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L’impresa che “restituisce”

Appena pubblicato un libro che racconta con efficacia la vita di Giovanni Cottino

Restituire e fare impresa. Porre attenzione agli altri e fare profitti. Essere severi eppure generosi. Produrre ricchezza in modo non egoistico. Atteggiamenti comuni a molti più imprenditori di quanto si sia portati a pensare. Eppure atteggiamenti che – quando vengono raccontati bene e quindi fatti conoscere – insegnano, sorprendono, emozionano. E spingono magari altri a fare lo stesso. Atteggiamenti da maestri. È forse per questo che l’ultima fatica letteraria di Francesco Antonioli ha come titolo “Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»”. Antonioli, per anni bravo giornalista economico al Sole 24 Ore e adesso attento osservatore delle ultime evoluzioni della cronaca economica e del territorio, ha voluto raccontare la vita di un imprenditore da una parte unico e dall’altro paradigmatico di una categoria di servitori della comunità che ha avuto ed ha molti esempi.

Giovanni Cottino è stato un ingegnere divenuto filantropo che ha dimostrato che profitto e impegno sociale possono coesistere. Definito da molti come illuminato imprenditore torinese, Cottino è posto come esempio per tutti coloro che intendono coniugare trasparenza, generosità ed etica del lavoro. Esempio anche severo – lo si capisce da alcuni passaggi contenuti nelle pagine di Antonioli – Cottino creò dal nulla una delle più grandi aziende del mondo di componentistica per elettrodomestici, un gruppo divenuto leader globale nella “industria del bianco” tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso nella Torino vocata all’automotive. Dopo una vita dedicata alla manifattura, Cottino ha poi orientato nipoti e pronipoti a quella che modernamente si chiama venture philantropy – e cioè appunto alla restituzione – chiedendo loro di gestire la Fondazione Giovanni e Annamaria Cottino. Obiettivo: “restituire” al territorio tutto ciò che di meglio aveva ricevuto nella sua vita.

Cottino è per questo un “maestro silenzioso”, una di quelle figure che hanno tenuto in piedi l’Italia e che ancora adesso può indicare una rotta convincente a decisori pubblici e privati per costruire il bene comune. E lo si capisce bene leggendo le belle pagine di Francesco Antonioli, pagine nelle quali al saggio si alternano le testimonianze, alla cronaca economica la storia di un’impresa.

Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»

Francesco Antonioli

GueriniNEXT, 2025

Appena pubblicato un libro che racconta con efficacia la vita di Giovanni Cottino

Restituire e fare impresa. Porre attenzione agli altri e fare profitti. Essere severi eppure generosi. Produrre ricchezza in modo non egoistico. Atteggiamenti comuni a molti più imprenditori di quanto si sia portati a pensare. Eppure atteggiamenti che – quando vengono raccontati bene e quindi fatti conoscere – insegnano, sorprendono, emozionano. E spingono magari altri a fare lo stesso. Atteggiamenti da maestri. È forse per questo che l’ultima fatica letteraria di Francesco Antonioli ha come titolo “Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»”. Antonioli, per anni bravo giornalista economico al Sole 24 Ore e adesso attento osservatore delle ultime evoluzioni della cronaca economica e del territorio, ha voluto raccontare la vita di un imprenditore da una parte unico e dall’altro paradigmatico di una categoria di servitori della comunità che ha avuto ed ha molti esempi.

Giovanni Cottino è stato un ingegnere divenuto filantropo che ha dimostrato che profitto e impegno sociale possono coesistere. Definito da molti come illuminato imprenditore torinese, Cottino è posto come esempio per tutti coloro che intendono coniugare trasparenza, generosità ed etica del lavoro. Esempio anche severo – lo si capisce da alcuni passaggi contenuti nelle pagine di Antonioli – Cottino creò dal nulla una delle più grandi aziende del mondo di componentistica per elettrodomestici, un gruppo divenuto leader globale nella “industria del bianco” tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso nella Torino vocata all’automotive. Dopo una vita dedicata alla manifattura, Cottino ha poi orientato nipoti e pronipoti a quella che modernamente si chiama venture philantropy – e cioè appunto alla restituzione – chiedendo loro di gestire la Fondazione Giovanni e Annamaria Cottino. Obiettivo: “restituire” al territorio tutto ciò che di meglio aveva ricevuto nella sua vita.

Cottino è per questo un “maestro silenzioso”, una di quelle figure che hanno tenuto in piedi l’Italia e che ancora adesso può indicare una rotta convincente a decisori pubblici e privati per costruire il bene comune. E lo si capisce bene leggendo le belle pagine di Francesco Antonioli, pagine nelle quali al saggio si alternano le testimonianze, alla cronaca economica la storia di un’impresa.

Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l’imprenditore che ha saputo «restituire»

Francesco Antonioli

GueriniNEXT, 2025

Le ombre di Milano oltre le “week”. E la storia di Assolombarda tra dinamismo e valori sociali

Lo splendore di Milano si fa ancora più intenso in occasione di alcune ricorrenze, tra moda, arredamento, cultura e glamour internazionale. Le Fashion Week, per esempio, fra febbraio e marzo e poi tra settembre e ottobre. E soprattutto la Design Week, a metà aprile, con il Salone del Mobile più importante al mondo e i tanti eventi del Fuori Salone, durante i quali si confrontano tendenze, sperimentazioni e progetti su come provare ad abitare un po’ meglio i luoghi del vivere e del lavorare, nelle nostre città.

Atmosfera mondana di festa, tra l’allegria del ritrovarsi e la sorpresa dei nuovi incontri. Conversazioni ben accomodate e dunque accomodanti. Frenesia d’affari. Soldi e idee. Il tutto con quell’aria così tanto milanese e global chic che sa tenere insieme tradizione, innovazione, orgoglio industriale del miglior Made in Italy e saperi del mondo. Milano, appunto.

Non sono però mancate, quest’anno, le ombre.

Tra gli operatori del settore, infatti, sono state evidenti le preoccupazioni per le conseguenze del terremoto che la clamorosa politica dei dazi varata dalla Casa Bianca ha provocato negli scambi commerciali mondiali (l’arredamento ha dimensioni internazionali e Milano, coerentemente, ha sempre nutrito la buona cultura dei mercati aperti e competitivi). Ma, successi turistici e commerciali degli eventi a parte, si è fatto leva sui diversi aspetti della Design Week per approfondire, all’interno dell’opinione pubblica, le riflessioni critiche sull’attuale condizione di Milano e sugli effetti di lungo periodo che alcuni fenomeni, legati al costo della vita e della casa, hanno sull’anima della città, sulle sue capacità di inclusione e dunque sul suo futuro.

Le cronache recenti, infatti, rivelano contrastanti aspetti economici e sociali, sempre più profondi squilibri.

Eccola, dunque, Milano salita all’undicesimo posto delle città più ricche al mondo, per numero di miliardari e milionari, dopo New York e San Francisco, Tokyo e Singapore, Londra, Parigi e Hong Kong, con 115mila grandi ricchi: un numero cresciuto del 24% negli ultimi dieci anni. Una metropoli sempre più attrattiva, insomma, e resa ancora più affascinante per i milionari in fuga da Londra dopo la modifica delle leggi fiscali britanniche, adesso meno favorevoli. E già comunque arrivata da tempo all’attenzione degli ambienti più esigenti della moda e del commercio globale: Monte Napoleone ha valori immobiliari più alti di quelli della Fifth Avenue a New York.

I prezzi altissimi degli edifici di lusso hanno contagiato gran parte del tessuto immobiliare metropolitano. Con effetti perversi. “Poliziotti in fuga da Milano. Troppo alti i costi delle case”, ha denunciato il questore Bruno Megale (la Repubblica, 11 aprile). L’Atm non trova autisti per i tram e sta ristrutturando un ex deposito per farne alloggi a prezzi calmierati per i dipendenti. I giovani universitari (sono oltre 200mila, in città) vanno a vivere in “studentati” in periferia, a Mind (l’ex area dell’Expo) o nei paesi dell’area metropolitana, a Sesto San Giovanni e a Cologno Monzese. E anche le giovani coppie di ceto medio abbandonano l’area urbana verso i paesi dell’hinterland. Milano, insomma, accoglie chi ha molti soldi da spendere e espelle o allontana chi ha redditi non clamorosi. “Milano città di milionari che lascia le briciole agli altri”, commenta critico Giangiacomo Schiavi, uno dei giornalisti più attenti all’anima profonda della città, “ricca, sì, ma anche felice?” (Corriere della Sera, 12 aprile).

Lo splendore del business. E le tensioni sociali. Lo charme dei club esclusivi. E i disagi dei quartieri un tempo popolari e adesso in via di trasformazione. Milano dei contrasti. Delle fatiche. E delle vecchie e nuove povertà (la Caritas ambrosiana ne è termometro sensibile).

Sono temi tutt’altro che nuovi (ne abbiamo parlato spesso, in questo blog). Il dato positivo è che finalmente se ne discute, con toni critici ma anche autocritici.

“Milano sta assorbendo alcune problematiche internazionali delle metropoli, dal caro affitti alla sicurezza. E il primo problema che avverto è la crescente disparità tra chi può permettersi un certo tenore di vita e chi no. E troppi lavori malpagati rendono insostenibili gli affitti”, ha detto pochi giorni fa il sindaco Beppe Sala in una conversazione con la direttrice del Quotidiano Nazionale/ Il Giorno Agnese Pini (QN, 11 aprile). E sui quotidiani e nei circoli culturali (il Centro Studi Grande Milano, per fare solo un nome) oramai da alcuni anni si analizzano i fenomeni dei rapporti tra competitività e attrattività economica della metropoli e crisi della tradizione all’inclusione e alla solidarietà sociale. Con stimoli verso le pubbliche amministrazioni perché governino meglio le trasformazioni urbane e rispondano alle esigenze popolari di sviluppo e qualità della vita. Qualcosa si muove.

Per reggere la sfida del futuro, Milano deve insomma ripensarsi. Fare tesoro delle virtù del dinamismo economico e dare risposte ai problemi della qualità della vita e della sostenibilità ambientale e sociale. Continuare a essere la metropoli che ospita il 36,4% delle multinazionali presenti in Italia e genera il 13,4% del Pil italiano. Ma anche il luogo in cui valgono i valori del lavoro ben fatto, dell’etica degli affari, dell’accoglienza e in cui, anche in futuro, “milanesi si diventa”, per qualità personali e serietà professionale e sociale.

Temi e valori forti. Che ricorrono pure nel mondo industriale. E di cui si avverte con chiarezza l’eco nelle pagine di “Insieme – Assolombarda, la nostra storia”, il volume curato dalla Fondazione Assolombarda, appena edito da Marsilio e presentato ieri, al Piccolo Teatro di Milano (un luogo simbolico delle buone relazioni tra impresa e cultura: era stato fondato nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi anche con il contributo di grandi imprenditori milanesi: Pirelli, Falck, Borletti, De Angeli Frua, Marinotti, oltre che Edison e Sonia Viscosa, etc.).

Una storia di intraprendenza e di responsabilità sociale, di innovazione, produttività e capacità di farsi carico di valori e interessi generali, non solo di quelli delle imprese iscritte. Come documentano, oltre agli interventi degli ex presidenti dell’associazione (Bonomi, Rocca, Meomartini, Bracco, Perini, Benedini) e del presidente attuale Alessandro Spada, le analisi e i giudizi di personalità esterne, Piero Bassetti e Mario Monti, il cardinale Gianfranco Ravasi e la rettrice dell’Università Bicocca Giovanna Iannantuoni e ancora Amalia Ercoli Finzi, Carlo Ratti, Carlo Sangalli, Ferruccio de Bortoli e Salvatore Carrubba.

Milano molteplice. Dinamica. Convinta di “dover volare per fare volare l’Italia” (l’esemplare indicazione strategica della presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca).

Il libro, appunto, consente di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali e che indicazioni trarre da fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, ne “Le città invisibili”. E aggiungeva: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Uno speciale “capitale sociale”. Per fare da paradigma di respiro nazionale ed europeo su come si possa declinare in modo efficace la sintesi tra democrazia, mercato e welfare. E di come convivano, in pur faticosa sinergia, mano pubblica e imprese private, produzione e cultura critica, creazione di valore economico e spazio crescente per i valori civili e sociali.

La storia di Assolombarda mostra alcune costanti caratteristiche di fondo. Una concezione aperta delle relazioni economiche e industriali, con la consapevolezza d’essere all’interno dei circuiti della competizione internazionale. Un’attitudine al cambiamento che porta la città a essere estremamente pronta a recepire le spinte innovative, sia imprenditoriali che tecnologiche, culturali, organizzative. E una solida idea del mercato come spazio competitivo ben organizzato e dunque efficacemente regolato.

C’è, insomma, un solido orgoglio industriale. E un dinamismo fatto anche di scambi e relazioni, oltre che di specializzazione produttiva nei settori della meccanica, dell’elettrotecnica, della gomma, dell’acciaio, dell’energia e della chimica, che si affiancano a quelli tradizionali del tessile e dell’agroalimentare. Un particolare paradigma di sviluppo, nella “Milano grande” e metropolitana, con l’industria articolata in parecchi settori e senza una presenza dominante (diversamente da Torino, company town dell’auto, a forte impronta Fiat). E l’industria stessa, cardine della crescita, nel tessuto economico metropolitano, si confronta con altre culture d’impresa, la finanza e il commercio, i servizi e l’editoria giornalistica e libraria. E con le università. Una polifonia, appunto. Un intreccio di interessi e valori, poteri e idee attente alla scoperta di ciò che cambia.

La cultura milanese è dunque “politecnica”, sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Il senso della bellezza si accompagna all’intelligenza delle nuove tecnologie. La consapevolezza del ruolo della storia si confronta con una spiccata tendenza a fare i conti con le avanguardie. E in economia l’“umanesimo industriale” fa da punto di riferimento per la più solida competitività del made in Italy sui mercati globali. Una forza che resta, anche in tempi di crisi e imponenti cambiamenti.

L’installazione Library Of Light in occasione del Salone del Mobile di Milano, aprile 2025 (foto Getty Images)

Lo splendore di Milano si fa ancora più intenso in occasione di alcune ricorrenze, tra moda, arredamento, cultura e glamour internazionale. Le Fashion Week, per esempio, fra febbraio e marzo e poi tra settembre e ottobre. E soprattutto la Design Week, a metà aprile, con il Salone del Mobile più importante al mondo e i tanti eventi del Fuori Salone, durante i quali si confrontano tendenze, sperimentazioni e progetti su come provare ad abitare un po’ meglio i luoghi del vivere e del lavorare, nelle nostre città.

Atmosfera mondana di festa, tra l’allegria del ritrovarsi e la sorpresa dei nuovi incontri. Conversazioni ben accomodate e dunque accomodanti. Frenesia d’affari. Soldi e idee. Il tutto con quell’aria così tanto milanese e global chic che sa tenere insieme tradizione, innovazione, orgoglio industriale del miglior Made in Italy e saperi del mondo. Milano, appunto.

Non sono però mancate, quest’anno, le ombre.

Tra gli operatori del settore, infatti, sono state evidenti le preoccupazioni per le conseguenze del terremoto che la clamorosa politica dei dazi varata dalla Casa Bianca ha provocato negli scambi commerciali mondiali (l’arredamento ha dimensioni internazionali e Milano, coerentemente, ha sempre nutrito la buona cultura dei mercati aperti e competitivi). Ma, successi turistici e commerciali degli eventi a parte, si è fatto leva sui diversi aspetti della Design Week per approfondire, all’interno dell’opinione pubblica, le riflessioni critiche sull’attuale condizione di Milano e sugli effetti di lungo periodo che alcuni fenomeni, legati al costo della vita e della casa, hanno sull’anima della città, sulle sue capacità di inclusione e dunque sul suo futuro.

Le cronache recenti, infatti, rivelano contrastanti aspetti economici e sociali, sempre più profondi squilibri.

Eccola, dunque, Milano salita all’undicesimo posto delle città più ricche al mondo, per numero di miliardari e milionari, dopo New York e San Francisco, Tokyo e Singapore, Londra, Parigi e Hong Kong, con 115mila grandi ricchi: un numero cresciuto del 24% negli ultimi dieci anni. Una metropoli sempre più attrattiva, insomma, e resa ancora più affascinante per i milionari in fuga da Londra dopo la modifica delle leggi fiscali britanniche, adesso meno favorevoli. E già comunque arrivata da tempo all’attenzione degli ambienti più esigenti della moda e del commercio globale: Monte Napoleone ha valori immobiliari più alti di quelli della Fifth Avenue a New York.

I prezzi altissimi degli edifici di lusso hanno contagiato gran parte del tessuto immobiliare metropolitano. Con effetti perversi. “Poliziotti in fuga da Milano. Troppo alti i costi delle case”, ha denunciato il questore Bruno Megale (la Repubblica, 11 aprile). L’Atm non trova autisti per i tram e sta ristrutturando un ex deposito per farne alloggi a prezzi calmierati per i dipendenti. I giovani universitari (sono oltre 200mila, in città) vanno a vivere in “studentati” in periferia, a Mind (l’ex area dell’Expo) o nei paesi dell’area metropolitana, a Sesto San Giovanni e a Cologno Monzese. E anche le giovani coppie di ceto medio abbandonano l’area urbana verso i paesi dell’hinterland. Milano, insomma, accoglie chi ha molti soldi da spendere e espelle o allontana chi ha redditi non clamorosi. “Milano città di milionari che lascia le briciole agli altri”, commenta critico Giangiacomo Schiavi, uno dei giornalisti più attenti all’anima profonda della città, “ricca, sì, ma anche felice?” (Corriere della Sera, 12 aprile).

Lo splendore del business. E le tensioni sociali. Lo charme dei club esclusivi. E i disagi dei quartieri un tempo popolari e adesso in via di trasformazione. Milano dei contrasti. Delle fatiche. E delle vecchie e nuove povertà (la Caritas ambrosiana ne è termometro sensibile).

Sono temi tutt’altro che nuovi (ne abbiamo parlato spesso, in questo blog). Il dato positivo è che finalmente se ne discute, con toni critici ma anche autocritici.

“Milano sta assorbendo alcune problematiche internazionali delle metropoli, dal caro affitti alla sicurezza. E il primo problema che avverto è la crescente disparità tra chi può permettersi un certo tenore di vita e chi no. E troppi lavori malpagati rendono insostenibili gli affitti”, ha detto pochi giorni fa il sindaco Beppe Sala in una conversazione con la direttrice del Quotidiano Nazionale/ Il Giorno Agnese Pini (QN, 11 aprile). E sui quotidiani e nei circoli culturali (il Centro Studi Grande Milano, per fare solo un nome) oramai da alcuni anni si analizzano i fenomeni dei rapporti tra competitività e attrattività economica della metropoli e crisi della tradizione all’inclusione e alla solidarietà sociale. Con stimoli verso le pubbliche amministrazioni perché governino meglio le trasformazioni urbane e rispondano alle esigenze popolari di sviluppo e qualità della vita. Qualcosa si muove.

Per reggere la sfida del futuro, Milano deve insomma ripensarsi. Fare tesoro delle virtù del dinamismo economico e dare risposte ai problemi della qualità della vita e della sostenibilità ambientale e sociale. Continuare a essere la metropoli che ospita il 36,4% delle multinazionali presenti in Italia e genera il 13,4% del Pil italiano. Ma anche il luogo in cui valgono i valori del lavoro ben fatto, dell’etica degli affari, dell’accoglienza e in cui, anche in futuro, “milanesi si diventa”, per qualità personali e serietà professionale e sociale.

Temi e valori forti. Che ricorrono pure nel mondo industriale. E di cui si avverte con chiarezza l’eco nelle pagine di “Insieme – Assolombarda, la nostra storia”, il volume curato dalla Fondazione Assolombarda, appena edito da Marsilio e presentato ieri, al Piccolo Teatro di Milano (un luogo simbolico delle buone relazioni tra impresa e cultura: era stato fondato nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi anche con il contributo di grandi imprenditori milanesi: Pirelli, Falck, Borletti, De Angeli Frua, Marinotti, oltre che Edison e Sonia Viscosa, etc.).

Una storia di intraprendenza e di responsabilità sociale, di innovazione, produttività e capacità di farsi carico di valori e interessi generali, non solo di quelli delle imprese iscritte. Come documentano, oltre agli interventi degli ex presidenti dell’associazione (Bonomi, Rocca, Meomartini, Bracco, Perini, Benedini) e del presidente attuale Alessandro Spada, le analisi e i giudizi di personalità esterne, Piero Bassetti e Mario Monti, il cardinale Gianfranco Ravasi e la rettrice dell’Università Bicocca Giovanna Iannantuoni e ancora Amalia Ercoli Finzi, Carlo Ratti, Carlo Sangalli, Ferruccio de Bortoli e Salvatore Carrubba.

Milano molteplice. Dinamica. Convinta di “dover volare per fare volare l’Italia” (l’esemplare indicazione strategica della presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca).

Il libro, appunto, consente di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali e che indicazioni trarre da fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, ne “Le città invisibili”. E aggiungeva: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori sociali, produttività e inclusione, competitività economica e solidarietà. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Uno speciale “capitale sociale”. Per fare da paradigma di respiro nazionale ed europeo su come si possa declinare in modo efficace la sintesi tra democrazia, mercato e welfare. E di come convivano, in pur faticosa sinergia, mano pubblica e imprese private, produzione e cultura critica, creazione di valore economico e spazio crescente per i valori civili e sociali.

La storia di Assolombarda mostra alcune costanti caratteristiche di fondo. Una concezione aperta delle relazioni economiche e industriali, con la consapevolezza d’essere all’interno dei circuiti della competizione internazionale. Un’attitudine al cambiamento che porta la città a essere estremamente pronta a recepire le spinte innovative, sia imprenditoriali che tecnologiche, culturali, organizzative. E una solida idea del mercato come spazio competitivo ben organizzato e dunque efficacemente regolato.

C’è, insomma, un solido orgoglio industriale. E un dinamismo fatto anche di scambi e relazioni, oltre che di specializzazione produttiva nei settori della meccanica, dell’elettrotecnica, della gomma, dell’acciaio, dell’energia e della chimica, che si affiancano a quelli tradizionali del tessile e dell’agroalimentare. Un particolare paradigma di sviluppo, nella “Milano grande” e metropolitana, con l’industria articolata in parecchi settori e senza una presenza dominante (diversamente da Torino, company town dell’auto, a forte impronta Fiat). E l’industria stessa, cardine della crescita, nel tessuto economico metropolitano, si confronta con altre culture d’impresa, la finanza e il commercio, i servizi e l’editoria giornalistica e libraria. E con le università. Una polifonia, appunto. Un intreccio di interessi e valori, poteri e idee attente alla scoperta di ciò che cambia.

La cultura milanese è dunque “politecnica”, sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Il senso della bellezza si accompagna all’intelligenza delle nuove tecnologie. La consapevolezza del ruolo della storia si confronta con una spiccata tendenza a fare i conti con le avanguardie. E in economia l’“umanesimo industriale” fa da punto di riferimento per la più solida competitività del made in Italy sui mercati globali. Una forza che resta, anche in tempi di crisi e imponenti cambiamenti.

L’installazione Library Of Light in occasione del Salone del Mobile di Milano, aprile 2025 (foto Getty Images)

Campiello Junior: annunciate le vincitrici della quarta edizione

La quarta edizione del Premio Campiello Junior si è conclusa il 10 aprile 2025 presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, dove sono state annunciate le due vincitrici.

La cerimonia di premiazione, trasmessa in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello, è stata presentata da Armando Traverso, giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico, insieme all’autore e regista Davide Stefanato.

All’evento sono stati presenti i ragazzi di numerose scuole provenienti da tutta Italia, che hanno avuto la possibilità di incontrare le autrici e di vivere l’emozione della scoperta in diretta delle vincitrici, che sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani lettori, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero.

Si aggiudicano la quarta edizione del Premio:

Ilaria Mattioni, La figlia del gigante, Feltrinelli, per la categoria 7-10 anni

Chiara Carminati, Nella tua pelle, Bompiani, per la categoria 11-14 anni

Sono intervenuti, inoltre, Ivan Tomasi, delegato all’Education di Confindustria Vicenza,, Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premo Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

Presenti anche alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, composta da: Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Inoltre, il Salone Internazionale del Libro di Torino, il Premio Campiello Junior e Fondazione Pirelli hanno avviato, a partire dall’edizione 2025 una collaborazione finalizzata alla promozione della narrativa di qualità per bambini e ragazzi.

Giovedì 15 maggio presso la Sala Azzurra del Salone , si terrà un incontro dedicato alle scuole con le vincitrici del Premio: condividi l’appuntamento con gli insegnanti di tua conoscenza! Per maggiori informazioni puoi scrivere a junior@premiocampiello.it.Le vincitrici verranno premiate sabato 13 settembre durante la Cerimonia di Premiazione della sessantatreesima edizione del Premio Campiello.

Per rivivere l’evento clicca qui.

La quarta edizione del Premio Campiello Junior si è conclusa il 10 aprile 2025 presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, dove sono state annunciate le due vincitrici.

La cerimonia di premiazione, trasmessa in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello, è stata presentata da Armando Traverso, giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico, insieme all’autore e regista Davide Stefanato.

All’evento sono stati presenti i ragazzi di numerose scuole provenienti da tutta Italia, che hanno avuto la possibilità di incontrare le autrici e di vivere l’emozione della scoperta in diretta delle vincitrici, che sono state scelte grazie ai voti della Giuria dei Giovani lettori, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero.

Si aggiudicano la quarta edizione del Premio:

Ilaria Mattioni, La figlia del gigante, Feltrinelli, per la categoria 7-10 anni

Chiara Carminati, Nella tua pelle, Bompiani, per la categoria 11-14 anni

Sono intervenuti, inoltre, Ivan Tomasi, delegato all’Education di Confindustria Vicenza,, Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premo Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

Presenti anche alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, composta da: Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Inoltre, il Salone Internazionale del Libro di Torino, il Premio Campiello Junior e Fondazione Pirelli hanno avviato, a partire dall’edizione 2025 una collaborazione finalizzata alla promozione della narrativa di qualità per bambini e ragazzi.

Giovedì 15 maggio presso la Sala Azzurra del Salone , si terrà un incontro dedicato alle scuole con le vincitrici del Premio: condividi l’appuntamento con gli insegnanti di tua conoscenza! Per maggiori informazioni puoi scrivere a junior@premiocampiello.it.Le vincitrici verranno premiate sabato 13 settembre durante la Cerimonia di Premiazione della sessantatreesima edizione del Premio Campiello.

Per rivivere l’evento clicca qui.

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Lavoro, prodotti e comunicazione negli archivi fotografici: Fondazione Pirelli per “Una Rete in Viaggio” 2025

Martedì 8 aprile 2025 Fondazione Pirelli ha ospitato il secondo appuntamento di “Una Rete in Viaggio. Storie, idee, progetti”, il programma di incontri a cura di Rete Fotografia che mette in connessione associati e istituzioni alla scoperta di punti d’incontro inediti.

Il confronto, sul focus “Prodotti e comunicazione”, moderato dal Presidente di Rete Fotografia Fabrizio Trisoglio, ha visto la partecipazione di Fondazione Pirelli, Fondazione Fiera Milano e Fondazione 3M, insieme al fotografo Leo Torri, ed è stato introdotto alle ore 17.30 da una visita alla Fondazione Pirelli e alla mostra “L’officina dello sport”.

L’evoluzione della pubblicità fotografica nella storia di Pirelli va di pari passo con la costruzione di uno stile riconoscibile in tutti gli ambiti della comunicazione d’impresa. L’intervento di Fondazione, dal titolo I prodotti nelle fotografie dell’Archivio Pirelli, dalla comunicazione neorealista all’«impresa» della pubblicità” ha ripercorso le diverse fasi di questo sviluppo tra gli anni Quaranta agli anni Settanta del Novecento, verso il consolidarsi di un approccio che rivendica sempre più il ruolo della pubblicità come prodotto artistico. Dalla pubblicità fotografica di stampo neorealista di Federico Patellani, tra fototesti e racconti per immagini del backstage dei mondi sportivi, all’approccio metacomunicativo delle fotografie della cartellonistica stradale; dagli still life e i reportage d’autore per i prodotti Pirelli di Aldo Ballo e Ugo Mulas alle immagini delle fiere, con stand interattivi e di design. Dalla nascita dell’Agenzia Centro, che porta il focus delle campagne pubblicitarie sul consumatore, al caso della “P lunga” fotografata da Adrian Hamilton, esempio di comunicazione transmediale.

Uno sguardo “dietro le quinte” come quello che, in questo incontro, abbiamo provato a dare sulle fotografie di prodotto del nostro Archivio Storico e sullo “stile Pirelli” nella comunicazione. Mettendo in evidenza come il rapporto tra i fotografi e il mondo dell’impresa sia un incontro di visioni fondamentale per veicolare al grande pubblico non solo le caratteristiche del prodotto, con le sue funzioni e applicazioni, ma anche la storia e i valori di un’azienda.

Martedì 8 aprile 2025 Fondazione Pirelli ha ospitato il secondo appuntamento di “Una Rete in Viaggio. Storie, idee, progetti”, il programma di incontri a cura di Rete Fotografia che mette in connessione associati e istituzioni alla scoperta di punti d’incontro inediti.

Il confronto, sul focus “Prodotti e comunicazione”, moderato dal Presidente di Rete Fotografia Fabrizio Trisoglio, ha visto la partecipazione di Fondazione Pirelli, Fondazione Fiera Milano e Fondazione 3M, insieme al fotografo Leo Torri, ed è stato introdotto alle ore 17.30 da una visita alla Fondazione Pirelli e alla mostra “L’officina dello sport”.

L’evoluzione della pubblicità fotografica nella storia di Pirelli va di pari passo con la costruzione di uno stile riconoscibile in tutti gli ambiti della comunicazione d’impresa. L’intervento di Fondazione, dal titolo I prodotti nelle fotografie dell’Archivio Pirelli, dalla comunicazione neorealista all’«impresa» della pubblicità” ha ripercorso le diverse fasi di questo sviluppo tra gli anni Quaranta agli anni Settanta del Novecento, verso il consolidarsi di un approccio che rivendica sempre più il ruolo della pubblicità come prodotto artistico. Dalla pubblicità fotografica di stampo neorealista di Federico Patellani, tra fototesti e racconti per immagini del backstage dei mondi sportivi, all’approccio metacomunicativo delle fotografie della cartellonistica stradale; dagli still life e i reportage d’autore per i prodotti Pirelli di Aldo Ballo e Ugo Mulas alle immagini delle fiere, con stand interattivi e di design. Dalla nascita dell’Agenzia Centro, che porta il focus delle campagne pubblicitarie sul consumatore, al caso della “P lunga” fotografata da Adrian Hamilton, esempio di comunicazione transmediale.

Uno sguardo “dietro le quinte” come quello che, in questo incontro, abbiamo provato a dare sulle fotografie di prodotto del nostro Archivio Storico e sullo “stile Pirelli” nella comunicazione. Mettendo in evidenza come il rapporto tra i fotografi e il mondo dell’impresa sia un incontro di visioni fondamentale per veicolare al grande pubblico non solo le caratteristiche del prodotto, con le sue funzioni e applicazioni, ma anche la storia e i valori di un’azienda.

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Destreggiarsi tra le bolle finanziarie

Appena dato alle stampe un libro che è una bussola per capire meglio l’economia finanziaria

Destreggiarsi tra economia reale ed economia finanziaria. E riuscire a governare le imprese con attenzione e consapevolezza. Ci sono sicuramente anche questi tra i compiti del manager e dell’imprenditore avveduto. Responsabilità che vanno al di là della produzione in senso stretto, ma alle quali comunque è necessario rispondere. E tutto procurandosi strumenti conoscitivi adeguati come “Eco delle Bolle. Conversazioni sulle frenesie finanziarie”, ultima fatica letteraria di Alessandro Greppi che ha inteso, come viene precisato nella prime pagine del libro, scrivere non un manuale ma costruire una sorta di bussola per riconoscere i segnali che spesso sfuggono, imparando dai successi e dagli errori di chi quei mercati li vive ogni giorno.
Greppi ragiona tenendo conto che – lo si voglia o no – ci si ritrova a vivere e a lavorare in un mondo dove la speculazione finanziaria influenza ogni aspetto dell’attività. “Eco delle Bolle” ha quindi l’obiettivo di guidare chi legge attraverso le dinamiche di mercato che hanno segnato la storia e continuano a ripetersi. Il libro offre una prospettiva per interpretare i mercati, comprendere le emozioni che li muovono e cogliere le opportunità che nascono dalle crisi. Perché, soprattutto nella finanza ma in generale nell’economia così come in ogni aspetto della vita umana, le emozioni contano come i fatti (e spesso di più).
La speculazione finanziaria, quindi, è l’oggetto del libro, un oggetto che spesso sembra incomprensibile e imprevedibile e che deve essere osservato e studiato con occhi particolari. Per farlo, chi legge viene prima condotto a conoscere i mercati finanziari partendo dalla loro teoria e dalla loro storia, per passare poi alle emozioni come elementi importanti di cui tenere conto. Si passa poi ad approfondire quanto avviene in Italia e nel mondo, ma anche ad argomenti specifici come quelli legati ai nuovi mercati finanziari così come ai periodi di caos negli stessi.
Ricorda Greppi nelle conclusioni: “I sistemi finanziari, generalmente percepiti come un regno freddo e razionale dominato dai numeri, sono in realtà una fotografia in tempo reale delle conseguenze delle nostre scelte, emozioni e fragilità”.

Eco delle Bolle. Conversazioni sulle frenesie finanziarie
Alessandro Greppi
Franco Angeli, 2025

Appena dato alle stampe un libro che è una bussola per capire meglio l’economia finanziaria

Destreggiarsi tra economia reale ed economia finanziaria. E riuscire a governare le imprese con attenzione e consapevolezza. Ci sono sicuramente anche questi tra i compiti del manager e dell’imprenditore avveduto. Responsabilità che vanno al di là della produzione in senso stretto, ma alle quali comunque è necessario rispondere. E tutto procurandosi strumenti conoscitivi adeguati come “Eco delle Bolle. Conversazioni sulle frenesie finanziarie”, ultima fatica letteraria di Alessandro Greppi che ha inteso, come viene precisato nella prime pagine del libro, scrivere non un manuale ma costruire una sorta di bussola per riconoscere i segnali che spesso sfuggono, imparando dai successi e dagli errori di chi quei mercati li vive ogni giorno.
Greppi ragiona tenendo conto che – lo si voglia o no – ci si ritrova a vivere e a lavorare in un mondo dove la speculazione finanziaria influenza ogni aspetto dell’attività. “Eco delle Bolle” ha quindi l’obiettivo di guidare chi legge attraverso le dinamiche di mercato che hanno segnato la storia e continuano a ripetersi. Il libro offre una prospettiva per interpretare i mercati, comprendere le emozioni che li muovono e cogliere le opportunità che nascono dalle crisi. Perché, soprattutto nella finanza ma in generale nell’economia così come in ogni aspetto della vita umana, le emozioni contano come i fatti (e spesso di più).
La speculazione finanziaria, quindi, è l’oggetto del libro, un oggetto che spesso sembra incomprensibile e imprevedibile e che deve essere osservato e studiato con occhi particolari. Per farlo, chi legge viene prima condotto a conoscere i mercati finanziari partendo dalla loro teoria e dalla loro storia, per passare poi alle emozioni come elementi importanti di cui tenere conto. Si passa poi ad approfondire quanto avviene in Italia e nel mondo, ma anche ad argomenti specifici come quelli legati ai nuovi mercati finanziari così come ai periodi di caos negli stessi.
Ricorda Greppi nelle conclusioni: “I sistemi finanziari, generalmente percepiti come un regno freddo e razionale dominato dai numeri, sono in realtà una fotografia in tempo reale delle conseguenze delle nostre scelte, emozioni e fragilità”.

Eco delle Bolle. Conversazioni sulle frenesie finanziarie
Alessandro Greppi
Franco Angeli, 2025

Imprese da Formula 1

Una tesi discussa presso l’Università di Padova mette in relazione le competizioni sportive con il marketing e le aziende

Sport e impresa. Binomio ormai consolidato per molti comparti. Anche dal punto di vista della comunicazione. Binomio che indica, tra l’altro, un modo particolare di intendere la relazione tra fabbrica e società. Passa anche dalle attività sportive, inoltre, un’immagine particolare dell’attività produttiva. Analizzare i tanti aspetti della relazione tra lo sport – in particolare le competizioni di Formula 1 – e l’attività d’impresa dal punto di vista del marketing, è l’obiettivo di “La Formula 1 come Piattaforma di Marketing: analisi delle Partnership” ricerca di Erica Raiola che ha preso la forma di una tesi discussa presso  l’Università degli Studi di Padova.

Raiola inserisce la collaborazione tra le aziende e la Formula 1 nell’ambito dell’evoluzione della comunicazione d’impresa analizzando prima gli strumenti a disposizione più tradizionali e  poi quelli indicati come “contemporanei”. Nella seconda parte dell’indagine, viene approfondito l’ambito delle competizioni automobilistiche di alto livello prima in con una descrizione generale e, poi, con una serie di casi specifici, Chiude la ricerca l’analisi empirica attraverso un questionario con l’obiettivo di rilevare concretamente  le relazioni tra competizioni, marketing, imprese coinvolte, pubblico. Fa notare Erica Raiola come nel tempo la relazione tra sport e imprese mediata dalle tecniche di marketing abbia mutato anche culturalmente i suoi tratti.  “Con il passare degli anni – viene fatto notare nelle conclusioni – i destinatari target hanno sviluppato nuove esigenze e non sono più soddisfatti e non vogliono solo vedere un prodotto pubblicizzato, ma vogliono vivere una vera e propria esperienza attorno al suo acquisto”. È la nascita del “marketing esperienziale” che si concentra sul creare “qualcosa di emozionale attorno al prodotto, al fine di fidelizzare i clienti e aumentarne il coinvolgimento”. Emozione e prodotto, dunque, che si uniscono attraverso lo sport.

La ricerca di Erica Raiola è un buon esempio di come approfondire collegamenti tra attività e ambiti solo in apparenza distanti.

 

La Formula 1 come Piattaforma di Marketing: analisi delle Partnership

Erica Raiola

Università degli Studi di Padova Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione

Una tesi discussa presso l’Università di Padova mette in relazione le competizioni sportive con il marketing e le aziende

Sport e impresa. Binomio ormai consolidato per molti comparti. Anche dal punto di vista della comunicazione. Binomio che indica, tra l’altro, un modo particolare di intendere la relazione tra fabbrica e società. Passa anche dalle attività sportive, inoltre, un’immagine particolare dell’attività produttiva. Analizzare i tanti aspetti della relazione tra lo sport – in particolare le competizioni di Formula 1 – e l’attività d’impresa dal punto di vista del marketing, è l’obiettivo di “La Formula 1 come Piattaforma di Marketing: analisi delle Partnership” ricerca di Erica Raiola che ha preso la forma di una tesi discussa presso  l’Università degli Studi di Padova.

Raiola inserisce la collaborazione tra le aziende e la Formula 1 nell’ambito dell’evoluzione della comunicazione d’impresa analizzando prima gli strumenti a disposizione più tradizionali e  poi quelli indicati come “contemporanei”. Nella seconda parte dell’indagine, viene approfondito l’ambito delle competizioni automobilistiche di alto livello prima in con una descrizione generale e, poi, con una serie di casi specifici, Chiude la ricerca l’analisi empirica attraverso un questionario con l’obiettivo di rilevare concretamente  le relazioni tra competizioni, marketing, imprese coinvolte, pubblico. Fa notare Erica Raiola come nel tempo la relazione tra sport e imprese mediata dalle tecniche di marketing abbia mutato anche culturalmente i suoi tratti.  “Con il passare degli anni – viene fatto notare nelle conclusioni – i destinatari target hanno sviluppato nuove esigenze e non sono più soddisfatti e non vogliono solo vedere un prodotto pubblicizzato, ma vogliono vivere una vera e propria esperienza attorno al suo acquisto”. È la nascita del “marketing esperienziale” che si concentra sul creare “qualcosa di emozionale attorno al prodotto, al fine di fidelizzare i clienti e aumentarne il coinvolgimento”. Emozione e prodotto, dunque, che si uniscono attraverso lo sport.

La ricerca di Erica Raiola è un buon esempio di come approfondire collegamenti tra attività e ambiti solo in apparenza distanti.

 

La Formula 1 come Piattaforma di Marketing: analisi delle Partnership

Erica Raiola

Università degli Studi di Padova Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione

Adesso tocca all’Europa attrarre scienziati e giovani in cerca di migliori condizioni di ricerca e di lavoro

“I dazi ridisegnano la mappa del commercio globale”, scrive Il Sole24Ore (6 aprile) cercando di capire non solo la portata dello shock generale per le decisioni della Casa Bianca di Donald Trump e le ricadute del protezionismo Usa, ma anche le possibili mosse dei vari attori internazionali, sia sul piano delle necessarie trattative con gli Usa, sia su quello delle nuove relazioni possibili tra i giganti asiatici (Cina e India, innanzitutto), l’Europa, il Mercosur, due grandi nazioni americane come Canada e Messico, i paesi arabi e i più dinamici protagonisti di una ripresa dell’Africa. Terreni comunque difficili, infidi, scivolosi, tra tensioni e nuovi protagonismi nel clima difficile del Grande Disordine mondiale.

La speranza è che, messa da parte l’emotività, prevalga la saggezza di chi, come l’economista Nouriel Rubini, sostiene che “serve negoziare con l’America” perché “senza un’intesa la crescita globale andrà a picco”, ben sapendo che “i mercati finanziari hanno paura della guerra commerciale degli Usa” e che in una tale condizione di tensione, “l’Unione Europea, con più stimoli fiscali e una maggiore spesa per la difesa può evitare il peggio” (La Stampa, 6 aprile). Un’indicazione di saggezza che, purtroppo inascoltata, stava già nelle considerazioni del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta all’Assiom Forex di Torino del 15 febbraio: “In un contesto già segnato da tensioni geopolitiche, commerciali e belliche, la strategia Usa di utilizzare gli annunci sui dazi come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici con altre aree del mondo potrebbe sfuggire al controllo, generando effetti ben oltre quelli desiderati, aggravando i dissidi esistenti e aprendo nuove fratture”. Dunque, meglio trattare: “Soluzioni negoziali basate sulla cooperazione non solo rappresentano un’alternativa preferibile, ma sono necessarie per evitare una spirale di conflitto che minaccerebbe la stabilità globale”.

Servono, insomma, risposte lungimiranti e ad ampio raggio, fuori dall’escalation di dazi e controdazi, minacce e ritorsioni.

Al di là delle misure sul piano commerciale, comincia a farsi strada, in ambienti economici e accademici, una considerazione che riguarda la ricerca e la scienza e dunque lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. In sintesi: la crescita economica e i migliori equilibri sociali, proprio nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, sono fortemente influenzati dal capitale umano o, per dirla meglio, dalle capacità intellettuali e produttive delle persone. Gli Usa, con le grandi università, tra le migliori del mondo, e i centri di ricerca ricchi di solide risorse finanziarie, sono stati tradizionalmente quanto mai attrattivi. Adesso, però, il panorama sta cambiando. “Gli accademici americani fuggono dal Paese”, scrive Viviana Mazza sul Corriere della Sera (2 aprile) raccontando i tagli e i ridimensionamenti dei finanziamenti federali alle agenzie di ricerca pubblica e alle più prestigiose università (Harvard, Columbia, Penn).

Tensioni e polemiche giornalistiche a parte, vale la pena che l’Europa si ponga il problema di come incrementare le proprie capacità attrattive delle intelligenze di tanti giovani che adesso possano guardare alle università francesi e tedesche, inglesi e italiane, spagnole e olandesi e alle imprese europee. Varando un robusto sostegno ai programmi di formazione e ricerca e di accoglienza di “cervelli”, anche di ritorno. E usando sia la leva del finanziamento di programmi comuni (con un’intesa tra Ue e Regno Unito) sia le scelte di politiche attrattive per i giovani ricercatori, professori e studenti da tutto il mondo (stipendi, abitazioni, scuole e asili per i bambini, etc.). Un rientro agevolato delle migliaia di studiosi  europei che sono andati via. E una sollecitazione a chi proprio in Europa potrebbe voler studiare e lavorare.

Una strategia del genere potrebbe essere quanto mai opportuna proprio per l’Italia, anche per cercare di rallentare e poi invertire la “fuga record” dei nostri giovani all’estero: 352mila, nel decennio 2013- 2022, nelle classi d’età tra 25 e 34 anni (dati Istat su chi ha trasferito la residenza all’estero), con 132mila laureati tra loro. Il fenomeno cresce clamorosamente nel corso del tempo: 191mila sono gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più rispetto all’anno precedente. E si incupisce dunque il quadro di un’Italia che vede aggravarsi l’“inverno demografico” (appena 370mila i bambini nati nel ‘24), conosce un crescente invecchiamento e subisce la fuga delle energie più giovani, qualificate, innovative. Un’ipoteca sul futuro produttivo ma anche culturale e civile.

Serve, dunque, “un nuovo patto per il futuro”, investendo sull’istruzione ma anche sulla qualità del lavoro e della vita, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex presidente della Compagna di San Paolo (La Stampa, 6 aprile). E Carlo Rosa, amministratore delegato di Diasorin, società high tech nel settore farmaceutico, con forti presenze internazionali, aggiunge: “Possiamo riprenderci i nostri cervelli in fuga”. E già adesso “la Ue, con i programmi ERC (European Research Council) riconosce un extra bonus ai ricercatori e agli scienziati di rientro dagli Usa”. Si può fare di meglio e di più.

Serve, insomma, costruire buona politica, con intelligenza lungimirante e fantasia, andando oltre la pur indispensabile trattativa sui dazi. Rilanciare l’industria europea. Fare leva sulle nostre capacità produttive e culturali. “Tornare a ragionare sulle fabbriche e costruire un’autonomia europea dagli Usa rispetto alla digitalizzazione e alla decarbonizzazione legata all’energia”, sostiene Patrizio Bianchi, uno dei migliori economisti italiani (QN/ Il Resto del Carlino, 6 aprile). E come competere, con i colossi Usa? “Facendo i conti su quello che abbiamo già, come i centri di ricerca e i tecnopoli di Bologna, Trieste, Ispra, Bruxelles e Lussemburgo. Anche perché con i tagli alla ricerca imposti da Trump molti studiosi stanno pensando di lasciare gli Usa. Dobbiamo attirarli, invece di piangerci addosso”. E proprio a Bologna il nuovo centro di supercalcolo Leonardo può fare da tecnostruttura di alto livello europeo per le relazioni tra Artificial Intelligence, ricerca scientifica e competitività industriale.

Un buon esempio di riferimento, sull’attrattività e i progetti industriali ad alta tecnologia, arriva appunto dall’Emilia Romagna, realtà connotata da spiccata vocazione industriale, robusto dialogo tra imprese e pubbliche amministrazioni di Regione e Comuni, attive “multinazionali tascabili”, un forte legame con la sapienza manifatturiera del territorio e un capitale sociale che, nel corso del tempo, ha privilegiato i valori della collaborazione invece che le tensioni dello scontro con concorrenti e avversari. Ben sapendo cosa significhi davvero competizione, una parola che viene dal latino cum e petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune.

“Nessuna azienda può pensare di essere competitiva se non rende competitivo il territorio in cui si trova”, sostiene infatti, saggiamente, Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, una delle imprese automobilistiche high tech della Motor Valley emiliana, un’area in cui sono concentrate anche altre industrie di punta dell’automotive, da Ferrari a Lamborghini e poi ancora Maserati, Pagani, Ducati, Hass Formula Uno, Racing Bull e Marelli HP. Dieci campioni manifatturieri di rilievo internazionale. Con radici solide in una zona storicamente votata all’eccellenza meccanica. E ali per volare nell’universo internazionale. Animate da un forte spirito di concorrenza tra loro, ma anche capaci di collaborare con intelligenza lungimirante. E dunque di fare nascere la Motor University of Emilia Romagna, una sapiente struttura formativa che attrae giovani talentuosi da tutto il mondo.

Racconta Pontremoli, ospite del convegno di Assolombarda sulle strategie di crescita dell’area di Monza e Brianza, cuore manifatturiero della Grande Milano (QN/ Il Giorno, 2 aprile): “Siamo un ecosistema, grazie al rapporto tra le imprese del territorio e le quattro grandi università emiliane e romagnole. E abbiamo disegnato nove lauree magistrali, tutte in lingua inglese, in settori che, secondo noi, sarebbero stati il nostro futuro: race car design, supercar design, motorbike design, supercar production, veicoli elettrici, veicoli a guida autonoma. E quest’anno facciamo duecento laureati magistrali. Il 25% degli studenti arriva da fuori Europa, per studiare l’automotive del futuro lavorando nelle aziende dei più bei brand del mondo”. E la maggioranza dei laureati si fermano a lavorare qua: un bell’ambiente, ottimi posti di lavoro, città e paesi accoglienti. E poi, si mangia anche bene”

Racconta ancora Pontremoli: oltre l’università, abbiamo investito anche sugli Its. A Fornovo arrivano duemila studenti all’anno, da tutta italia, per essere formati su cinque competenze: stampanti 3D, Cad, robotica, fibre di carbonio e macchine a controllo numerico”.

E gli investimenti? “Ci siamo tassati, le dieci aziende automotive e le altre cinquanta collegate, perché è nel nostro interesse investire e avere persone motivate, appassionate, qualificate”.

Ricerca, formazione, tecnologia, lavoro di qualità. Insomma, “competere nel mondo vuol dire cooperare in Italia per costruire i talenti del futuro”. E, appunto, sapere essere attrattivi verso le migliori energie intellettuali e imprenditoriali dal resto del mondo.

(foto Getty Images)

“I dazi ridisegnano la mappa del commercio globale”, scrive Il Sole24Ore (6 aprile) cercando di capire non solo la portata dello shock generale per le decisioni della Casa Bianca di Donald Trump e le ricadute del protezionismo Usa, ma anche le possibili mosse dei vari attori internazionali, sia sul piano delle necessarie trattative con gli Usa, sia su quello delle nuove relazioni possibili tra i giganti asiatici (Cina e India, innanzitutto), l’Europa, il Mercosur, due grandi nazioni americane come Canada e Messico, i paesi arabi e i più dinamici protagonisti di una ripresa dell’Africa. Terreni comunque difficili, infidi, scivolosi, tra tensioni e nuovi protagonismi nel clima difficile del Grande Disordine mondiale.

La speranza è che, messa da parte l’emotività, prevalga la saggezza di chi, come l’economista Nouriel Rubini, sostiene che “serve negoziare con l’America” perché “senza un’intesa la crescita globale andrà a picco”, ben sapendo che “i mercati finanziari hanno paura della guerra commerciale degli Usa” e che in una tale condizione di tensione, “l’Unione Europea, con più stimoli fiscali e una maggiore spesa per la difesa può evitare il peggio” (La Stampa, 6 aprile). Un’indicazione di saggezza che, purtroppo inascoltata, stava già nelle considerazioni del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta all’Assiom Forex di Torino del 15 febbraio: “In un contesto già segnato da tensioni geopolitiche, commerciali e belliche, la strategia Usa di utilizzare gli annunci sui dazi come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici con altre aree del mondo potrebbe sfuggire al controllo, generando effetti ben oltre quelli desiderati, aggravando i dissidi esistenti e aprendo nuove fratture”. Dunque, meglio trattare: “Soluzioni negoziali basate sulla cooperazione non solo rappresentano un’alternativa preferibile, ma sono necessarie per evitare una spirale di conflitto che minaccerebbe la stabilità globale”.

Servono, insomma, risposte lungimiranti e ad ampio raggio, fuori dall’escalation di dazi e controdazi, minacce e ritorsioni.

Al di là delle misure sul piano commerciale, comincia a farsi strada, in ambienti economici e accademici, una considerazione che riguarda la ricerca e la scienza e dunque lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. In sintesi: la crescita economica e i migliori equilibri sociali, proprio nella stagione del primato della “economia della conoscenza”, sono fortemente influenzati dal capitale umano o, per dirla meglio, dalle capacità intellettuali e produttive delle persone. Gli Usa, con le grandi università, tra le migliori del mondo, e i centri di ricerca ricchi di solide risorse finanziarie, sono stati tradizionalmente quanto mai attrattivi. Adesso, però, il panorama sta cambiando. “Gli accademici americani fuggono dal Paese”, scrive Viviana Mazza sul Corriere della Sera (2 aprile) raccontando i tagli e i ridimensionamenti dei finanziamenti federali alle agenzie di ricerca pubblica e alle più prestigiose università (Harvard, Columbia, Penn).

Tensioni e polemiche giornalistiche a parte, vale la pena che l’Europa si ponga il problema di come incrementare le proprie capacità attrattive delle intelligenze di tanti giovani che adesso possano guardare alle università francesi e tedesche, inglesi e italiane, spagnole e olandesi e alle imprese europee. Varando un robusto sostegno ai programmi di formazione e ricerca e di accoglienza di “cervelli”, anche di ritorno. E usando sia la leva del finanziamento di programmi comuni (con un’intesa tra Ue e Regno Unito) sia le scelte di politiche attrattive per i giovani ricercatori, professori e studenti da tutto il mondo (stipendi, abitazioni, scuole e asili per i bambini, etc.). Un rientro agevolato delle migliaia di studiosi  europei che sono andati via. E una sollecitazione a chi proprio in Europa potrebbe voler studiare e lavorare.

Una strategia del genere potrebbe essere quanto mai opportuna proprio per l’Italia, anche per cercare di rallentare e poi invertire la “fuga record” dei nostri giovani all’estero: 352mila, nel decennio 2013- 2022, nelle classi d’età tra 25 e 34 anni (dati Istat su chi ha trasferito la residenza all’estero), con 132mila laureati tra loro. Il fenomeno cresce clamorosamente nel corso del tempo: 191mila sono gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più rispetto all’anno precedente. E si incupisce dunque il quadro di un’Italia che vede aggravarsi l’“inverno demografico” (appena 370mila i bambini nati nel ‘24), conosce un crescente invecchiamento e subisce la fuga delle energie più giovani, qualificate, innovative. Un’ipoteca sul futuro produttivo ma anche culturale e civile.

Serve, dunque, “un nuovo patto per il futuro”, investendo sull’istruzione ma anche sulla qualità del lavoro e della vita, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex presidente della Compagna di San Paolo (La Stampa, 6 aprile). E Carlo Rosa, amministratore delegato di Diasorin, società high tech nel settore farmaceutico, con forti presenze internazionali, aggiunge: “Possiamo riprenderci i nostri cervelli in fuga”. E già adesso “la Ue, con i programmi ERC (European Research Council) riconosce un extra bonus ai ricercatori e agli scienziati di rientro dagli Usa”. Si può fare di meglio e di più.

Serve, insomma, costruire buona politica, con intelligenza lungimirante e fantasia, andando oltre la pur indispensabile trattativa sui dazi. Rilanciare l’industria europea. Fare leva sulle nostre capacità produttive e culturali. “Tornare a ragionare sulle fabbriche e costruire un’autonomia europea dagli Usa rispetto alla digitalizzazione e alla decarbonizzazione legata all’energia”, sostiene Patrizio Bianchi, uno dei migliori economisti italiani (QN/ Il Resto del Carlino, 6 aprile). E come competere, con i colossi Usa? “Facendo i conti su quello che abbiamo già, come i centri di ricerca e i tecnopoli di Bologna, Trieste, Ispra, Bruxelles e Lussemburgo. Anche perché con i tagli alla ricerca imposti da Trump molti studiosi stanno pensando di lasciare gli Usa. Dobbiamo attirarli, invece di piangerci addosso”. E proprio a Bologna il nuovo centro di supercalcolo Leonardo può fare da tecnostruttura di alto livello europeo per le relazioni tra Artificial Intelligence, ricerca scientifica e competitività industriale.

Un buon esempio di riferimento, sull’attrattività e i progetti industriali ad alta tecnologia, arriva appunto dall’Emilia Romagna, realtà connotata da spiccata vocazione industriale, robusto dialogo tra imprese e pubbliche amministrazioni di Regione e Comuni, attive “multinazionali tascabili”, un forte legame con la sapienza manifatturiera del territorio e un capitale sociale che, nel corso del tempo, ha privilegiato i valori della collaborazione invece che le tensioni dello scontro con concorrenti e avversari. Ben sapendo cosa significhi davvero competizione, una parola che viene dal latino cum e petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune.

“Nessuna azienda può pensare di essere competitiva se non rende competitivo il territorio in cui si trova”, sostiene infatti, saggiamente, Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, una delle imprese automobilistiche high tech della Motor Valley emiliana, un’area in cui sono concentrate anche altre industrie di punta dell’automotive, da Ferrari a Lamborghini e poi ancora Maserati, Pagani, Ducati, Hass Formula Uno, Racing Bull e Marelli HP. Dieci campioni manifatturieri di rilievo internazionale. Con radici solide in una zona storicamente votata all’eccellenza meccanica. E ali per volare nell’universo internazionale. Animate da un forte spirito di concorrenza tra loro, ma anche capaci di collaborare con intelligenza lungimirante. E dunque di fare nascere la Motor University of Emilia Romagna, una sapiente struttura formativa che attrae giovani talentuosi da tutto il mondo.

Racconta Pontremoli, ospite del convegno di Assolombarda sulle strategie di crescita dell’area di Monza e Brianza, cuore manifatturiero della Grande Milano (QN/ Il Giorno, 2 aprile): “Siamo un ecosistema, grazie al rapporto tra le imprese del territorio e le quattro grandi università emiliane e romagnole. E abbiamo disegnato nove lauree magistrali, tutte in lingua inglese, in settori che, secondo noi, sarebbero stati il nostro futuro: race car design, supercar design, motorbike design, supercar production, veicoli elettrici, veicoli a guida autonoma. E quest’anno facciamo duecento laureati magistrali. Il 25% degli studenti arriva da fuori Europa, per studiare l’automotive del futuro lavorando nelle aziende dei più bei brand del mondo”. E la maggioranza dei laureati si fermano a lavorare qua: un bell’ambiente, ottimi posti di lavoro, città e paesi accoglienti. E poi, si mangia anche bene”

Racconta ancora Pontremoli: oltre l’università, abbiamo investito anche sugli Its. A Fornovo arrivano duemila studenti all’anno, da tutta italia, per essere formati su cinque competenze: stampanti 3D, Cad, robotica, fibre di carbonio e macchine a controllo numerico”.

E gli investimenti? “Ci siamo tassati, le dieci aziende automotive e le altre cinquanta collegate, perché è nel nostro interesse investire e avere persone motivate, appassionate, qualificate”.

Ricerca, formazione, tecnologia, lavoro di qualità. Insomma, “competere nel mondo vuol dire cooperare in Italia per costruire i talenti del futuro”. E, appunto, sapere essere attrattivi verso le migliori energie intellettuali e imprenditoriali dal resto del mondo.

(foto Getty Images)

“Cultura come il pane”, la luminosità dei libri per ragionare di sviluppo sociale e civile

“Pane e cultura” era lo slogan di uno dei sindaci più popolari di Milano, Antonio Greppi, socialista, per dare il senso strategico dell’impegno per la rinascita della città e dell’Italia, dopo i disastri della guerra e del fascismo: la rapida riapertura della Scala bombardata, la ripresa delle fabbriche, la ricostruzione di case e servizi pubblici, il nuovo corso dell’informazione libera e dell’editoria, un orizzonte d’intraprendenza e lavoro.

“La cultura come il pane”, è la frase che campeggia oggi all’ingresso della biblioteca nell’Headquarters di Pirelli in Bicocca, per ricordare l’impegno legato alla nascita del Centro Culturale Pirelli, nel 1947, proprio in quegli anni dinamici e carichi di speranze capaci di andare oltre l’orizzonte delle rovine: attività legate alla letteratura, al teatro, alla musica, alla fotografia. E così l’impresa, promuovendo cultura, si caratterizzava come attore non solo economico, ma anche civile e sociale.

Vengono in mente proprio quelle due parole, pane e cultura, e cioè lavoro e conoscenza, benessere e sapere, impresa e sviluppo, guardando la costruzione di “Library of light”, la grande installazione dell’artista britannica Es Devlin nel Cortile d’onore della Pinacoteca di Brera, con i suoi 2mila libri ospitati negli scaffali circolari luminosi proprio davanti alla statua di Maria Gaetana Agnesi, matematica e filosofa del Settecento, la prima donna autrice di un libro di matematica, la prima ad avere una cattedra universitaria della materia. La “biblioteca di luce” è una delle tre installazioni (le altre sono di Bob Wilson e di Paolo Sorrentino) che caratterizzeranno, dal 7 aprile, la Design Week e il Salone del Mobile. E anche qui impresa e cultura, creatività e produzione industriale, memoria del “saper fare” e innovazione si ritroveranno a costruire originali sintesi, nel segno di una vera e propria “cultura politecnica” che continua a ibridare saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e tecnologie d’avanguardia. Una dimensione del mondo molto italiana, di cui essere orgogliosi.

Pane e cultura di nuovo oggi, appunto. In dimensione contemporanea. Consapevolezza storica. Sguardi al futuro. Ancora una volta, nella metropoli che rappresenta queste dimensioni in modo esemplare, Milano. Milano, città di libri, racconti, pubblicazioni, parole colte, civiltà del dialogo tra tensioni ed opinioni diverse: “Il potere delle idee/ le idee del potere”, è il leitmotiv di BookCity Milano 2025. Discussioni sulle crisi geopolitiche ed etiche in corso, riflessioni sulla storia e sull’avvenire.

Allargando lo sguardo agli aspetti positivi che, nonostante tutto, segnano questi nostri tempi inquieti e inquietanti, se ne ritrovano solide connotazioni di pratiche culturali e di valori nell’Index of Economic Freedom 2025 della Heritage Foundation, che misura ogni anno la libertà economica in 184 paesi. “Un filo rosso unisce il grado di libertà economica e il benessere dei cittadini”, commenta Alessandro De Nicola (la Repubblica/ Affari & Finanza, 24 marzo), ben sapendo quanto siano forti le relazioni tra qualità della vita e del lavoro e libertà economica, libertà culturale e libertà nella ricerca scientifica.

La Heritage Foundation è un think tank del campo conservatore, apprezzato comunque trasversalmente per la serietà delle sue indagini. E in questo Freedom Index sottolinea che i Paesi con “economie libere” o “per lo più libere” hanno sia standard di vita superiori ma anche una qualità della vita nettamente migliore di quella abituale nelle economie “represse”. C’è una relazione evidente tra libertà economica, libertà politica e Stato di diritto. E dunque anche tra libertà culturali e progresso sociale e civile.

Se ne ricava una conclusione chiara: libri e libertà camminano insieme, libertà di idee e sviluppo economico hanno una strettissima correlazione. Anche così vanno, appunto, considerate l’economia della conoscenza e della bellezza e la consapevolezza dei valori dell’arte e della bellezza come asset di competitività della nostra economia. Insistendo con convinzione sui nessi tra patrimonio culturale e sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Tra pensiero critico e creatività. Tra coscienza civile e ricchezza culturale. Una dimensione da fare vivere, contro le tentazioni attuali del “presentismo”, dello sguardo distratto sullo scorrere di parole e immagini (sempre più spesso fake) sui social media cui si dedicano pochi secondi di attenzione. Contro il degrado delle parole e del “discorso pubblico”.

È una tesi forte, sostenuta anche dalle parole di Francesco Profumo, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente della Compagnia di San Paolo: “In un mondo in cui l’Intelligenza Artificiale scrive articoli, diagnostica malattie e guida automobili, il pensiero critico sarà l’unico antidoto contro un uso passivo della tecnologia. Se la scienza ci fornisce gli strumenti per conoscere il mondo, l’arte ci aiuta a immaginarne uno nuovo”. E parlare di “Steam” (l’acronimo di science, technology, engineering e mathematics, con l’aggiunta di “a” di arts) “significa riconoscere che l’innovazione nasce quando scienza e creatività si incontrano” (La Stampa, 30 marzo).

Rieccoci ai processi della conoscenza e dunque ai libri e al loro essere “pane”. Di civiltà.

Una conferma importante si ritrova proprio nella lettura della nostra Costituzione, dove queste dimensioni sono chiaramente sottolineate. “Parole vive”, dice Marta Cartabia, costituzionalista di grande rigore, Prorettrice all’Impegno Sociale e agli Affari Istituzionali all’Università Bocconi di Milano (Corriere della Sera, 24 marzo). Quali parole? “Democrazia e diritti inviolabili, dignità umana, solidarietà, eguaglianza, libertà, partecipazione, lavoro, sviluppo, salute, ambiente, future generazioni…”, enumera la Cartabia. Cui sono legate le norme della Costituzione, argine e stimolo di ogni legislazione. Una lettura dei valori della nostra società, ma anche una strategia per il futuro. Libertà enunciate, ma da mettere in pratica. Con coerenza e costanza.

Insiste infatti Marta Cartabia: “L’eguaglianza e la solidarietà, la dignità umana e la libertà e tutte le altre grandi parole della Costituzione chiedono di essere vissute, esercitate, agite, scoperte e riscoperte e soprattutto praticate quotidianamente, pena la loro inevitabile decadenza in sterile retorica”.

Anche questa strada ci riporta ai valori sociali e civili. Italiani. Ed europei. Per non dimenticare quel che connota l’Europa, nella sua dimensione storica e nella sua attualità: la capacità di tenere insieme diritti e responsabilità civile, democrazia liberale e capitalismo democratico, stimoli all’intraprendenza individuale e valori sociali e di comunità, crescita economica e benessere diffuso. Ciò che rende noi europei orgogliosi di quanto abbiamo fatto, in pace, dopo lunghe e controverse stagioni di guerre e conflitti. Ciò che ci rende odiosi agli occhi di chi ci è ostile.

Un libro, per dirlo? “Moniti all’Europa”, di Thomas Mann, saggi politici e civili scritti tra il 1922 e il 1945 (una nuova edizione è stata pubblicata da Mondadori nel 2017, con prefazione del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano”). I segni di un destino comune, dopo la tragedia nazista. L’impegno a fare valere la forza della ragione e del dialogo. Dunque, anche in queste pagine essenziali, i rapporti tra democrazia e cultura.

(foto Getty Images)

“Pane e cultura” era lo slogan di uno dei sindaci più popolari di Milano, Antonio Greppi, socialista, per dare il senso strategico dell’impegno per la rinascita della città e dell’Italia, dopo i disastri della guerra e del fascismo: la rapida riapertura della Scala bombardata, la ripresa delle fabbriche, la ricostruzione di case e servizi pubblici, il nuovo corso dell’informazione libera e dell’editoria, un orizzonte d’intraprendenza e lavoro.

“La cultura come il pane”, è la frase che campeggia oggi all’ingresso della biblioteca nell’Headquarters di Pirelli in Bicocca, per ricordare l’impegno legato alla nascita del Centro Culturale Pirelli, nel 1947, proprio in quegli anni dinamici e carichi di speranze capaci di andare oltre l’orizzonte delle rovine: attività legate alla letteratura, al teatro, alla musica, alla fotografia. E così l’impresa, promuovendo cultura, si caratterizzava come attore non solo economico, ma anche civile e sociale.

Vengono in mente proprio quelle due parole, pane e cultura, e cioè lavoro e conoscenza, benessere e sapere, impresa e sviluppo, guardando la costruzione di “Library of light”, la grande installazione dell’artista britannica Es Devlin nel Cortile d’onore della Pinacoteca di Brera, con i suoi 2mila libri ospitati negli scaffali circolari luminosi proprio davanti alla statua di Maria Gaetana Agnesi, matematica e filosofa del Settecento, la prima donna autrice di un libro di matematica, la prima ad avere una cattedra universitaria della materia. La “biblioteca di luce” è una delle tre installazioni (le altre sono di Bob Wilson e di Paolo Sorrentino) che caratterizzeranno, dal 7 aprile, la Design Week e il Salone del Mobile. E anche qui impresa e cultura, creatività e produzione industriale, memoria del “saper fare” e innovazione si ritroveranno a costruire originali sintesi, nel segno di una vera e propria “cultura politecnica” che continua a ibridare saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e tecnologie d’avanguardia. Una dimensione del mondo molto italiana, di cui essere orgogliosi.

Pane e cultura di nuovo oggi, appunto. In dimensione contemporanea. Consapevolezza storica. Sguardi al futuro. Ancora una volta, nella metropoli che rappresenta queste dimensioni in modo esemplare, Milano. Milano, città di libri, racconti, pubblicazioni, parole colte, civiltà del dialogo tra tensioni ed opinioni diverse: “Il potere delle idee/ le idee del potere”, è il leitmotiv di BookCity Milano 2025. Discussioni sulle crisi geopolitiche ed etiche in corso, riflessioni sulla storia e sull’avvenire.

Allargando lo sguardo agli aspetti positivi che, nonostante tutto, segnano questi nostri tempi inquieti e inquietanti, se ne ritrovano solide connotazioni di pratiche culturali e di valori nell’Index of Economic Freedom 2025 della Heritage Foundation, che misura ogni anno la libertà economica in 184 paesi. “Un filo rosso unisce il grado di libertà economica e il benessere dei cittadini”, commenta Alessandro De Nicola (la Repubblica/ Affari & Finanza, 24 marzo), ben sapendo quanto siano forti le relazioni tra qualità della vita e del lavoro e libertà economica, libertà culturale e libertà nella ricerca scientifica.

La Heritage Foundation è un think tank del campo conservatore, apprezzato comunque trasversalmente per la serietà delle sue indagini. E in questo Freedom Index sottolinea che i Paesi con “economie libere” o “per lo più libere” hanno sia standard di vita superiori ma anche una qualità della vita nettamente migliore di quella abituale nelle economie “represse”. C’è una relazione evidente tra libertà economica, libertà politica e Stato di diritto. E dunque anche tra libertà culturali e progresso sociale e civile.

Se ne ricava una conclusione chiara: libri e libertà camminano insieme, libertà di idee e sviluppo economico hanno una strettissima correlazione. Anche così vanno, appunto, considerate l’economia della conoscenza e della bellezza e la consapevolezza dei valori dell’arte e della bellezza come asset di competitività della nostra economia. Insistendo con convinzione sui nessi tra patrimonio culturale e sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Tra pensiero critico e creatività. Tra coscienza civile e ricchezza culturale. Una dimensione da fare vivere, contro le tentazioni attuali del “presentismo”, dello sguardo distratto sullo scorrere di parole e immagini (sempre più spesso fake) sui social media cui si dedicano pochi secondi di attenzione. Contro il degrado delle parole e del “discorso pubblico”.

È una tesi forte, sostenuta anche dalle parole di Francesco Profumo, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente della Compagnia di San Paolo: “In un mondo in cui l’Intelligenza Artificiale scrive articoli, diagnostica malattie e guida automobili, il pensiero critico sarà l’unico antidoto contro un uso passivo della tecnologia. Se la scienza ci fornisce gli strumenti per conoscere il mondo, l’arte ci aiuta a immaginarne uno nuovo”. E parlare di “Steam” (l’acronimo di science, technology, engineering e mathematics, con l’aggiunta di “a” di arts) “significa riconoscere che l’innovazione nasce quando scienza e creatività si incontrano” (La Stampa, 30 marzo).

Rieccoci ai processi della conoscenza e dunque ai libri e al loro essere “pane”. Di civiltà.

Una conferma importante si ritrova proprio nella lettura della nostra Costituzione, dove queste dimensioni sono chiaramente sottolineate. “Parole vive”, dice Marta Cartabia, costituzionalista di grande rigore, Prorettrice all’Impegno Sociale e agli Affari Istituzionali all’Università Bocconi di Milano (Corriere della Sera, 24 marzo). Quali parole? “Democrazia e diritti inviolabili, dignità umana, solidarietà, eguaglianza, libertà, partecipazione, lavoro, sviluppo, salute, ambiente, future generazioni…”, enumera la Cartabia. Cui sono legate le norme della Costituzione, argine e stimolo di ogni legislazione. Una lettura dei valori della nostra società, ma anche una strategia per il futuro. Libertà enunciate, ma da mettere in pratica. Con coerenza e costanza.

Insiste infatti Marta Cartabia: “L’eguaglianza e la solidarietà, la dignità umana e la libertà e tutte le altre grandi parole della Costituzione chiedono di essere vissute, esercitate, agite, scoperte e riscoperte e soprattutto praticate quotidianamente, pena la loro inevitabile decadenza in sterile retorica”.

Anche questa strada ci riporta ai valori sociali e civili. Italiani. Ed europei. Per non dimenticare quel che connota l’Europa, nella sua dimensione storica e nella sua attualità: la capacità di tenere insieme diritti e responsabilità civile, democrazia liberale e capitalismo democratico, stimoli all’intraprendenza individuale e valori sociali e di comunità, crescita economica e benessere diffuso. Ciò che rende noi europei orgogliosi di quanto abbiamo fatto, in pace, dopo lunghe e controverse stagioni di guerre e conflitti. Ciò che ci rende odiosi agli occhi di chi ci è ostile.

Un libro, per dirlo? “Moniti all’Europa”, di Thomas Mann, saggi politici e civili scritti tra il 1922 e il 1945 (una nuova edizione è stata pubblicata da Mondadori nel 2017, con prefazione del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano”). I segni di un destino comune, dopo la tragedia nazista. L’impegno a fare valere la forza della ragione e del dialogo. Dunque, anche in queste pagine essenziali, i rapporti tra democrazia e cultura.

(foto Getty Images)

Resilienze d’impresa

Una raccolta di ricerche sul cambiamento nelle aziende delinea una percorso valido per tutte le organizzazioni della produzione

Cambiare per crescere ancora (e meglio). Indicazione importante per tutte le organizzazioni della produzione, soprattutto oggi. Questione, come sempre, di persone prima che di procedure che, tuttavia, devono essere rese flessibili e pronte loro stesse a cambiare. È anche partendo da queste considerazioni che ha preso forma la raccolta di ricerche riunite in “Strategie di resilienza in operations management. Casi aziendali ed esperienze di eccellenza” di Pietro de Giovanni appena pubblicata.

L’indagine condotta da de Giovanni deriva da una constatazione: nella sempre più complessa arena globale le aziende devono ripensare radicalmente le proprie strategie di resilienza per sopravvivere e prosperare. Ma come? La risposta di de Giovanni nasce non dalla teoria ma dall’osservazione di una serie di casi d’impresa: FERCAM, Fincantieri, Prologis, Fedrigoni, Brembo, Prysmian, Hilti. Ogni vicenda analizzata e approfondita, indica quanto e come l’azienda in questione abbia saputo trasformare eventi dirompenti in opportunità di crescita. Ciò che emerge è il come innovazione tecnologica, sostenibilità e agilità organizzativa siano diventate componenti cruciali della resilienza moderna.

Non la teoria, si è detto, ma l’osservazione della pratica d’impresa costituisce l’ossatura portante delle ricerche di de Giovanni condotte quindi attraverso i casi di studio e le testimonianze dei loro protagonisti. L’analisi di quanto accaduto e i racconti raccolti conducono quindi chi legge lungo uno percorso che dimostra come le aziende possano progettare architetture logistiche flessibili e interconnesse; applicare sistemi predittivi basati sull’intelligenza artificiale; sviluppare relazioni collaborative con fornitori e stakeholder; integrare pratiche di economia circolare; trasformare le disruption in opportunità strategiche.

Ogni ricerca basata su una particolare esperienza d’impresa, va quindi letta concatenata alle altre per arrivare ad una visione d’insieme che, altrimenti, sarebbe impossibile.

Strategie di resilienza in operations management. Casi aziendali ed esperienze di eccellenza

Pietro de Giovanni

Egea Bocconi, 2025

Una raccolta di ricerche sul cambiamento nelle aziende delinea una percorso valido per tutte le organizzazioni della produzione

Cambiare per crescere ancora (e meglio). Indicazione importante per tutte le organizzazioni della produzione, soprattutto oggi. Questione, come sempre, di persone prima che di procedure che, tuttavia, devono essere rese flessibili e pronte loro stesse a cambiare. È anche partendo da queste considerazioni che ha preso forma la raccolta di ricerche riunite in “Strategie di resilienza in operations management. Casi aziendali ed esperienze di eccellenza” di Pietro de Giovanni appena pubblicata.

L’indagine condotta da de Giovanni deriva da una constatazione: nella sempre più complessa arena globale le aziende devono ripensare radicalmente le proprie strategie di resilienza per sopravvivere e prosperare. Ma come? La risposta di de Giovanni nasce non dalla teoria ma dall’osservazione di una serie di casi d’impresa: FERCAM, Fincantieri, Prologis, Fedrigoni, Brembo, Prysmian, Hilti. Ogni vicenda analizzata e approfondita, indica quanto e come l’azienda in questione abbia saputo trasformare eventi dirompenti in opportunità di crescita. Ciò che emerge è il come innovazione tecnologica, sostenibilità e agilità organizzativa siano diventate componenti cruciali della resilienza moderna.

Non la teoria, si è detto, ma l’osservazione della pratica d’impresa costituisce l’ossatura portante delle ricerche di de Giovanni condotte quindi attraverso i casi di studio e le testimonianze dei loro protagonisti. L’analisi di quanto accaduto e i racconti raccolti conducono quindi chi legge lungo uno percorso che dimostra come le aziende possano progettare architetture logistiche flessibili e interconnesse; applicare sistemi predittivi basati sull’intelligenza artificiale; sviluppare relazioni collaborative con fornitori e stakeholder; integrare pratiche di economia circolare; trasformare le disruption in opportunità strategiche.

Ogni ricerca basata su una particolare esperienza d’impresa, va quindi letta concatenata alle altre per arrivare ad una visione d’insieme che, altrimenti, sarebbe impossibile.

Strategie di resilienza in operations management. Casi aziendali ed esperienze di eccellenza

Pietro de Giovanni

Egea Bocconi, 2025

Energia e industria in Italia, una lunga storia

Appena dato alle stampe il racconto di uno degli aspetti cruciali dello sviluppo economico del Paese

 

Ingegno umano e tecnica, ma anche energia. Lo sviluppo dell’industria passa da questi elementi che vanno compresi a fondo. Anche nei loro intrecci. Per questo serve leggere “Super! Un secolo di energia in Italia” scritto con grande maestria da Alessandro Lanza e appena dato alle stampe.

Il racconto di Lanza sull’energia e sul suo significato per l’industria italiana è basato su una constatazione: l’energia ha rappresentato il motore dell’Italia moderna, segnandone il percorso economico e politico.  Capire l’evoluzione di questo elemento fondamentale dell’economia e del progresso, è di fatto importante per comprendere l’evoluzione del sistema industriale, la sua cultura del produrre, le prospettive da qui in avanti.

Lanza, quindi, racconta la vicenda dell’energia in Italia dalle prime esplorazioni petrolifere all’ascesa delle grandi aziende nazionali, passando per le nazionalizzazioni degli anni Sessanta e le crisi di mercato. Tutto tenendo conto di quanto il settore energetico si sia intrecciato con gli equilibri internazionali, contribuendo anzi a definire il nostro modello di sviluppo.

“Super!”, così, ripercorre un secolo di profonde trasformazioni, raccontando come l’Italia sia passata da una dipendenza totale dalle importazioni a un ruolo chiave nelle strategie globali.

Ma il libro di Alessandro Lanza fa di più. Chi legge ha modo di conoscere i momenti cruciali di una storia composta dalle visioni ambiziose dei protagonisti, dalle fasi della nazionalizzazione dell’energia elettrica, dagli shock petroliferi, dalle privatizzazioni degli anni Novanta e, poi, dalla lunga transizione verso un mercato liberalizzato. Non manca poi l’analisi di un’attualità che fa i conti con il cambiamento climatico, le nuove alleanze energetiche, il ruolo sempre più centrale delle rinnovabili e la corsa alla decarbonizzazione.

Leggere il libro di Alessandro Lanza è cosa buona per chi deve comprendere meglio uno degli aspetti cruciali – ieri come oggi – dello sviluppo economico.

Super! Un secolo di energia in Italia

Alessandro Lanza

Luiss University press, 2025

Appena dato alle stampe il racconto di uno degli aspetti cruciali dello sviluppo economico del Paese

 

Ingegno umano e tecnica, ma anche energia. Lo sviluppo dell’industria passa da questi elementi che vanno compresi a fondo. Anche nei loro intrecci. Per questo serve leggere “Super! Un secolo di energia in Italia” scritto con grande maestria da Alessandro Lanza e appena dato alle stampe.

Il racconto di Lanza sull’energia e sul suo significato per l’industria italiana è basato su una constatazione: l’energia ha rappresentato il motore dell’Italia moderna, segnandone il percorso economico e politico.  Capire l’evoluzione di questo elemento fondamentale dell’economia e del progresso, è di fatto importante per comprendere l’evoluzione del sistema industriale, la sua cultura del produrre, le prospettive da qui in avanti.

Lanza, quindi, racconta la vicenda dell’energia in Italia dalle prime esplorazioni petrolifere all’ascesa delle grandi aziende nazionali, passando per le nazionalizzazioni degli anni Sessanta e le crisi di mercato. Tutto tenendo conto di quanto il settore energetico si sia intrecciato con gli equilibri internazionali, contribuendo anzi a definire il nostro modello di sviluppo.

“Super!”, così, ripercorre un secolo di profonde trasformazioni, raccontando come l’Italia sia passata da una dipendenza totale dalle importazioni a un ruolo chiave nelle strategie globali.

Ma il libro di Alessandro Lanza fa di più. Chi legge ha modo di conoscere i momenti cruciali di una storia composta dalle visioni ambiziose dei protagonisti, dalle fasi della nazionalizzazione dell’energia elettrica, dagli shock petroliferi, dalle privatizzazioni degli anni Novanta e, poi, dalla lunga transizione verso un mercato liberalizzato. Non manca poi l’analisi di un’attualità che fa i conti con il cambiamento climatico, le nuove alleanze energetiche, il ruolo sempre più centrale delle rinnovabili e la corsa alla decarbonizzazione.

Leggere il libro di Alessandro Lanza è cosa buona per chi deve comprendere meglio uno degli aspetti cruciali – ieri come oggi – dello sviluppo economico.

Super! Un secolo di energia in Italia

Alessandro Lanza

Luiss University press, 2025

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