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Campiello Junior 2025: con le vincitrici al Salone del Libro di Torino

Dopo la premiazione delle vincitrici del Campiello Junior 2025 continuano gli appuntamenti del riconoscimento nato grazie a Fondazione Il Campiello, Pirelli e la Fondazione Pirelli. A partire da quest’anno il Premio si arricchisce con due importanti collaborazioni: con Rai Radio Kids, la radio destinata ai piccoli ascoltatori di Rai − Radiotelevisione Italiana S.p.A. −, grazie alla quale il Premio è stato promosso e raccontato, e con il Salone Internazionale del Libro di Torino, prestigioso appuntamento per tutti gli appassionati di lettura.

All’interno del palinsesto della XXXVII edizione del Salone, le ragazze e i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado potranno partecipare giovedì 15 maggio 2025 alle ore 14.30 presso la Sala Azzurra, a un incontro con le vincitrici del Premio Campiello Junior 2025: Ilaria Mattioni, con La figlia del gigante (Feltrinelli) e Chiara Carminati con Nella tua pelle (Bompiani), che dialogheranno insieme ad Armando Traverso, conduttore di Rai Radio Kids e volto storico della tv per ragazzi. Con loro, Antonio Calabrò (Fondazione Pirelli) e Raffaele Boscaini (Fondazione Il Campiello). Le vincitrici del Premio sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani Lettori, composta da 240 ragazze e ragazzi tra i 7 e i 14 anni, da tutta Italia e anche dall’estero, suddivisi in due categorie: 7-10 anni e 11-14 anni.

Se conosci insegnanti interessati al mondo della letteratura per ragazzi puoi segnalare l’evento, per invitarli a partecipare con i loro studenti e dare loro l’opportunità di conoscere le due scrittrici.

Per prenotarti clicca qui.

 

Dopo la premiazione delle vincitrici del Campiello Junior 2025 continuano gli appuntamenti del riconoscimento nato grazie a Fondazione Il Campiello, Pirelli e la Fondazione Pirelli. A partire da quest’anno il Premio si arricchisce con due importanti collaborazioni: con Rai Radio Kids, la radio destinata ai piccoli ascoltatori di Rai − Radiotelevisione Italiana S.p.A. −, grazie alla quale il Premio è stato promosso e raccontato, e con il Salone Internazionale del Libro di Torino, prestigioso appuntamento per tutti gli appassionati di lettura.

All’interno del palinsesto della XXXVII edizione del Salone, le ragazze e i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado potranno partecipare giovedì 15 maggio 2025 alle ore 14.30 presso la Sala Azzurra, a un incontro con le vincitrici del Premio Campiello Junior 2025: Ilaria Mattioni, con La figlia del gigante (Feltrinelli) e Chiara Carminati con Nella tua pelle (Bompiani), che dialogheranno insieme ad Armando Traverso, conduttore di Rai Radio Kids e volto storico della tv per ragazzi. Con loro, Antonio Calabrò (Fondazione Pirelli) e Raffaele Boscaini (Fondazione Il Campiello). Le vincitrici del Premio sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani Lettori, composta da 240 ragazze e ragazzi tra i 7 e i 14 anni, da tutta Italia e anche dall’estero, suddivisi in due categorie: 7-10 anni e 11-14 anni.

Se conosci insegnanti interessati al mondo della letteratura per ragazzi puoi segnalare l’evento, per invitarli a partecipare con i loro studenti e dare loro l’opportunità di conoscere le due scrittrici.

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Nella città-scena

Quarta tappa del nostro approfondimento Pirelli, la città, la visione”: immagini e testimonianze di un’azienda partecipe sin dalle origini alle grandi esposizioni internazionali

I visitatori che entrano nell’Archivio Storico di Fondazione Pirelli vengono accolti da un’immagine fotografica di grande impatto visivo e di notevole rilevanza – per la storia dell’azienda e anche per l’evoluzione della fotografia. Posizionata proprio all’ingresso del percorso di visita, “L’uscita delle maestranze Pirelli dallo stabilimento di via Ponte Seveso” è stata scattata nel 1905 da Luca Comerio, grande fotografo e pioniere del cinema; ritrae le migliaia di lavoratori dello stabilimento milanese di via Ponte Seveso (ora via Fabio Filzi) e nella fattispecie, è un ingrandimento della misura di cm 245 x 150, realizzato per l’Esposizione Universale che il 28 aprile 1906 inaugurava a Milano, in omaggio al traforo del Sempione. In questa grande manifestazione che attirava espositori da tutto il mondo, Pirelli allestiva i suoi stand nella sala dell’Automobilismo e nel padiglione dell’Aeronautica, tra esibizioni di voli aerostatici e dirigibili che navigavano il cielo della città e altre attrazioni, celebrando il grande tema ispiratore della manifestazione “La scienza, la città e la vita” attraverso i propri prodotti e tecnologie, ma anche con un orgoglioso ritratto collettivo delle proprie lavoratrici e lavoratori.

La storia di Pirelli e della sua partecipazione alle esposizioni internazionali inizia già nel 1889 con l’Esposizione Universale di Parigi ed è attraversata dall’entusiasmo per le nuove frontiere tecnologiche e le magnifiche opportunità di creare sempre nuove relazioni, preziose per ampliare gli orizzonti commerciali e culturali. A quella manifestazione che celebrava i 100 anni dalla Rivoluzione Francese è presente Giovanni Battista Pirelli, fondatore dell’azienda nel 1872, che invita con una lettera Giuseppe Borghero, direttore dello stabilimento Pirelli di La Spezia dove si producono cavi telegrafici sottomarini, a visitare la parte dedicata all’elettricità.

Ma la prima effettiva partecipazione di Pirelli a una Esposizione Universale con l’allestimento di uno stand risale al 1900, sempre a Parigi, con campioni di cavi di ogni sorta (isolati in guttaperca, in materie tessili, in caoutchouc vulcanizzato, per telegrafi, telefoni, luce elettrica, trasporto di energia a distanza) oltre a quelli sottomarini e sotterranei, tra cui un modello speciale, per il trasporto di energia a 2500 volt, in grado di illuminare 500 lampade disposte su un quadro all’interno dello stand, dimostrando la capacità di Pirelli di trasportare l’energia elettrica ad altissime tensioni.

Dimostrare la propria potenza tecnologica e il proprio protagonismo in quella fase della storia dell’umanità in cui il progresso era una gioiosa competizione di capacità, risorse, competenze, ma anche slancio creativo, che andava in scena nelle esposizioni universali nelle città del mondo, che diventavano città-mondo, palcoscenico dei migliori traguardi e dunque momenti di ispirazione per tutta la comunità. Questo è l’aspetto che ci interessa esplorare in questo articolo, che si inserisce nel racconto dedicato al legame intenso e continuo fra Pirelli e la città, con lo sguardo rivolto in avanti.

Nel 1904 è la volta dell’Esposizione internazionale della Lousiana, la “Louisiana Purchaise”, con la supervisione diretta di Piero Pirelli, recatosi negli Stati Uniti anche per osservare l’industria americana e stipulare nuovi accordi commerciali e di fornitura. La presenta come un’occasione da non perdere, con espositori da tutta Europa, America latina, Canada, Cina e Giappone e la possibilità, dunque, di entrare in contatto con i rappresentanti di questi paesi oltre che degli Stati Uniti.

Nel 1958 l’esposizione universale entra nelle pagine della Rivista Pirelli. Nel numero 4 si legge l’articolo “Taccuino dell’Expo” a firma Franco Fellini, pseudonimo di Giovanni Pirelli, dove si descrive lo spirito cosmopolita dell’Esposizione Universale di Bruxelles, con la folla protagonista  “una folla internazionale ed eterogenea il cui comune denominatore sembra essere l’ansia di vedere tutto, di tutto sperimentare” e quella dimensione di euforia per le atmosfere fantascientifiche create dall’Atomium, simbolo dell’Expo, e per i grandiosi padiglioni rappresentativi di tutti i mondi allora possibili.

È il 1961. A Torino va in scena l’Esposizione Internazionale del Lavoro per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia. Pirelli allestisce un padiglione sul tema della ricerca scientifica e all’ingresso espone il grande mosaico realizzato dai maestri dell’Accademia delle Belle Arti di Ravenna, su cartone preparatorio di Renato Guttuso, oggi conservato nella sala consultazione in Fondazione Pirelli. Raffigura uomini e donne in camice bianco, intenti a studiare il mondo con strumenti e microscopi. Una partecipazione che sta dalla parte della cultura politecnica in cui l’azienda si è già radicalmente identificata.

Facendo un lungo salto temporale che include fiere e saloni di richiamo internazionale dove Pirelli è presente con i suoi prodotti, tecnologia e valori d’impresa (fra tutti, la prima edizione del Salone del Mobile a Milano nel 1961) riatterriamo a Milano, dove il 1° maggio 2015 – (ri)apre le porte l’Expo, il tema questa volta è “Nutrire il Pianeta. Energia per la vita”. Per Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo di Pirelli, Expo Milano 2015 è stata “una grande opportunità per Milano e per l’intero Paese. Per questo Pirelli ha scelto di sostenere una serie di iniziative a questo collegate, tra cui l’Albero della Vita, una grande opera contemporanea destinata a diventare un’icona della creatività e della qualità industriale di Milano e del sistema Italia, un simbolo forte della manifestazione in tutto il mondo”.

Pirelli aveva iniziato molto presto a presentare i propri prodotti in fiere nazionali e di settore (come le esposizioni generali italiane del 1881 e del 1884, o quella internazionale di panificazione e macinazione di Milano nel 1897, con un padiglione dedicato all’elettricità).

Ma è nelle grandi esposizioni internazionali che si coglie il nesso fra un’azienda come Pirelli con lo sguardo rivolto in avanti e la città capace di mettere in scena la visione. “L’Esposizione Universale di Bruxelles è un’immagine di ciò che è, ciò che vuole sembrare, ciò che vuole diventare il mondo in cui viviamo”. Lo dice bene ancora una volta l’articolo “Taccuino dall’Expo”, introducendo il concetto del “diventare”, ovvero del futuro e del saperlo vedere. La visione, appunto.

Quarta tappa del nostro approfondimento Pirelli, la città, la visione”: immagini e testimonianze di un’azienda partecipe sin dalle origini alle grandi esposizioni internazionali

I visitatori che entrano nell’Archivio Storico di Fondazione Pirelli vengono accolti da un’immagine fotografica di grande impatto visivo e di notevole rilevanza – per la storia dell’azienda e anche per l’evoluzione della fotografia. Posizionata proprio all’ingresso del percorso di visita, “L’uscita delle maestranze Pirelli dallo stabilimento di via Ponte Seveso” è stata scattata nel 1905 da Luca Comerio, grande fotografo e pioniere del cinema; ritrae le migliaia di lavoratori dello stabilimento milanese di via Ponte Seveso (ora via Fabio Filzi) e nella fattispecie, è un ingrandimento della misura di cm 245 x 150, realizzato per l’Esposizione Universale che il 28 aprile 1906 inaugurava a Milano, in omaggio al traforo del Sempione. In questa grande manifestazione che attirava espositori da tutto il mondo, Pirelli allestiva i suoi stand nella sala dell’Automobilismo e nel padiglione dell’Aeronautica, tra esibizioni di voli aerostatici e dirigibili che navigavano il cielo della città e altre attrazioni, celebrando il grande tema ispiratore della manifestazione “La scienza, la città e la vita” attraverso i propri prodotti e tecnologie, ma anche con un orgoglioso ritratto collettivo delle proprie lavoratrici e lavoratori.

La storia di Pirelli e della sua partecipazione alle esposizioni internazionali inizia già nel 1889 con l’Esposizione Universale di Parigi ed è attraversata dall’entusiasmo per le nuove frontiere tecnologiche e le magnifiche opportunità di creare sempre nuove relazioni, preziose per ampliare gli orizzonti commerciali e culturali. A quella manifestazione che celebrava i 100 anni dalla Rivoluzione Francese è presente Giovanni Battista Pirelli, fondatore dell’azienda nel 1872, che invita con una lettera Giuseppe Borghero, direttore dello stabilimento Pirelli di La Spezia dove si producono cavi telegrafici sottomarini, a visitare la parte dedicata all’elettricità.

Ma la prima effettiva partecipazione di Pirelli a una Esposizione Universale con l’allestimento di uno stand risale al 1900, sempre a Parigi, con campioni di cavi di ogni sorta (isolati in guttaperca, in materie tessili, in caoutchouc vulcanizzato, per telegrafi, telefoni, luce elettrica, trasporto di energia a distanza) oltre a quelli sottomarini e sotterranei, tra cui un modello speciale, per il trasporto di energia a 2500 volt, in grado di illuminare 500 lampade disposte su un quadro all’interno dello stand, dimostrando la capacità di Pirelli di trasportare l’energia elettrica ad altissime tensioni.

Dimostrare la propria potenza tecnologica e il proprio protagonismo in quella fase della storia dell’umanità in cui il progresso era una gioiosa competizione di capacità, risorse, competenze, ma anche slancio creativo, che andava in scena nelle esposizioni universali nelle città del mondo, che diventavano città-mondo, palcoscenico dei migliori traguardi e dunque momenti di ispirazione per tutta la comunità. Questo è l’aspetto che ci interessa esplorare in questo articolo, che si inserisce nel racconto dedicato al legame intenso e continuo fra Pirelli e la città, con lo sguardo rivolto in avanti.

Nel 1904 è la volta dell’Esposizione internazionale della Lousiana, la “Louisiana Purchaise”, con la supervisione diretta di Piero Pirelli, recatosi negli Stati Uniti anche per osservare l’industria americana e stipulare nuovi accordi commerciali e di fornitura. La presenta come un’occasione da non perdere, con espositori da tutta Europa, America latina, Canada, Cina e Giappone e la possibilità, dunque, di entrare in contatto con i rappresentanti di questi paesi oltre che degli Stati Uniti.

Nel 1958 l’esposizione universale entra nelle pagine della Rivista Pirelli. Nel numero 4 si legge l’articolo “Taccuino dell’Expo” a firma Franco Fellini, pseudonimo di Giovanni Pirelli, dove si descrive lo spirito cosmopolita dell’Esposizione Universale di Bruxelles, con la folla protagonista  “una folla internazionale ed eterogenea il cui comune denominatore sembra essere l’ansia di vedere tutto, di tutto sperimentare” e quella dimensione di euforia per le atmosfere fantascientifiche create dall’Atomium, simbolo dell’Expo, e per i grandiosi padiglioni rappresentativi di tutti i mondi allora possibili.

È il 1961. A Torino va in scena l’Esposizione Internazionale del Lavoro per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia. Pirelli allestisce un padiglione sul tema della ricerca scientifica e all’ingresso espone il grande mosaico realizzato dai maestri dell’Accademia delle Belle Arti di Ravenna, su cartone preparatorio di Renato Guttuso, oggi conservato nella sala consultazione in Fondazione Pirelli. Raffigura uomini e donne in camice bianco, intenti a studiare il mondo con strumenti e microscopi. Una partecipazione che sta dalla parte della cultura politecnica in cui l’azienda si è già radicalmente identificata.

Facendo un lungo salto temporale che include fiere e saloni di richiamo internazionale dove Pirelli è presente con i suoi prodotti, tecnologia e valori d’impresa (fra tutti, la prima edizione del Salone del Mobile a Milano nel 1961) riatterriamo a Milano, dove il 1° maggio 2015 – (ri)apre le porte l’Expo, il tema questa volta è “Nutrire il Pianeta. Energia per la vita”. Per Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo di Pirelli, Expo Milano 2015 è stata “una grande opportunità per Milano e per l’intero Paese. Per questo Pirelli ha scelto di sostenere una serie di iniziative a questo collegate, tra cui l’Albero della Vita, una grande opera contemporanea destinata a diventare un’icona della creatività e della qualità industriale di Milano e del sistema Italia, un simbolo forte della manifestazione in tutto il mondo”.

Pirelli aveva iniziato molto presto a presentare i propri prodotti in fiere nazionali e di settore (come le esposizioni generali italiane del 1881 e del 1884, o quella internazionale di panificazione e macinazione di Milano nel 1897, con un padiglione dedicato all’elettricità).

Ma è nelle grandi esposizioni internazionali che si coglie il nesso fra un’azienda come Pirelli con lo sguardo rivolto in avanti e la città capace di mettere in scena la visione. “L’Esposizione Universale di Bruxelles è un’immagine di ciò che è, ciò che vuole sembrare, ciò che vuole diventare il mondo in cui viviamo”. Lo dice bene ancora una volta l’articolo “Taccuino dall’Expo”, introducendo il concetto del “diventare”, ovvero del futuro e del saperlo vedere. La visione, appunto.

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Economia e industria in Europa, cosa è accaduto in questi anni

Uno studio di Banca d’Italia analizza le conseguenze degli shock susseguitisi dal 2020

Conoscere l’evoluzione dei sistemi sociali ed economici, e industriali in particolare, per essere in condizione di prendere decisioni avvedute. Anche di questo è fatta la buona cultura d’impresa (e, d’altra parte, la consapevolezza di ogni buon componente della società). Condizione che vale soprattutto oggi, un periodo alle prese con le conseguenze (ancora di lunga durata) di una pandemia, con due guerre e sollecitazioni sociali importanti. “La politica industriale dell’Unione europea tra crisi e doppia transizione” – ricerca scritta da Claire Giordano, Giacomo Roma, Alessandro Schiavone, Filippo Vergara Caffarelli e Stefania Villa del servizio studi e statistiche  di Banca d’Italia – contribuisce certamente alla migliore conoscenza dal punto di vista economico dei fatti degli ultimi anni.

Il lavoro (apparso nella serie degli Occasional Papers della banca centrale italiana) analizza l’impatto degli shock che dal 2020 hanno influito sull’attività e sulla competitività internazionale dell’industria dell’Unione europea. Delineate le conseguenze di quanto avvenuto, l’indagine descrive poi gli strumenti di politica industriale costruiti dall’Unione europea e adottati a livello sia nazionale sia europeo. Una particolare attenzione, inoltre, viene posta sulle iniziative intraprese per contrastare queste crisi e far fronte alla doppia transizione verde e digitale e al mutato contesto politica internazionale.

Il gruppo di ricerca di Banca d’Italia, indica quindi i settori più colpiti dai recenti shock e dalle trasformazioni strutturali per la transizione verde e digitale: quelli energivori, la meccanica, l’elettronica e l’industria automobilistica. Viene poi evidenziato come l’approccio della Ue alla politica industriale dia sempre più enfasi alle iniziative settoriali per promuovere gli investimenti nei comparti strategici e aumentare la sicurezza economica e nazionale. Rimane, viene sottolineato, la questione della competitività dell’intero sistema industriale europeo che richiederebbe un ripensamento delle regole attuali, maggiore collaborazione tra istituzioni europee e Stati membri e finanziamenti mirati e adeguati.

Lo studio di Banca d’Italia sugli ultimi anni dell’economia europea industriale, è una buona lettura per imprenditori e manager, ma anche per chiunque voglia farsi un’idea chiara su quanto accaduto con particolare attenzione all’industria europea.

La politica industriale dell’Unione europea tra crisi e doppia transizione

Claire Giordano, Giacomo Roma, Alessandro Schiavone, Filippo Vergara Caffarelli e Stefania Villa

Banca d’Italia, Occasional Papers, n. 931, aprile 2025

Uno studio di Banca d’Italia analizza le conseguenze degli shock susseguitisi dal 2020

Conoscere l’evoluzione dei sistemi sociali ed economici, e industriali in particolare, per essere in condizione di prendere decisioni avvedute. Anche di questo è fatta la buona cultura d’impresa (e, d’altra parte, la consapevolezza di ogni buon componente della società). Condizione che vale soprattutto oggi, un periodo alle prese con le conseguenze (ancora di lunga durata) di una pandemia, con due guerre e sollecitazioni sociali importanti. “La politica industriale dell’Unione europea tra crisi e doppia transizione” – ricerca scritta da Claire Giordano, Giacomo Roma, Alessandro Schiavone, Filippo Vergara Caffarelli e Stefania Villa del servizio studi e statistiche  di Banca d’Italia – contribuisce certamente alla migliore conoscenza dal punto di vista economico dei fatti degli ultimi anni.

Il lavoro (apparso nella serie degli Occasional Papers della banca centrale italiana) analizza l’impatto degli shock che dal 2020 hanno influito sull’attività e sulla competitività internazionale dell’industria dell’Unione europea. Delineate le conseguenze di quanto avvenuto, l’indagine descrive poi gli strumenti di politica industriale costruiti dall’Unione europea e adottati a livello sia nazionale sia europeo. Una particolare attenzione, inoltre, viene posta sulle iniziative intraprese per contrastare queste crisi e far fronte alla doppia transizione verde e digitale e al mutato contesto politica internazionale.

Il gruppo di ricerca di Banca d’Italia, indica quindi i settori più colpiti dai recenti shock e dalle trasformazioni strutturali per la transizione verde e digitale: quelli energivori, la meccanica, l’elettronica e l’industria automobilistica. Viene poi evidenziato come l’approccio della Ue alla politica industriale dia sempre più enfasi alle iniziative settoriali per promuovere gli investimenti nei comparti strategici e aumentare la sicurezza economica e nazionale. Rimane, viene sottolineato, la questione della competitività dell’intero sistema industriale europeo che richiederebbe un ripensamento delle regole attuali, maggiore collaborazione tra istituzioni europee e Stati membri e finanziamenti mirati e adeguati.

Lo studio di Banca d’Italia sugli ultimi anni dell’economia europea industriale, è una buona lettura per imprenditori e manager, ma anche per chiunque voglia farsi un’idea chiara su quanto accaduto con particolare attenzione all’industria europea.

La politica industriale dell’Unione europea tra crisi e doppia transizione

Claire Giordano, Giacomo Roma, Alessandro Schiavone, Filippo Vergara Caffarelli e Stefania Villa

Banca d’Italia, Occasional Papers, n. 931, aprile 2025

Intelligenza artificiale, etica accanto a tecnica

Un libro scritto da un informatico e un filosofo contribuisce alla comprensione delle nuove tercnologie

Comprendere per agire meglio e con più avvedutezza. Indicazione che vale per tutti e in particolare per alcune categorie di componenti della società e dell’economia. Avere, in altri termini, gli strumenti corretti per capire. E agire, dopo, con maggiore attenzione. E’ quanto occorre fare anche con le nuove tecnologie a disposizione, tra cui l’intelligenza artificiale costituisce, forse, una delle più importanti, interessanti e promettenti. A patto, appunto, che ben la si comprenda.

E’ utile allora leggere “Per un’ecologia dell’intelligenza artificiale. Dialoghi tra un filosofo e un informatico” scritto a quattro mani da Vincenzo Ambriola (già professore di Informatica e direttore del Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa) e Adriano Fabris (professore di Filosofia morale sempre all’Università di Pisa). Entrambi gli autori, partendo da formazioni ed esperienze diverse, hanno un punto in comune: l’attenzione etica alla tecnologia. Il libro è un dialogo tra i due che prende le mosse da una constatazione: L’avvento dell’intelligenza artificiale sta ridefinendo i confini dell’umano, intrecciando in modo inesorabile tecnologia e coscienza. I due cercano quindi di rispondere ad una serie di interrogativi importanti per tutti che tutto sommato possono essere riuniti in una sola grande domanda. Come cambierà, con l’intelligenza artificiale, il nostro modo di lavorare, relazionarci e concepire noi stessi? Ad essere interessata dal nostro rapporto con le tecnologie è infatti l’idea stessa di essere umano che l’intelligenza artificiale introduce.

I due studiosi, portando le loro diverse lenti con le quali osservano la realtà e la tecnologia, si confrontano su questa rivoluzione epocale. Ed è proprio qui l’interesse del libro (nemmeno 100 pagine da leggere con grande attenzione). Mentre l’informatico guida chi legge attraverso i meandri dell’algoritmo, svelando le potenzialità e i limiti di questa nuova intelligenza; il filosofo invita a riflettere sulle implicazioni morali di questa trasformazione. Una visione della realtà non esclude l’altra e, anzi, la arricchisce.

Il libro è costruito in tre passi (che sono altrettanti grandi capitoli). Nel primo si ragiona sull’etica dell’intelligenza artificiale “nei sistemi socio-tecnologici” approfondendo quindi di quale etica si parla, sulla base di quali codici si discute e sulla effettiva novità delle “nuove tecnologie”. Nel secondo capitolo, poi, si riflette sul linguaggio e sui “mondi creati dalle entità artificiali” cercando di capire funzione, utilità e responsabilità che questi mondi implicano. E’ in questa parte che viene anche posto un esempio di “conversazione con un’entità artificiale”. Il terzo passo riguarda “l’ecologia degli ambienti digitali” e concerne luoghi e spazi di questi ambienti cercando di arrivare a definire, appunto, un nuovo modo di fare ecologia.

Ogni capitolo è costruito sulla base di testi scritti a quattro mani e su altri scritti alternativamente dalle mani dell’informatico oppure del filosofo.

Nelle conclusioni, i due autori chiariscono quanto oggi sia importante l’etica non solo dell’uomo ma anche delle macchine e quanto i criteri di progettazione di queste ultime debbano “essere ispirati a principi quali trasparenza, spiegabilità, rispetto di regole predefinite e inviolabili. Devono essere chiariti i meccanismi di responsabilità che governano il funzionamento di questi sistemi, separando la fase di addestramento da quelle di esercizio”. Il libro – ed è un altro suo pregio – non fornisce tuttavia una risposta a tutti gli interrogativi ancora aperti e, anzi, si conclude sottolineando quanto sia complesso e arduo arrivare ad un equilibrio nell’uso delle nuove tecnologie.

Per un’ecologia dell’intelligenza artificiale. Dialoghi tra un filosofo e un informatico

Vincenzo Ambriola, Adriano Fabris

Castelvecchi, 2025

Un libro scritto da un informatico e un filosofo contribuisce alla comprensione delle nuove tercnologie

Comprendere per agire meglio e con più avvedutezza. Indicazione che vale per tutti e in particolare per alcune categorie di componenti della società e dell’economia. Avere, in altri termini, gli strumenti corretti per capire. E agire, dopo, con maggiore attenzione. E’ quanto occorre fare anche con le nuove tecnologie a disposizione, tra cui l’intelligenza artificiale costituisce, forse, una delle più importanti, interessanti e promettenti. A patto, appunto, che ben la si comprenda.

E’ utile allora leggere “Per un’ecologia dell’intelligenza artificiale. Dialoghi tra un filosofo e un informatico” scritto a quattro mani da Vincenzo Ambriola (già professore di Informatica e direttore del Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa) e Adriano Fabris (professore di Filosofia morale sempre all’Università di Pisa). Entrambi gli autori, partendo da formazioni ed esperienze diverse, hanno un punto in comune: l’attenzione etica alla tecnologia. Il libro è un dialogo tra i due che prende le mosse da una constatazione: L’avvento dell’intelligenza artificiale sta ridefinendo i confini dell’umano, intrecciando in modo inesorabile tecnologia e coscienza. I due cercano quindi di rispondere ad una serie di interrogativi importanti per tutti che tutto sommato possono essere riuniti in una sola grande domanda. Come cambierà, con l’intelligenza artificiale, il nostro modo di lavorare, relazionarci e concepire noi stessi? Ad essere interessata dal nostro rapporto con le tecnologie è infatti l’idea stessa di essere umano che l’intelligenza artificiale introduce.

I due studiosi, portando le loro diverse lenti con le quali osservano la realtà e la tecnologia, si confrontano su questa rivoluzione epocale. Ed è proprio qui l’interesse del libro (nemmeno 100 pagine da leggere con grande attenzione). Mentre l’informatico guida chi legge attraverso i meandri dell’algoritmo, svelando le potenzialità e i limiti di questa nuova intelligenza; il filosofo invita a riflettere sulle implicazioni morali di questa trasformazione. Una visione della realtà non esclude l’altra e, anzi, la arricchisce.

Il libro è costruito in tre passi (che sono altrettanti grandi capitoli). Nel primo si ragiona sull’etica dell’intelligenza artificiale “nei sistemi socio-tecnologici” approfondendo quindi di quale etica si parla, sulla base di quali codici si discute e sulla effettiva novità delle “nuove tecnologie”. Nel secondo capitolo, poi, si riflette sul linguaggio e sui “mondi creati dalle entità artificiali” cercando di capire funzione, utilità e responsabilità che questi mondi implicano. E’ in questa parte che viene anche posto un esempio di “conversazione con un’entità artificiale”. Il terzo passo riguarda “l’ecologia degli ambienti digitali” e concerne luoghi e spazi di questi ambienti cercando di arrivare a definire, appunto, un nuovo modo di fare ecologia.

Ogni capitolo è costruito sulla base di testi scritti a quattro mani e su altri scritti alternativamente dalle mani dell’informatico oppure del filosofo.

Nelle conclusioni, i due autori chiariscono quanto oggi sia importante l’etica non solo dell’uomo ma anche delle macchine e quanto i criteri di progettazione di queste ultime debbano “essere ispirati a principi quali trasparenza, spiegabilità, rispetto di regole predefinite e inviolabili. Devono essere chiariti i meccanismi di responsabilità che governano il funzionamento di questi sistemi, separando la fase di addestramento da quelle di esercizio”. Il libro – ed è un altro suo pregio – non fornisce tuttavia una risposta a tutti gli interrogativi ancora aperti e, anzi, si conclude sottolineando quanto sia complesso e arduo arrivare ad un equilibrio nell’uso delle nuove tecnologie.

Per un’ecologia dell’intelligenza artificiale. Dialoghi tra un filosofo e un informatico

Vincenzo Ambriola, Adriano Fabris

Castelvecchi, 2025

Sicilia California d’Europa? Oltre il sogno, servono investimenti, buon governo e cultura

Sicilia come “California d’Europa”. E Palermo come polo d’eccellenza internazionale per le biotecnologie e la ricerca biomedica, in grado di ”attrarre ricercatori, giovani e maturi, da tutto il resto del mondo”. Non è un sogno sicilianista né una boutade di propaganda su originali strategie di sviluppo del Sud, affascinanti da raccontare e storicamente, però, improduttive di risultati. Piuttosto, un progetto concreto, in corso di realizzazione. C’è infatti una Fondazione Rimed, che se ne occupa. E un piano di lavoro, finanziariamente sostenuto, che prevede che entro due anni a Carini, un paese a ovest di Palermo, vicino all’aeroporto di Punta Raisi intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sorga un Centro internazionale per la ricerca sulle biotecnologie. Palermo high tech, Sicilia terra di scienze e di lavoro di qualità.

Se ne scrive sulle autorevoli pagine de “Il Sole24Ore” (20 aprile), in una conversazione, firmata da Paolo Bricco, con Giulio Superti-Furga, direttore, da vent’anni, del CeMM di Vienna, il Centro di ricerca di medicina molecolare dell’Accademia delle Scienze e adesso coordinatore delle attività della Fondazione siciliana: “Oggi nel polo viennese ci sono trecento ricercatori e sei imprese biotech. Perché non possiamo fare lo stesso in Sicilia? E’ una terra complessa ma meravigliosa, con una gran voglia di rinascita e di riscatto, in grado di ospitare una struttura scientifica di standard internazionale e di attrarre scienziati e ricercatori da tutto il mondo”.

La Fondazione Rimed ha cinque soci fondatori, la presidenza del Consiglio dei ministri, il Cnr, la Regione Sicilia, l’università americana di Pittsburgh e il Pittsburgh Medical Center, le due strutture sanitarie che da oltre 25 anni hanno costituito, proprio a Palermo, l’Ismett, un efficiente centro trapianti di rilievo mondiale. E accanto al Centro di di ricerca biomedica, sorgerà un Ismett2. 250 milioni d’investimento iniziale per il Centro, altri 348 per l’ospedale. Sostiene Superti-Furga: “Saremo un polo biomedico unico in Europa, con un’idea culturale precisa: la medicina di precisione, basata sui meccanismi patologici molecolari e la salute come effetto combinato dei geni e dell’ambiente, la prevenzione quale viatico privilegiato all’efficacia delle medicine, un’impostazione quasi filosofica e antropologica della ricerca biomedica”.

Lavori in corso. Speranze da coltivare e da non deludere.

L’intuizione è corretta. E può fare da paradigma per riflessioni e iniziative più ampie, sulla crescita civile, economica e sociale della Sicilia e del Mezzogiorno. Superando limiti e condizioni di crisi.

La salute, in Sicilia, infatti, non rappresenta una delle pagine più luminose ed esemplari dell’esperienza regionale. “Il miglior medico, qui, è l’aereo” è il luogo comune diffuso, confermato anche dal fatto che la Regione spende, ogni anno, circa 140 milioni (metà dei quali per interventi “ad alta complessità”) per rimborsare alle amministrazioni sanitarie regionali più virtuose ed efficienti (l’Emilia, la Lombardia e il Veneto, innanzitutto) le cure prestate a cittadini siciliani. E se è vero che anche in Sicilia ci sono strutture sanitarie pubbliche e private di grande qualità, è altrettanto vero che la spesa pubblica è tra le più alte d’Italia, ma il livello delle cure tutt’altro che all’altezza sia della spesa che degli standard nazionali.

Eppure, proprio elevate prestazioni sui temi della salute e, più in generale, della qualità della vita sono fattori essenziali di attrattività, sia per le famiglie che per i giovani “talenti” in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E per provare a ridurre l’allarmante “fuga dei cervelli” (quei 191mila giovani dai 18 ai 34 anni, che nel ‘24 sono andati via dall’Italia, il 20,5% in più dell’anno precedente) che impoverisce il paese e ne compromette il futuro.

Nel contesto di una nuova centralità del Mediterraneo, per motivi legati ai profondi rivolgimenti geopolitici in corso, il nostro Mezzogiorno, infatti, può ritrovare un significativo ruolo, come hub di ricerca scientifica, formazione, industria e servizi high tech, in raccordo con le università (ne fanno fede gli investimenti  di Apple e Microsoft a Napoli, di Pirelli in Puglia e di Bip, Business Integration Partners, a Palermo). Per non parlare delle opportunità rivolte a un turismo di lunga stanzialità della silver generation, gli anziani europei, innanzitutto.

Ecco l’obiettivo: una Sicilia e un Sud in grado di offrire nuove opportunità di lavoro e di studio ai giovani che tornino o anche arrivino da tutto l’ampio bacino dell’Europa e del Mediterraneo, ma anche da altri paesi che apprezzano il Made in Italy e le sue dimensioni economiche e culturali, oltre che un originale e piacevole stile di vita.

L’ambiente gioca a nostro favore. La cultura mediterranea e meridionale, aperta, dialettica, inclusiva, rafforza l’attrattività di cui stiamo parlando. Senza naturalmente dimenticare che la Sicilia ha una storia e un’attualità di cultura di alto livello nelle arti figurative, in letteratura, nel cinema, nel teatro e nella fotografia, ma anche una solida cultura scientifica (il circolo matematico di Palermo e le scuole di biologia molecolare e marina, di fisica e di medicina ne offrono testimonianze storiche esemplari).

Una Sicilia accogliente e dinamica, insomma. In cerca di relazioni con altre aree economiche e culturali di respiro europeo (ne è conferma il Forum Milano-Palermo, promosso dai due sindaci Beppe Sala e Roberto Lagalla nei mesi scorsi e pronto ad approfondire le collaborazioni tra imprese, università, organizzazioni culturali).

Cosa serve, dunque, per rafforzare l’attrattività siciliana? Salute e qualità della vita, come abbiamo detto. Un’attenzione puntuale ed efficace per la tutela e la valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio. Una serie di strutture culturali di livello (teatri, musica, musei, biblioteche) e di offerte per il tempo libero (a cominciare dagli impianti per fare sport). Un sistema formativo di qualità e di respiro internazionale, dalle primarie all’università, per i figli delle famiglie che sceglieranno di venire a lavorare in Sicilia. E infrastrutture efficienti per la mobilità, a cominciare da un sistema aeroportuale ricco di servizi e collegamenti con il resto dell’Europa e del mondo, potenziando di molto le offerte degli scali di Palermo e Catania, pensando non solo al turismo, ma alle attività professionali, imprenditoriali, di lavoro.

Serve, in altri termini, una lungimirante idea di sviluppo sostenibile. E una svolta di buon governo. La Sicilia, nonostante una storia di ombre e di intrecci tra cattiva amministrazione e criminalità organizzata, se ne è dimostrata capace. Il governo delle “carte in regola” di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, alla fine degli anni Settanta. Il governo attento ad attrarre investimenti nazionali e internazionali guidato da Rino Nicolosi, nella seconda metà degli anni Ottanta. E altre esperienze sia in Regione che in alcune città e comuni.

Esperienze da studiare. E considerare come buoni esempi, aggiornandoli ai contesti contemporanei. Perché ha ragione Superti-Furga quando parla di “voglia di riscatto, di rinascita”. E hanno ragione anche tutti coloro che, in ambienti culturali ed economici, non si arrendono all’idea della “irredimibilità” della Sicilia temuta da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e alla “terribile insularità dell’anima” rilevata con preoccupazione da Leonardo Sciascia  (due esempi positivi recenti tra tanti: “Marea” a Catania, un’iniziativa promossa da Antonio Perdichizzi, imprenditore, per stimolare collegamenti e scambi tra siciliani andati via e siciliani rimasti; e “Sud Innovation” di Roberto Ruggeri a Messina, per proporre relazioni sulle nuove tecnologie utili allo sviluppo del territorio).

C’è, insomma, una speranza ricorrente, una volontà di non rassegnarsi a uno stereotipo della Sicilia e di un Mezzogiorno ridotti alla marginalità.

“L’alba della Sicilia” era il titolo di una raccolta di saggi di un gruppo di economisti, giuristi e politologi pubblicata nel 1996, quasi trent’anni fa, da Sellerio (e curata da chi scrive). Un’ipotesi di buon augurio, pur prendendo atto che “nel dialetto siciliano la forma del futuro non c’è, come se esistesse un’incapacità storica o una paura a dare espressione al tempo che verrà, a nominare l’evoluzione, a riconoscere dignità di linguaggio al domani”.

Oggi, nonostante tutto, anche grazie agli investimenti in scienza, cultura e buona economia, si può pur pensare che il viaggio al termine della notte consenta di far intravvedere presto un nuovo chiarore.

(Foto Getty Images)

Sicilia come “California d’Europa”. E Palermo come polo d’eccellenza internazionale per le biotecnologie e la ricerca biomedica, in grado di ”attrarre ricercatori, giovani e maturi, da tutto il resto del mondo”. Non è un sogno sicilianista né una boutade di propaganda su originali strategie di sviluppo del Sud, affascinanti da raccontare e storicamente, però, improduttive di risultati. Piuttosto, un progetto concreto, in corso di realizzazione. C’è infatti una Fondazione Rimed, che se ne occupa. E un piano di lavoro, finanziariamente sostenuto, che prevede che entro due anni a Carini, un paese a ovest di Palermo, vicino all’aeroporto di Punta Raisi intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sorga un Centro internazionale per la ricerca sulle biotecnologie. Palermo high tech, Sicilia terra di scienze e di lavoro di qualità.

Se ne scrive sulle autorevoli pagine de “Il Sole24Ore” (20 aprile), in una conversazione, firmata da Paolo Bricco, con Giulio Superti-Furga, direttore, da vent’anni, del CeMM di Vienna, il Centro di ricerca di medicina molecolare dell’Accademia delle Scienze e adesso coordinatore delle attività della Fondazione siciliana: “Oggi nel polo viennese ci sono trecento ricercatori e sei imprese biotech. Perché non possiamo fare lo stesso in Sicilia? E’ una terra complessa ma meravigliosa, con una gran voglia di rinascita e di riscatto, in grado di ospitare una struttura scientifica di standard internazionale e di attrarre scienziati e ricercatori da tutto il mondo”.

La Fondazione Rimed ha cinque soci fondatori, la presidenza del Consiglio dei ministri, il Cnr, la Regione Sicilia, l’università americana di Pittsburgh e il Pittsburgh Medical Center, le due strutture sanitarie che da oltre 25 anni hanno costituito, proprio a Palermo, l’Ismett, un efficiente centro trapianti di rilievo mondiale. E accanto al Centro di di ricerca biomedica, sorgerà un Ismett2. 250 milioni d’investimento iniziale per il Centro, altri 348 per l’ospedale. Sostiene Superti-Furga: “Saremo un polo biomedico unico in Europa, con un’idea culturale precisa: la medicina di precisione, basata sui meccanismi patologici molecolari e la salute come effetto combinato dei geni e dell’ambiente, la prevenzione quale viatico privilegiato all’efficacia delle medicine, un’impostazione quasi filosofica e antropologica della ricerca biomedica”.

Lavori in corso. Speranze da coltivare e da non deludere.

L’intuizione è corretta. E può fare da paradigma per riflessioni e iniziative più ampie, sulla crescita civile, economica e sociale della Sicilia e del Mezzogiorno. Superando limiti e condizioni di crisi.

La salute, in Sicilia, infatti, non rappresenta una delle pagine più luminose ed esemplari dell’esperienza regionale. “Il miglior medico, qui, è l’aereo” è il luogo comune diffuso, confermato anche dal fatto che la Regione spende, ogni anno, circa 140 milioni (metà dei quali per interventi “ad alta complessità”) per rimborsare alle amministrazioni sanitarie regionali più virtuose ed efficienti (l’Emilia, la Lombardia e il Veneto, innanzitutto) le cure prestate a cittadini siciliani. E se è vero che anche in Sicilia ci sono strutture sanitarie pubbliche e private di grande qualità, è altrettanto vero che la spesa pubblica è tra le più alte d’Italia, ma il livello delle cure tutt’altro che all’altezza sia della spesa che degli standard nazionali.

Eppure, proprio elevate prestazioni sui temi della salute e, più in generale, della qualità della vita sono fattori essenziali di attrattività, sia per le famiglie che per i giovani “talenti” in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E per provare a ridurre l’allarmante “fuga dei cervelli” (quei 191mila giovani dai 18 ai 34 anni, che nel ‘24 sono andati via dall’Italia, il 20,5% in più dell’anno precedente) che impoverisce il paese e ne compromette il futuro.

Nel contesto di una nuova centralità del Mediterraneo, per motivi legati ai profondi rivolgimenti geopolitici in corso, il nostro Mezzogiorno, infatti, può ritrovare un significativo ruolo, come hub di ricerca scientifica, formazione, industria e servizi high tech, in raccordo con le università (ne fanno fede gli investimenti  di Apple e Microsoft a Napoli, di Pirelli in Puglia e di Bip, Business Integration Partners, a Palermo). Per non parlare delle opportunità rivolte a un turismo di lunga stanzialità della silver generation, gli anziani europei, innanzitutto.

Ecco l’obiettivo: una Sicilia e un Sud in grado di offrire nuove opportunità di lavoro e di studio ai giovani che tornino o anche arrivino da tutto l’ampio bacino dell’Europa e del Mediterraneo, ma anche da altri paesi che apprezzano il Made in Italy e le sue dimensioni economiche e culturali, oltre che un originale e piacevole stile di vita.

L’ambiente gioca a nostro favore. La cultura mediterranea e meridionale, aperta, dialettica, inclusiva, rafforza l’attrattività di cui stiamo parlando. Senza naturalmente dimenticare che la Sicilia ha una storia e un’attualità di cultura di alto livello nelle arti figurative, in letteratura, nel cinema, nel teatro e nella fotografia, ma anche una solida cultura scientifica (il circolo matematico di Palermo e le scuole di biologia molecolare e marina, di fisica e di medicina ne offrono testimonianze storiche esemplari).

Una Sicilia accogliente e dinamica, insomma. In cerca di relazioni con altre aree economiche e culturali di respiro europeo (ne è conferma il Forum Milano-Palermo, promosso dai due sindaci Beppe Sala e Roberto Lagalla nei mesi scorsi e pronto ad approfondire le collaborazioni tra imprese, università, organizzazioni culturali).

Cosa serve, dunque, per rafforzare l’attrattività siciliana? Salute e qualità della vita, come abbiamo detto. Un’attenzione puntuale ed efficace per la tutela e la valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio. Una serie di strutture culturali di livello (teatri, musica, musei, biblioteche) e di offerte per il tempo libero (a cominciare dagli impianti per fare sport). Un sistema formativo di qualità e di respiro internazionale, dalle primarie all’università, per i figli delle famiglie che sceglieranno di venire a lavorare in Sicilia. E infrastrutture efficienti per la mobilità, a cominciare da un sistema aeroportuale ricco di servizi e collegamenti con il resto dell’Europa e del mondo, potenziando di molto le offerte degli scali di Palermo e Catania, pensando non solo al turismo, ma alle attività professionali, imprenditoriali, di lavoro.

Serve, in altri termini, una lungimirante idea di sviluppo sostenibile. E una svolta di buon governo. La Sicilia, nonostante una storia di ombre e di intrecci tra cattiva amministrazione e criminalità organizzata, se ne è dimostrata capace. Il governo delle “carte in regola” di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, alla fine degli anni Settanta. Il governo attento ad attrarre investimenti nazionali e internazionali guidato da Rino Nicolosi, nella seconda metà degli anni Ottanta. E altre esperienze sia in Regione che in alcune città e comuni.

Esperienze da studiare. E considerare come buoni esempi, aggiornandoli ai contesti contemporanei. Perché ha ragione Superti-Furga quando parla di “voglia di riscatto, di rinascita”. E hanno ragione anche tutti coloro che, in ambienti culturali ed economici, non si arrendono all’idea della “irredimibilità” della Sicilia temuta da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e alla “terribile insularità dell’anima” rilevata con preoccupazione da Leonardo Sciascia  (due esempi positivi recenti tra tanti: “Marea” a Catania, un’iniziativa promossa da Antonio Perdichizzi, imprenditore, per stimolare collegamenti e scambi tra siciliani andati via e siciliani rimasti; e “Sud Innovation” di Roberto Ruggeri a Messina, per proporre relazioni sulle nuove tecnologie utili allo sviluppo del territorio).

C’è, insomma, una speranza ricorrente, una volontà di non rassegnarsi a uno stereotipo della Sicilia e di un Mezzogiorno ridotti alla marginalità.

“L’alba della Sicilia” era il titolo di una raccolta di saggi di un gruppo di economisti, giuristi e politologi pubblicata nel 1996, quasi trent’anni fa, da Sellerio (e curata da chi scrive). Un’ipotesi di buon augurio, pur prendendo atto che “nel dialetto siciliano la forma del futuro non c’è, come se esistesse un’incapacità storica o una paura a dare espressione al tempo che verrà, a nominare l’evoluzione, a riconoscere dignità di linguaggio al domani”.

Oggi, nonostante tutto, anche grazie agli investimenti in scienza, cultura e buona economia, si può pur pensare che il viaggio al termine della notte consenta di far intravvedere presto un nuovo chiarore.

(Foto Getty Images)

La Pirelli in Turchia nelle pagine della rivista della Turk Pirelli

Il 26 aprile 1960 il Gruppo Pirelli si accresce di una nuova affiliata. È la “Turk Pirelli Lastikleri SA”, con sede a Istanbul, che due anni dopo inaugura nella località di Izmit uno stabilimento per la produzione di pneumatici radiali tessili per autovettura, autocarro e macchine agricole. Pirelli è così la prima impresa a produrre pneumatici in Turchia. Una scelta dettata dal successo commerciale dei suoi prodotti, importati nel paese fin dal 1948, e dal mercato in forte espansione in quel momento grazie allo sviluppo della motorizzazione di massa. Ma anche una scelta coraggiosa, come ricorderà Leopoldo Pirelli 25 anni dopo, visto il momento politico incerto (era appena avvenuto il primo colpo di Stato nella storia della Repubblica turca) e “la generale sfiducia nel futuro economico e sociale del paese”.

Nel 1985 il bilancio è più che positivo, con una produzione di 1,2 milioni di pneumatici all’anno e 1.000 dipendenti, un nuovo reparto per i radiali metallici e una posizione d’avanguardia sul mercato, sia nelle forniture di primo equipaggiamento, dove il brand Pirelli è omologato su tutti i modelli di vetture prodotte nel Paese, sia sul mercato dei ricambi, grazie a una rete capillare di oltre 500 rivenditori su tutto il territorio nazionale. Negli anni Sessanta la sede turca si dota di una pubblicazione interna: nel 1965 nasce infatti “Pirelli”, organo della società Turk Pirelli, come recita il sottotitolo, da oggi interamente sfogliabile in digitale nella sezione del nostro sito dedicata all’Archivio Storico. È uno degli ultimi house organ del Gruppo in ordine di tempo, che segue quelli delle società Pirelli in Argentina, Brasile, Spagna, Inghilterra, e naturalmente il capostipite italiano: “Fatti e Notizie”. Rispetto alle altre riviste rivolte ai dipendenti, quella turca presenta, sin dal nome, alcune peculiarità, che la rendono un caso “ibrido” a metà strada tra l’house organ interno e un rotocalco come l’italiana “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”. Alle notizie relative all’azienda, alla presentazione dei rivenditori, agli eventi aziendali e agli articoli di carattere tecnico sui pneumatici, il loro montaggio e la manutenzione, si affiancano infatti fin da subito numerosi articoli sul cinema, il teatro, l’arte (scritti dalla pittrice e giornalista Elif Naci), la musica, lo sport (a cura di Kâmran Tekil). Molto presenti gli approfondimenti sulla storia e le tradizioni della Turchia (a cura di M. Turhan Tan) e reportage dai luoghi – come gli articoli a puntate della serie “La leggenda del Bosforo” usciti tra 1967 e 1968 o quelli sulla figura di Ataturk – richiamati dalle immagini di copertina. Le attrici sulle copertine dei primi numeri – Hülya Koçyiğit, Gina Lollobrigida, Silva Koscina, İnci Çayırlı – lasciano il posto molto presto a fotografie di paesaggi e siti storico-artistici turchi.

In ultima pagina le vignette di Kemal Akkavuk, inframezzate da quelle in ricordo del disegnatore turco Cemal Nadir, nel 1967, e poi la pagina “Ridiamo un po’”, a cura di Engin Nur. Sempre presente il sommario del numero in lingua francese e, fino al 1968, anche la versione in francese di alcuni articoli, soprattutto quelli relativi all’arte e alla storia, ma anche quello sul congresso dei 500 rivenditori a Yalova nel 1966. Dal 1969 compaiono invece gli “abstract” di alcuni articoli, sempre in lingua francese.

La rivista, a cadenza mensile e realizzata sotto la direzione di Emil Elâgöz (poi Nami A. Elâgöz), Mustafa Özalay e Uğur Canal, cessa la pubblicazione nel 1979, dopo 183 numeri. Continua invece la presenza di Pirelli in Turchia, così come proseguono le sue attività di comunicazione, oggi in ambito digitale. La società turca del Gruppo Pirelli taglia oggi il traguardo dei 65 anni, e lo stabilimento produttivo di Izmit, ribattezzato “la fabbrica dei campioni”, per la sua specializzazione, dal 2007, nella produzione di coperture per motorsport, fornisce tutti i campionati auto in cui la Pirelli è impegnata, incluso quello di Formula 1.

Il 26 aprile 1960 il Gruppo Pirelli si accresce di una nuova affiliata. È la “Turk Pirelli Lastikleri SA”, con sede a Istanbul, che due anni dopo inaugura nella località di Izmit uno stabilimento per la produzione di pneumatici radiali tessili per autovettura, autocarro e macchine agricole. Pirelli è così la prima impresa a produrre pneumatici in Turchia. Una scelta dettata dal successo commerciale dei suoi prodotti, importati nel paese fin dal 1948, e dal mercato in forte espansione in quel momento grazie allo sviluppo della motorizzazione di massa. Ma anche una scelta coraggiosa, come ricorderà Leopoldo Pirelli 25 anni dopo, visto il momento politico incerto (era appena avvenuto il primo colpo di Stato nella storia della Repubblica turca) e “la generale sfiducia nel futuro economico e sociale del paese”.

Nel 1985 il bilancio è più che positivo, con una produzione di 1,2 milioni di pneumatici all’anno e 1.000 dipendenti, un nuovo reparto per i radiali metallici e una posizione d’avanguardia sul mercato, sia nelle forniture di primo equipaggiamento, dove il brand Pirelli è omologato su tutti i modelli di vetture prodotte nel Paese, sia sul mercato dei ricambi, grazie a una rete capillare di oltre 500 rivenditori su tutto il territorio nazionale. Negli anni Sessanta la sede turca si dota di una pubblicazione interna: nel 1965 nasce infatti “Pirelli”, organo della società Turk Pirelli, come recita il sottotitolo, da oggi interamente sfogliabile in digitale nella sezione del nostro sito dedicata all’Archivio Storico. È uno degli ultimi house organ del Gruppo in ordine di tempo, che segue quelli delle società Pirelli in Argentina, Brasile, Spagna, Inghilterra, e naturalmente il capostipite italiano: “Fatti e Notizie”. Rispetto alle altre riviste rivolte ai dipendenti, quella turca presenta, sin dal nome, alcune peculiarità, che la rendono un caso “ibrido” a metà strada tra l’house organ interno e un rotocalco come l’italiana “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”. Alle notizie relative all’azienda, alla presentazione dei rivenditori, agli eventi aziendali e agli articoli di carattere tecnico sui pneumatici, il loro montaggio e la manutenzione, si affiancano infatti fin da subito numerosi articoli sul cinema, il teatro, l’arte (scritti dalla pittrice e giornalista Elif Naci), la musica, lo sport (a cura di Kâmran Tekil). Molto presenti gli approfondimenti sulla storia e le tradizioni della Turchia (a cura di M. Turhan Tan) e reportage dai luoghi – come gli articoli a puntate della serie “La leggenda del Bosforo” usciti tra 1967 e 1968 o quelli sulla figura di Ataturk – richiamati dalle immagini di copertina. Le attrici sulle copertine dei primi numeri – Hülya Koçyiğit, Gina Lollobrigida, Silva Koscina, İnci Çayırlı – lasciano il posto molto presto a fotografie di paesaggi e siti storico-artistici turchi.

In ultima pagina le vignette di Kemal Akkavuk, inframezzate da quelle in ricordo del disegnatore turco Cemal Nadir, nel 1967, e poi la pagina “Ridiamo un po’”, a cura di Engin Nur. Sempre presente il sommario del numero in lingua francese e, fino al 1968, anche la versione in francese di alcuni articoli, soprattutto quelli relativi all’arte e alla storia, ma anche quello sul congresso dei 500 rivenditori a Yalova nel 1966. Dal 1969 compaiono invece gli “abstract” di alcuni articoli, sempre in lingua francese.

La rivista, a cadenza mensile e realizzata sotto la direzione di Emil Elâgöz (poi Nami A. Elâgöz), Mustafa Özalay e Uğur Canal, cessa la pubblicazione nel 1979, dopo 183 numeri. Continua invece la presenza di Pirelli in Turchia, così come proseguono le sue attività di comunicazione, oggi in ambito digitale. La società turca del Gruppo Pirelli taglia oggi il traguardo dei 65 anni, e lo stabilimento produttivo di Izmit, ribattezzato “la fabbrica dei campioni”, per la sua specializzazione, dal 2007, nella produzione di coperture per motorsport, fornisce tutti i campionati auto in cui la Pirelli è impegnata, incluso quello di Formula 1.

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Gender gap e buona cultura d’impresa

Una ricerca diventata tesi di laurea mette a fuoco la situazione delle disparità di genere nelle imprese

La buona cultura d’impresa passa anche per la cancellazione del gender gap. Assunto importante per tutti e, in apparenza, condiviso da tutti nell’ambito delle organizzazioni della produzione e così come dei sistemi sociali. Dalla teoria alla pratica, tuttavia, può esserci molta distanza. Anche oggi. Ancora una volta, la risoluzione dei problemi dell’impresa passa però dalla comprensione del tema da affrontare e quindi dalla individuazione degli strumenti adatti per affrontarlo.

A questo serve leggere “Gender gap: uno studio delle percezioni dei lavoratori e delle lavoratrici: età, genere e provenienza”, ricerca di Sara Ferrario diventata tesi discussa presso l’Università degli studi di Padova nell’ambito del Corso di laurea in Management dei Servizi educativi e Formazione continua.

Ferrario sottolinea come negli anni siano state codificate e attuate delle strategie e soluzioni per la riduzione del gender gap (come ad esempio politiche aziendali, leadership più inclusive, norme e nuovi obiettivi per riuscire a superare quei possibili ostacoli presenti sul cammino dell’occupazione femminile). La esatta messa a fuoco della percezione del problema rimane, tuttavia, fondamentale.

La ricerca si è quindi dedicata sui diversi aspetti del gender gap per comprenderne le cause più profonde, l’evoluzione, le contromisure prese dalle istituzioni per limitarne l’impatto sulla vita sociale e lavorativa. La misura della percezione nelle aziende del problema è stata quindi resa possibile dalla somministrazione di un questionario ad un campione rappresentativo di lavoratrici e lavoratori.

Scrive Sara Ferrario nelle conclusioni: “Il gender gap (…) non è un fenomeno plastico ma in divenire. Esso cambia nel tempo a seconda del periodo storico, dei movimenti attivisti e delle politiche adottate. Tuttavia (…) questo fenomeno è strettamente collegato alla visione familiare e quindi ad una educazione che deve essere predisposta ai cambiamenti e che si deve adattare ad un’evoluzione culturale”. E poi ancora come “l’uguaglianza di genere deve essere una realtà vissuta in cui vediamo il riflesso di un’idea che diventa desiderio di realtà da sperimentare. Perché serve poco immaginare, sperare e sostenere ciò che sarebbe giusto fare se le cose non diventano reali e tangibili”.

Gender gap: uno studio delle percezioni dei lavoratori e delle lavoratrici: età, genere e provenienza

Sara Ferrario

Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata Corso di laurea in Management dei Servizi educativi e Formazione continua, Anno accademico 2024-2025

Una ricerca diventata tesi di laurea mette a fuoco la situazione delle disparità di genere nelle imprese

La buona cultura d’impresa passa anche per la cancellazione del gender gap. Assunto importante per tutti e, in apparenza, condiviso da tutti nell’ambito delle organizzazioni della produzione e così come dei sistemi sociali. Dalla teoria alla pratica, tuttavia, può esserci molta distanza. Anche oggi. Ancora una volta, la risoluzione dei problemi dell’impresa passa però dalla comprensione del tema da affrontare e quindi dalla individuazione degli strumenti adatti per affrontarlo.

A questo serve leggere “Gender gap: uno studio delle percezioni dei lavoratori e delle lavoratrici: età, genere e provenienza”, ricerca di Sara Ferrario diventata tesi discussa presso l’Università degli studi di Padova nell’ambito del Corso di laurea in Management dei Servizi educativi e Formazione continua.

Ferrario sottolinea come negli anni siano state codificate e attuate delle strategie e soluzioni per la riduzione del gender gap (come ad esempio politiche aziendali, leadership più inclusive, norme e nuovi obiettivi per riuscire a superare quei possibili ostacoli presenti sul cammino dell’occupazione femminile). La esatta messa a fuoco della percezione del problema rimane, tuttavia, fondamentale.

La ricerca si è quindi dedicata sui diversi aspetti del gender gap per comprenderne le cause più profonde, l’evoluzione, le contromisure prese dalle istituzioni per limitarne l’impatto sulla vita sociale e lavorativa. La misura della percezione nelle aziende del problema è stata quindi resa possibile dalla somministrazione di un questionario ad un campione rappresentativo di lavoratrici e lavoratori.

Scrive Sara Ferrario nelle conclusioni: “Il gender gap (…) non è un fenomeno plastico ma in divenire. Esso cambia nel tempo a seconda del periodo storico, dei movimenti attivisti e delle politiche adottate. Tuttavia (…) questo fenomeno è strettamente collegato alla visione familiare e quindi ad una educazione che deve essere predisposta ai cambiamenti e che si deve adattare ad un’evoluzione culturale”. E poi ancora come “l’uguaglianza di genere deve essere una realtà vissuta in cui vediamo il riflesso di un’idea che diventa desiderio di realtà da sperimentare. Perché serve poco immaginare, sperare e sostenere ciò che sarebbe giusto fare se le cose non diventano reali e tangibili”.

Gender gap: uno studio delle percezioni dei lavoratori e delle lavoratrici: età, genere e provenienza

Sara Ferrario

Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata Corso di laurea in Management dei Servizi educativi e Formazione continua, Anno accademico 2024-2025

L’impresa che “restituisce”

Appena pubblicato un libro che racconta con efficacia la vita di Giovanni Cottino

Restituire e fare impresa. Porre attenzione agli altri e fare profitti. Essere severi eppure generosi. Produrre ricchezza in modo non egoistico. Atteggiamenti comuni a molti più imprenditori di quanto si sia portati a pensare. Eppure atteggiamenti che – quando vengono raccontati bene e quindi fatti conoscere – insegnano, sorprendono, emozionano. E spingono magari altri a fare lo stesso. Atteggiamenti da maestri. È forse per questo che l’ultima fatica letteraria di Francesco Antonioli ha come titolo “Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»”. Antonioli, per anni bravo giornalista economico al Sole 24 Ore e adesso attento osservatore delle ultime evoluzioni della cronaca economica e del territorio, ha voluto raccontare la vita di un imprenditore da una parte unico e dall’altro paradigmatico di una categoria di servitori della comunità che ha avuto ed ha molti esempi.

Giovanni Cottino è stato un ingegnere divenuto filantropo che ha dimostrato che profitto e impegno sociale possono coesistere. Definito da molti come illuminato imprenditore torinese, Cottino è posto come esempio per tutti coloro che intendono coniugare trasparenza, generosità ed etica del lavoro. Esempio anche severo – lo si capisce da alcuni passaggi contenuti nelle pagine di Antonioli – Cottino creò dal nulla una delle più grandi aziende del mondo di componentistica per elettrodomestici, un gruppo divenuto leader globale nella “industria del bianco” tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso nella Torino vocata all’automotive. Dopo una vita dedicata alla manifattura, Cottino ha poi orientato nipoti e pronipoti a quella che modernamente si chiama venture philantropy – e cioè appunto alla restituzione – chiedendo loro di gestire la Fondazione Giovanni e Annamaria Cottino. Obiettivo: “restituire” al territorio tutto ciò che di meglio aveva ricevuto nella sua vita.

Cottino è per questo un “maestro silenzioso”, una di quelle figure che hanno tenuto in piedi l’Italia e che ancora adesso può indicare una rotta convincente a decisori pubblici e privati per costruire il bene comune. E lo si capisce bene leggendo le belle pagine di Francesco Antonioli, pagine nelle quali al saggio si alternano le testimonianze, alla cronaca economica la storia di un’impresa.

Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»

Francesco Antonioli

GueriniNEXT, 2025

Appena pubblicato un libro che racconta con efficacia la vita di Giovanni Cottino

Restituire e fare impresa. Porre attenzione agli altri e fare profitti. Essere severi eppure generosi. Produrre ricchezza in modo non egoistico. Atteggiamenti comuni a molti più imprenditori di quanto si sia portati a pensare. Eppure atteggiamenti che – quando vengono raccontati bene e quindi fatti conoscere – insegnano, sorprendono, emozionano. E spingono magari altri a fare lo stesso. Atteggiamenti da maestri. È forse per questo che l’ultima fatica letteraria di Francesco Antonioli ha come titolo “Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»”. Antonioli, per anni bravo giornalista economico al Sole 24 Ore e adesso attento osservatore delle ultime evoluzioni della cronaca economica e del territorio, ha voluto raccontare la vita di un imprenditore da una parte unico e dall’altro paradigmatico di una categoria di servitori della comunità che ha avuto ed ha molti esempi.

Giovanni Cottino è stato un ingegnere divenuto filantropo che ha dimostrato che profitto e impegno sociale possono coesistere. Definito da molti come illuminato imprenditore torinese, Cottino è posto come esempio per tutti coloro che intendono coniugare trasparenza, generosità ed etica del lavoro. Esempio anche severo – lo si capisce da alcuni passaggi contenuti nelle pagine di Antonioli – Cottino creò dal nulla una delle più grandi aziende del mondo di componentistica per elettrodomestici, un gruppo divenuto leader globale nella “industria del bianco” tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso nella Torino vocata all’automotive. Dopo una vita dedicata alla manifattura, Cottino ha poi orientato nipoti e pronipoti a quella che modernamente si chiama venture philantropy – e cioè appunto alla restituzione – chiedendo loro di gestire la Fondazione Giovanni e Annamaria Cottino. Obiettivo: “restituire” al territorio tutto ciò che di meglio aveva ricevuto nella sua vita.

Cottino è per questo un “maestro silenzioso”, una di quelle figure che hanno tenuto in piedi l’Italia e che ancora adesso può indicare una rotta convincente a decisori pubblici e privati per costruire il bene comune. E lo si capisce bene leggendo le belle pagine di Francesco Antonioli, pagine nelle quali al saggio si alternano le testimonianze, alla cronaca economica la storia di un’impresa.

Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»

Francesco Antonioli

GueriniNEXT, 2025

Le ombre di Milano oltre le “week”. E la storia di Assolombarda tra dinamismo e valori sociali

Lo splendore di Milano si fa ancora più intenso in occasione di alcune ricorrenze, tra moda, arredamento, cultura e glamour internazionale. Le Fashion Week, per esempio, fra febbraio e marzo e poi tra settembre e ottobre. E soprattutto la Design Week, a metà aprile, con il Salone del Mobile più importante al mondo e i tanti eventi del Fuori Salone, durante i quali si confrontano tendenze, sperimentazioni e progetti su come provare ad abitare un po’ meglio i luoghi del vivere e del lavorare, nelle nostre città.

Atmosfera mondana di festa, tra l’allegria del ritrovarsi e la sorpresa dei nuovi incontri. Conversazioni ben accomodate e dunque accomodanti. Frenesia d’affari. Soldi e idee. Il tutto con quell’aria così tanto milanese e global chic che sa tenere insieme tradizione, innovazione, orgoglio industriale del miglior Made in Italy e saperi del mondo. Milano, appunto.

Non sono però mancate, quest’anno, le ombre.

Tra gli operatori del settore, infatti, sono state evidenti le preoccupazioni per le conseguenze del terremoto che la clamorosa politica dei dazi varata dalla Casa Bianca ha provocato negli scambi commerciali mondiali (l’arredamento ha dimensioni internazionali e Milano, coerentemente, ha sempre nutrito la buona cultura dei mercati aperti e competitivi). Ma, successi turistici e commerciali degli eventi a parte, si è fatto leva sui diversi aspetti della Design Week per approfondire, all’interno dell’opinione pubblica, le riflessioni critiche sull’attuale condizione di Milano e sugli effetti di lungo periodo che alcuni fenomeni, legati al costo della vita e della casa, hanno sull’anima della città, sulle sue capacità di inclusione e dunque sul suo futuro.

Le cronache recenti, infatti, rivelano contrastanti aspetti economici e sociali, sempre più profondi squilibri.

Eccola, dunque, Milano salita all’undicesimo posto delle città più ricche al mondo, per numero di miliardari e milionari, dopo New York e San Francisco, Tokyo e Singapore, Londra, Parigi e Hong Kong, con 115mila grandi ricchi: un numero cresciuto del 24% negli ultimi dieci anni. Una metropoli sempre più attrattiva, insomma, e resa ancora più affascinante per i milionari in fuga da Londra dopo la modifica delle leggi fiscali britanniche, adesso meno favorevoli. E già comunque arrivata da tempo all’attenzione degli ambienti più esigenti della moda e del commercio globale: Monte Napoleone ha valori immobiliari più alti di quelli della Fifth Avenue a New York.

I prezzi altissimi degli edifici di lusso hanno contagiato gran parte del tessuto immobiliare metropolitano. Con effetti perversi. “Poliziotti in fuga da Milano. Troppo alti i costi delle case”, ha denunciato il questore Bruno Megale (la Repubblica, 11 aprile). L’Atm non trova autisti per i tram e sta ristrutturando un ex deposito per farne alloggi a prezzi calmierati per i dipendenti. I giovani universitari (sono oltre 200mila, in città) vanno a vivere in “studentati” in periferia, a Mind (l’ex area dell’Expo) o nei paesi dell’area metropolitana, a Sesto San Giovanni e a Cologno Monzese. E anche le giovani coppie di ceto medio abbandonano l’area urbana verso i paesi dell’hinterland. Milano, insomma, accoglie chi ha molti soldi da spendere e espelle o allontana chi ha redditi non clamorosi. “Milano città di milionari che lascia le briciole agli altri”, commenta critico Giangiacomo Schiavi, uno dei giornalisti più attenti all’anima profonda della città, “ricca, sì, ma anche felice?” (Corriere della Sera, 12 aprile).

Lo splendore del business. E le tensioni sociali. Lo charme dei club esclusivi. E i disagi dei quartieri un tempo popolari e adesso in via di trasformazione. Milano dei contrasti. Delle fatiche. E delle vecchie e nuove povertà (la Caritas ambrosiana ne è termometro sensibile).

Sono temi tutt’altro che nuovi (ne abbiamo parlato spesso, in questo blog). Il dato positivo è che finalmente se ne discute, con toni critici ma anche autocritici.

“Milano sta assorbendo alcune problematiche internazionali delle metropoli, dal caro affitti alla sicurezza. E il primo problema che avverto è la crescente disparità tra chi può permettersi un certo tenore di vita e chi no. E troppi lavori malpagati rendono insostenibili gli affitti”, ha detto pochi giorni fa il sindaco Beppe Sala in una conversazione con la direttrice del Quotidiano Nazionale/ Il Giorno Agnese Pini (QN, 11 aprile). E sui quotidiani e nei circoli culturali (il Centro Studi Grande Milano, per fare solo un nome) oramai da alcuni anni si analizzano i fenomeni dei rapporti tra competitività e attrattività economica della metropoli e crisi della tradizione all’inclusione e alla solidarietà sociale. Con stimoli verso le pubbliche amministrazioni perché governino meglio le trasformazioni urbane e rispondano alle esigenze popolari di sviluppo e qualità della vita. Qualcosa si muove.

Per reggere la sfida del futuro, Milano deve insomma ripensarsi. Fare tesoro delle virtù del dinamismo economico e dare risposte ai problemi della qualità della vita e della sostenibilità ambientale e sociale. Continuare a essere la metropoli che ospita il 36,4% delle multinazionali presenti in Italia e genera il 13,4% del Pil italiano. Ma anche il luogo in cui valgono i valori del lavoro ben fatto, dell’etica degli affari, dell’accoglienza e in cui, anche in futuro, “milanesi si diventa”, per qualità personali e serietà professionale e sociale.

Temi e valori forti. Che ricorrono pure nel mondo industriale. E di cui si avverte con chiarezza l’eco nelle pagine di “Insieme – Assolombarda, la nostra storia”, il volume curato dalla Fondazione Assolombarda, appena edito da Marsilio e presentato ieri, al Piccolo Teatro di Milano (un luogo simbolico delle buone relazioni tra impresa e cultura: era stato fondato nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi anche con il contributo di grandi imprenditori milanesi: Pirelli, Falck, Borletti, De Angeli Frua, Marinotti, oltre che Edison e Sonia Viscosa, etc.).

Una storia di intraprendenza e di responsabilità sociale, di innovazione, produttività e capacità di farsi carico di valori e interessi generali, non solo di quelli delle imprese iscritte. Come documentano, oltre agli interventi degli ex presidenti dell’associazione (Bonomi, Rocca, Meomartini, Bracco, Perini, Benedini) e del presidente attuale Alessandro Spada, le analisi e i giudizi di personalità esterne, Piero Bassetti e Mario Monti, il cardinale Gianfranco Ravasi e la rettrice dell’Università Bicocca Giovanna Iannantuoni e ancora Amalia Ercoli Finzi, Carlo Ratti, Carlo Sangalli, Ferruccio de Bortoli e Salvatore Carrubba.

Milano molteplice. Dinamica. Convinta di “dover volare per fare volare l’Italia” (l’esemplare indicazione strategica della presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca).

Il libro, appunto, consente di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali e che indicazioni trarre da fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, ne “Le città invisibili”. E aggiungeva: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Uno speciale “capitale sociale”. Per fare da paradigma di respiro nazionale ed europeo su come si possa declinare in modo efficace la sintesi tra democrazia, mercato e welfare. E di come convivano, in pur faticosa sinergia, mano pubblica e imprese private, produzione e cultura critica, creazione di valore economico e spazio crescente per i valori civili e sociali.

La storia di Assolombarda mostra alcune costanti caratteristiche di fondo. Una concezione aperta delle relazioni economiche e industriali, con la consapevolezza d’essere all’interno dei circuiti della competizione internazionale. Un’attitudine al cambiamento che porta la città a essere estremamente pronta a recepire le spinte innovative, sia imprenditoriali che tecnologiche, culturali, organizzative. E una solida idea del mercato come spazio competitivo ben organizzato e dunque efficacemente regolato.

C’è, insomma, un solido orgoglio industriale. E un dinamismo fatto anche di scambi e relazioni, oltre che di specializzazione produttiva nei settori della meccanica, dell’elettrotecnica, della gomma, dell’acciaio, dell’energia e della chimica, che si affiancano a quelli tradizionali del tessile e dell’agroalimentare. Un particolare paradigma di sviluppo, nella “Milano grande” e metropolitana, con l’industria articolata in parecchi settori e senza una presenza dominante (diversamente da Torino, company town dell’auto, a forte impronta Fiat). E l’industria stessa, cardine della crescita, nel tessuto economico metropolitano, si confronta con altre culture d’impresa, la finanza e il commercio, i servizi e l’editoria giornalistica e libraria. E con le università. Una polifonia, appunto. Un intreccio di interessi e valori, poteri e idee attente alla scoperta di ciò che cambia.

La cultura milanese è dunque “politecnica”, sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Il senso della bellezza si accompagna all’intelligenza delle nuove tecnologie. La consapevolezza del ruolo della storia si confronta con una spiccata tendenza a fare i conti con le avanguardie. E in economia l’“umanesimo industriale” fa da punto di riferimento per la più solida competitività del made in Italy sui mercati globali. Una forza che resta, anche in tempi di crisi e imponenti cambiamenti.

L’installazione Library Of Light in occasione del Salone del Mobile di Milano, aprile 2025 (foto Getty Images)

Lo splendore di Milano si fa ancora più intenso in occasione di alcune ricorrenze, tra moda, arredamento, cultura e glamour internazionale. Le Fashion Week, per esempio, fra febbraio e marzo e poi tra settembre e ottobre. E soprattutto la Design Week, a metà aprile, con il Salone del Mobile più importante al mondo e i tanti eventi del Fuori Salone, durante i quali si confrontano tendenze, sperimentazioni e progetti su come provare ad abitare un po’ meglio i luoghi del vivere e del lavorare, nelle nostre città.

Atmosfera mondana di festa, tra l’allegria del ritrovarsi e la sorpresa dei nuovi incontri. Conversazioni ben accomodate e dunque accomodanti. Frenesia d’affari. Soldi e idee. Il tutto con quell’aria così tanto milanese e global chic che sa tenere insieme tradizione, innovazione, orgoglio industriale del miglior Made in Italy e saperi del mondo. Milano, appunto.

Non sono però mancate, quest’anno, le ombre.

Tra gli operatori del settore, infatti, sono state evidenti le preoccupazioni per le conseguenze del terremoto che la clamorosa politica dei dazi varata dalla Casa Bianca ha provocato negli scambi commerciali mondiali (l’arredamento ha dimensioni internazionali e Milano, coerentemente, ha sempre nutrito la buona cultura dei mercati aperti e competitivi). Ma, successi turistici e commerciali degli eventi a parte, si è fatto leva sui diversi aspetti della Design Week per approfondire, all’interno dell’opinione pubblica, le riflessioni critiche sull’attuale condizione di Milano e sugli effetti di lungo periodo che alcuni fenomeni, legati al costo della vita e della casa, hanno sull’anima della città, sulle sue capacità di inclusione e dunque sul suo futuro.

Le cronache recenti, infatti, rivelano contrastanti aspetti economici e sociali, sempre più profondi squilibri.

Eccola, dunque, Milano salita all’undicesimo posto delle città più ricche al mondo, per numero di miliardari e milionari, dopo New York e San Francisco, Tokyo e Singapore, Londra, Parigi e Hong Kong, con 115mila grandi ricchi: un numero cresciuto del 24% negli ultimi dieci anni. Una metropoli sempre più attrattiva, insomma, e resa ancora più affascinante per i milionari in fuga da Londra dopo la modifica delle leggi fiscali britanniche, adesso meno favorevoli. E già comunque arrivata da tempo all’attenzione degli ambienti più esigenti della moda e del commercio globale: Monte Napoleone ha valori immobiliari più alti di quelli della Fifth Avenue a New York.

I prezzi altissimi degli edifici di lusso hanno contagiato gran parte del tessuto immobiliare metropolitano. Con effetti perversi. “Poliziotti in fuga da Milano. Troppo alti i costi delle case”, ha denunciato il questore Bruno Megale (la Repubblica, 11 aprile). L’Atm non trova autisti per i tram e sta ristrutturando un ex deposito per farne alloggi a prezzi calmierati per i dipendenti. I giovani universitari (sono oltre 200mila, in città) vanno a vivere in “studentati” in periferia, a Mind (l’ex area dell’Expo) o nei paesi dell’area metropolitana, a Sesto San Giovanni e a Cologno Monzese. E anche le giovani coppie di ceto medio abbandonano l’area urbana verso i paesi dell’hinterland. Milano, insomma, accoglie chi ha molti soldi da spendere e espelle o allontana chi ha redditi non clamorosi. “Milano città di milionari che lascia le briciole agli altri”, commenta critico Giangiacomo Schiavi, uno dei giornalisti più attenti all’anima profonda della città, “ricca, sì, ma anche felice?” (Corriere della Sera, 12 aprile).

Lo splendore del business. E le tensioni sociali. Lo charme dei club esclusivi. E i disagi dei quartieri un tempo popolari e adesso in via di trasformazione. Milano dei contrasti. Delle fatiche. E delle vecchie e nuove povertà (la Caritas ambrosiana ne è termometro sensibile).

Sono temi tutt’altro che nuovi (ne abbiamo parlato spesso, in questo blog). Il dato positivo è che finalmente se ne discute, con toni critici ma anche autocritici.

“Milano sta assorbendo alcune problematiche internazionali delle metropoli, dal caro affitti alla sicurezza. E il primo problema che avverto è la crescente disparità tra chi può permettersi un certo tenore di vita e chi no. E troppi lavori malpagati rendono insostenibili gli affitti”, ha detto pochi giorni fa il sindaco Beppe Sala in una conversazione con la direttrice del Quotidiano Nazionale/ Il Giorno Agnese Pini (QN, 11 aprile). E sui quotidiani e nei circoli culturali (il Centro Studi Grande Milano, per fare solo un nome) oramai da alcuni anni si analizzano i fenomeni dei rapporti tra competitività e attrattività economica della metropoli e crisi della tradizione all’inclusione e alla solidarietà sociale. Con stimoli verso le pubbliche amministrazioni perché governino meglio le trasformazioni urbane e rispondano alle esigenze popolari di sviluppo e qualità della vita. Qualcosa si muove.

Per reggere la sfida del futuro, Milano deve insomma ripensarsi. Fare tesoro delle virtù del dinamismo economico e dare risposte ai problemi della qualità della vita e della sostenibilità ambientale e sociale. Continuare a essere la metropoli che ospita il 36,4% delle multinazionali presenti in Italia e genera il 13,4% del Pil italiano. Ma anche il luogo in cui valgono i valori del lavoro ben fatto, dell’etica degli affari, dell’accoglienza e in cui, anche in futuro, “milanesi si diventa”, per qualità personali e serietà professionale e sociale.

Temi e valori forti. Che ricorrono pure nel mondo industriale. E di cui si avverte con chiarezza l’eco nelle pagine di “Insieme – Assolombarda, la nostra storia”, il volume curato dalla Fondazione Assolombarda, appena edito da Marsilio e presentato ieri, al Piccolo Teatro di Milano (un luogo simbolico delle buone relazioni tra impresa e cultura: era stato fondato nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi anche con il contributo di grandi imprenditori milanesi: Pirelli, Falck, Borletti, De Angeli Frua, Marinotti, oltre che Edison e Sonia Viscosa, etc.).

Una storia di intraprendenza e di responsabilità sociale, di innovazione, produttività e capacità di farsi carico di valori e interessi generali, non solo di quelli delle imprese iscritte. Come documentano, oltre agli interventi degli ex presidenti dell’associazione (Bonomi, Rocca, Meomartini, Bracco, Perini, Benedini) e del presidente attuale Alessandro Spada, le analisi e i giudizi di personalità esterne, Piero Bassetti e Mario Monti, il cardinale Gianfranco Ravasi e la rettrice dell’Università Bicocca Giovanna Iannantuoni e ancora Amalia Ercoli Finzi, Carlo Ratti, Carlo Sangalli, Ferruccio de Bortoli e Salvatore Carrubba.

Milano molteplice. Dinamica. Convinta di “dover volare per fare volare l’Italia” (l’esemplare indicazione strategica della presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca).

Il libro, appunto, consente di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali e che indicazioni trarre da fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, ne “Le città invisibili”. E aggiungeva: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Uno speciale “capitale sociale”. Per fare da paradigma di respiro nazionale ed europeo su come si possa declinare in modo efficace la sintesi tra democrazia, mercato e welfare. E di come convivano, in pur faticosa sinergia, mano pubblica e imprese private, produzione e cultura critica, creazione di valore economico e spazio crescente per i valori civili e sociali.

La storia di Assolombarda mostra alcune costanti caratteristiche di fondo. Una concezione aperta delle relazioni economiche e industriali, con la consapevolezza d’essere all’interno dei circuiti della competizione internazionale. Un’attitudine al cambiamento che porta la città a essere estremamente pronta a recepire le spinte innovative, sia imprenditoriali che tecnologiche, culturali, organizzative. E una solida idea del mercato come spazio competitivo ben organizzato e dunque efficacemente regolato.

C’è, insomma, un solido orgoglio industriale. E un dinamismo fatto anche di scambi e relazioni, oltre che di specializzazione produttiva nei settori della meccanica, dell’elettrotecnica, della gomma, dell’acciaio, dell’energia e della chimica, che si affiancano a quelli tradizionali del tessile e dell’agroalimentare. Un particolare paradigma di sviluppo, nella “Milano grande” e metropolitana, con l’industria articolata in parecchi settori e senza una presenza dominante (diversamente da Torino, company town dell’auto, a forte impronta Fiat). E l’industria stessa, cardine della crescita, nel tessuto economico metropolitano, si confronta con altre culture d’impresa, la finanza e il commercio, i servizi e l’editoria giornalistica e libraria. E con le università. Una polifonia, appunto. Un intreccio di interessi e valori, poteri e idee attente alla scoperta di ciò che cambia.

La cultura milanese è dunque “politecnica”, sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Il senso della bellezza si accompagna all’intelligenza delle nuove tecnologie. La consapevolezza del ruolo della storia si confronta con una spiccata tendenza a fare i conti con le avanguardie. E in economia l’“umanesimo industriale” fa da punto di riferimento per la più solida competitività del made in Italy sui mercati globali. Una forza che resta, anche in tempi di crisi e imponenti cambiamenti.

L’installazione Library Of Light in occasione del Salone del Mobile di Milano, aprile 2025 (foto Getty Images)

Campiello Junior: annunciate le vincitrici della quarta edizione

La quarta edizione del Premio Campiello Junior si è conclusa il 10 aprile 2025 presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, dove sono state annunciate le due vincitrici.

La cerimonia di premiazione, trasmessa in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello, è stata presentata da Armando Traverso, giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico, insieme all’autore e regista Davide Stefanato.

All’evento sono stati presenti i ragazzi di numerose scuole provenienti da tutta Italia, che hanno avuto la possibilità di incontrare le autrici e di vivere l’emozione della scoperta in diretta delle vincitrici, che sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani lettori, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero.

Si aggiudicano la quarta edizione del Premio:

Ilaria Mattioni, La figlia del gigante, Feltrinelli, per la categoria 7-10 anni

Chiara Carminati, Nella tua pelle, Bompiani, per la categoria 11-14 anni

Sono intervenuti, inoltre, Ivan Tomasi, delegato all’Education di Confindustria Vicenza,, Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premo Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

Presenti anche alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, composta da: Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Inoltre, il Salone Internazionale del Libro di Torino, il Premio Campiello Junior e Fondazione Pirelli hanno avviato, a partire dall’edizione 2025 una collaborazione finalizzata alla promozione della narrativa di qualità per bambini e ragazzi.

Giovedì 15 maggio presso la Sala Azzurra del Salone , si terrà un incontro dedicato alle scuole con le vincitrici del Premio: condividi l’appuntamento con gli insegnanti di tua conoscenza! Per maggiori informazioni puoi scrivere a junior@premiocampiello.it.Le vincitrici verranno premiate sabato 13 settembre durante la Cerimonia di Premiazione della sessantatreesima edizione del Premio Campiello.

Per rivivere l’evento clicca qui.

La quarta edizione del Premio Campiello Junior si è conclusa il 10 aprile 2025 presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, dove sono state annunciate le due vincitrici.

La cerimonia di premiazione, trasmessa in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello, è stata presentata da Armando Traverso, giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico, insieme all’autore e regista Davide Stefanato.

All’evento sono stati presenti i ragazzi di numerose scuole provenienti da tutta Italia, che hanno avuto la possibilità di incontrare le autrici e di vivere l’emozione della scoperta in diretta delle vincitrici, che sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani lettori, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero.

Si aggiudicano la quarta edizione del Premio:

Ilaria Mattioni, La figlia del gigante, Feltrinelli, per la categoria 7-10 anni

Chiara Carminati, Nella tua pelle, Bompiani, per la categoria 11-14 anni

Sono intervenuti, inoltre, Ivan Tomasi, delegato all’Education di Confindustria Vicenza,, Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premo Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

Presenti anche alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, composta da: Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Inoltre, il Salone Internazionale del Libro di Torino, il Premio Campiello Junior e Fondazione Pirelli hanno avviato, a partire dall’edizione 2025 una collaborazione finalizzata alla promozione della narrativa di qualità per bambini e ragazzi.

Giovedì 15 maggio presso la Sala Azzurra del Salone , si terrà un incontro dedicato alle scuole con le vincitrici del Premio: condividi l’appuntamento con gli insegnanti di tua conoscenza! Per maggiori informazioni puoi scrivere a junior@premiocampiello.it.Le vincitrici verranno premiate sabato 13 settembre durante la Cerimonia di Premiazione della sessantatreesima edizione del Premio Campiello.

Per rivivere l’evento clicca qui.

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