILIANOLA COSTITUZIONE ITALIANA E LA RESISTE

Progetto 3: Premio Pirelli 2024-25_classe 3B AFM Francesco Malta

Progetto 4:Premio Pirelli 2025 Ludovica Di Marino 3D RIM

Progetto 5: Premio Pirelli 2025 Miriam Rahmaoui 3D R.I.M.

Progetto 6:Premio Pirelli classe 4D RIM (Mancini, Marucci, Vadislav)

Progetto 7: PREMIO PIRELLI 24-25_ 3CSIALudovica Miulli ed Angelica Pette

TECNOLOGICO

Progetto 1: Premio Pirelli 2024-25_classe 5A CAT alunne Berardi Valeria_Pedone Beatrice

Progetto 2: PremioPirelli 2024-25_5ACAT_Imbratta-Gambelunghe

Progetto 3: Premio Pirelli 2024-25_classe 3Acat alunni D’Ambrosio Mathilde_Laurenti Elisa_Silvestri Giada

Di seguito i progetti realizzati dagli studenti dell’Istituto Leopoldo Pirelli

LINGUISTICO

Progetto 1: PremioPirelli2024-2025_classe4BLL alunniGastanuediAstoraySamantha-CastrucioCastraccaniGiulia

Progetto 2: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5DLL ORTEGA D. SANTALUCIA M.

Progetto 3: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5DLL COSSUTO F. CRUPI E.

Progetto 4: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL CURATOLO C. GARCIA G. PEDEMONTI G

Progetto 5: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL AGOSTA A. BRUNO G. MORALES S.

Progetto 6: PREMIO PIRELLI 2024-2025 5BLL ELSAYED C. CHIESENA M.

Progetto 7: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4BLL DE LULLO L. MORONI G. VIGLIATURO E.

Progetto 8: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4ALL INNOCENTI A. FALASCA C. LONGARI L.

Progetto 9: PREMIO PIRELLI 2024-2025 4ALL BERTUZZI L. VALDEZ MENDOZA M.

Progetto 10: Premio Pirelli 2024-25_classe 4ALL alunna Nicole Delle Donne

Progetto 11: Premio Pirelli 2024-25_4BLL Minchella Olivieri Piscaglia

Progetto 12: Premio PIRELLI 2024 2025 5ALL Vicini Bruno Gammoudi

Progetto 13: Premio pirelli 2024 2025 5AL IMPERATORE S. BRUGIA E. CARINI M

ECONOMICO

Progetto 1: PREMIO PIRELLI 24-25_ 3CSIA De Gennaro Flavio e Alessio EvangelistiLa Costituzione_20250404_174949

Progetto 2: PREMIO PIRELLI 24-25_ 4 C SIA 4CSIAGEEKIYANAGE KENOTH RANDAYA HOSSAIN RAHATTARONNA EMILIANOLA COSTITUZIONE ITALIANA E LA RESISTE

Progetto 3: Premio Pirelli 2024-25_classe 3B AFM Francesco Malta

Progetto 4:Premio Pirelli 2025 Ludovica Di Marino 3D RIM

Progetto 5: Premio Pirelli 2025 Miriam Rahmaoui 3D R.I.M.

Progetto 6:Premio Pirelli classe 4D RIM (Mancini, Marucci, Vadislav)

Progetto 7: PREMIO PIRELLI 24-25_ 3CSIALudovica Miulli ed Angelica Pette

TECNOLOGICO

Progetto 1: Premio Pirelli 2024-25_classe 5A CAT alunne Berardi Valeria_Pedone Beatrice

Progetto 2: PremioPirelli 2024-25_5ACAT_Imbratta-Gambelunghe

Progetto 3: Premio Pirelli 2024-25_classe 3Acat alunni D’Ambrosio Mathilde_Laurenti Elisa_Silvestri Giada

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